Le sfide della ricerca sull’integrazione europea. Intervista a Ariane Landuyt

Incontriamo la professoressa Ariane Landuyt nel suo studio presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Siena: siamo andati a trovarla con l’obiettivo di ragionare sullo stato della ricerca italiana sull’integrazione europea, sul rapporto tra storia dell’integrazione europea e storia contemporanea, sull’uso pubblico delle tematiche legate al processo di unificazione; tutto questo partendo dall’esperienza concreta, scientifica e personale, del Centro Interdipartimentale di Ricerca sull’Integrazione Europea di Siena (CRIE). La stretta vicinanza tra la chiacchierata e le prossime elezioni europee non poteva che farci toccare anche quest’ultimo tema, cercando di riflettere insieme a lei su quale tipo di europeismo stiano esprimendo le nuove formazioni politiche italiane. Ariane Landuyt, cattedra “Jean Monnet” e direttore del CRIE, costituisce una delle punte di diamante in materia di storia del processo di integrazione europea, non solo per quanto riguarda la sua attività prettamente “scientifica”, ma anche per tutti gli sforzi e le iniziative intraprese, spesso pionieristiche, tese ad avviare e sviluppare proficui rapporti di scambio tra studiosi nei vari Paesi membri – tanto da ricevere nel 2007 il Silver Award dalla Commissione europea. Ecco il risultato di questa stimolante conversazione.

Officina della Storia: Riassumiamo le tappe che stanno alla base del CRIE, la nascita, ma, soprattutto, quelle che sono state le esigenze metodologiche e scientifiche, le motivazioni di fondo, la scommessa.

Ariane Landuyt: Mi sembra opportuno iniziare da una data. Il CRIE dell’Università di Siena ha infatti da poco compiuto vent’anni di vita, anni nel corso dei quali sono state svolte molteplici iniziative caratterizzate da un costante intreccio fra impegno scientifico e didattico. Il CRIE nasce nel 1988 sulla scia di un precedente e consolidato percorso di attività didattica interdisciplinare che aveva preso le mosse a partire dal 1982, in pieno dibattito sulla necessità di rinnovamento istituzionale della Comunità europea, con l’intento di creare uno spazio di riflessione comune fra storia contemporanea e diritto comunitario. Il Seminario sull’integrazione europea attivato da me e dal prof. Valerio Grementieri – docente di diritto della CEE e compianto collega di una stagione pionieristica degli studi sul processo di integrazione europea, aveva dato vita ad una serie di incontri e di iniziative tese a creare momenti di formazione comune per gli studenti di diritto e di storia. Consideriamo che allora noi eravamo una unica facoltà di giurisprudenza: scienze politiche era soltanto un corso di laurea e l’interdisciplinarietà nasceva dalla necessità di trovare punti di incontro e confronto. Per quanto mi riguardava stavo allora passando da studi dedicati all’antifascismo ad un sempre più vivo interesse nei confronti dell’Europa. Erano proprio stati gli studi sull’antifascismo, ricchi di stimoli e di una ineludibile proiezione europea, a portarmi a riflettere sul tema dell’Europa ed a considerarlo come uno dei filoni di analisi più interessanti, soprattutto per quanto riguardava la proiezione post bellica e post fascista dell’Italia. Un altro elemento essenziale alla messa a punto dell’iniziativa è stato poi il grande aiuto intellettuale e concreto offertoci da Gaetano Arfè e da Mauro Ferri, entrambi deputati nella prima legislatura al Parlamento europeo e protagonisti – accanto ad Altiero Spinelli – dell’appassionato dibattito istituzionale conclusosi, nel 1984, con l’approvazione da parte del P.E. del progetto di Trattato dell’Unione Europea: entrambi sono stati “angeli custodi” e sostenitori di questa iniziativa interdisciplinare dai risvolti didattici, ma anche scientifici, spingendoci a sviluppare un nuovo filone di studi sulla base dell’interesse estremo suscitato da una legislatura come quella scaturita dalla prima elezione del PE a suffragio universale diretto, che a mio avviso rimane una delle più ricche di stimoli politici ed intellettuali. Ogni anno il Seminario organizzava una visita degli studenti senesi a Strasburgo e a Bruxelles, in una “full immersion” nel clima delle istituzioni comunitarie: in quel periodo abbiamo incontrato Altiero Spinelli, impegnato nella sua ultima battaglia politica ed abbiamo avuto occasione di invitare a Siena, nell’ambito del Seminario, vari commissari ed eurodeputati fra i quali Lorenzo Natali, Antonio Giolitti, Carlo Ripa di Meana ed il futuro Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Spinelli che in una delle visite ci aveva ricevuto, rimase colpito dalla vivacità e dalla preparazione, allora abbastanza rara, del gruppo di giovani studenti venuti da Siena e li cita nei suoi diari. In seguito, quando durante la seconda metà degli anni Ottanta l’impegno comunitario sul piano della cultura divenne maggiormente concreto e gli studi sull’integrazione europea si stavano affermando, decidemmo di dar seguito all’esperienza del Seminario mettendo in piedi un centro di ricerca sulle tematiche europee, anche su suggerimento di Pier Virgilio Dastoli, che avevamo conosciuto al Parlamento europeo accanto a Spinelli. Non mi stancherò mai di sottolineare il carattere profondamente interdisciplinare che è stato alla base del CRIE sin dal 1988: il Centro nasce grazie all’apporto del dipartimento di diritto pubblico cui afferiva il prof. Grementieri, del dipartimento di discipline storiche, giuridiche, politiche e sociali di cui faccio parte, di quello di studi quantitativi del prof. Achille Lemmi e, infine, di quello di economia politica del compianto prof. Dino Tarditi, grande studioso della PAC e degli interessi dei consumatori sul piano europeo, questi ultimi due colleghi appartenenti alla Facoltà di Scienze Economiche e Bancarie.

Officina della Storia: Come si sono sviluppate le tappe successive?

Ariane Landuyt: le tappe sono state scandite dall’intreccio tra didattica e ricerca: fin dal 1986 con l’avvio dei primi scambi ERASMUS, cui sia Grementieri che io avevamo contribuito facendo parte del ristretto gruppo di docenti che per l’Ateneo si era occupato del lancio del programma, si è imposta con naturalezza l’idea di contribuire a formare i giovani con un’ approccio “europeo”. Anche Dino Tarditi si stava impegnando con forza in questo senso, all’interno della sua Facoltà. Il Centro si era subito inserito, con un Modulo interdisciplinare, nelle attività previste da un’Azione pilota della Commissione, lanciata all’inizio degli anni Novanta e destinata a promuovere studi e insegnamento dell’integrazione europea, l’Action Jean Monnet. In seguito, oltre a costanti seminari annuali su temi di attualità europea, destinati ad essere inseriti nella formazione didattica degli studenti ed ai quali hanno partecipato esperti, docenti e protagonisti del processo comunitario, sono stati organizzati grandi convegni internazionali cui hanno contribuito studiosi di numerosissime Università europee. Il network Erasmus cui il Centro era legato attraverso l’intensa attività in questo campo dei propri docenti, aveva infatti aiutato a costruire una fitta rete di contatti anche sul piano scientifico. Un primo risultato di questo impegno è stata la pubblicazione a più mani del volume Europa Unita e Didattica Integrata. Storiografie e Bibliografie a confronto/A United Europe and Integratic Didactics. Historiographies and Bibliogaphies Compared, pubblicato sotto la mia curatela per i tipi di Protagon a Siena, nel 1995. Per quanto riguarda i convegni, ricordo solo i due più importanti, quello su “I movimenti per l’unità europea 1970-1986” tenutosi nell’ottobre del 1997 e quello su “Gli allargamenti della CEE/UE, 1961 – 2004”, che si è svolto nel 2004, entrambi nella magnifica cornice della Certosa di Pontignano, con il patrocinio della Commissione europea e la partecipazione di studiosi e specialisti di tutti i Paesi membri dell’Unione. Entrambe le raccolte degli Atti sono poi state pubblicate nella collana “Fonti e studi sul federalismo e sull’integrazione europea” che il Centro ha attivato con la società editrice “il Mulino” di Bologna a partire dal 2000 e che attualmente conta su di una corposa selezione di titoli, frutto in parte di un’intensa attività di collaborazione con studiosi legati al Dottorato in Storia del federalismo e dell’integrazione europea (un network dottorale che raccoglie dal 1988 le università di Pavia, Siena, Firenze, Genova e Torino), ma anche con studiosi di altre provenienze, in particolare con quelli che fanno capo all’Università di Bologna-Campus di Forlì.

Officina della Storia: due iniziative simbolo del CRIE, il network dei dottorandi de il “Dialogo sull’Europa” e il master in “European Studies”. Dialogo sull’Europa: non ci sono altre iniziative in Italia che mettano in connessione solo dottorandi o giovani ricercatori che si occupano in modo specifico di studi europei. La stessa iniziativa della SISSCO sul seminario dottorale sembra un po’ ispirarsi a “Dialogo sull’Europa”.

Ariane Landuyt: Per quanto riguarda il “Dialogo sull’Europa” abbiamo realizzato la prima edizione il 20 maggio 2004. Ancora una volta l’idea è stata frutto della nostra esperienza scientifica, cioè della difficoltà di studiare l’integrazione europea attraverso un solo approccio disciplinare e dalla constatazione che la “vecchia guardia”accademica era per lo più ancorata alla propria disciplina in modo rigorosamente separato dalle altre. Non solo. Il lavoro svolto con i giovani, dottorandi e studiosi junior con cui eravamo entrati in contatto attraverso le varie iniziative del CRIE, aveva messo in evidenza l’interesse crescente che la generazione di ricercatori, che si andava formando dopo la nascita a Maastricht della Unione Europea, rivolgeva alle tematiche concernenti il processo di integrazione comunitario. Lo sguardo di questi giovani, libero da precedenti conformismi storiografici, mostrava in nuce l’emergere di approcci storici innovativi a cui era di grande interesse dare visibilità. Le esperienze precedentemente avviate dal CRIE ci avevano portato a conoscere e a collaborare con numerosi docenti di altre università, in larga parte stranieri, che erano entrati a far parte del network del Master in European Studies. Questi colleghi insieme a quelli del Dottorato sul federalismo e sull’integrazione europea sollecitarono i propri giovani collaboratori e i giovani ricercatori dei loro Atenei a partecipare al Seminario “Dialogo sull’Europa” organizzato da Siena. Questo testimonia come il percorso avviato dalla Comunità europea con i progetti Erasmus e Jean Monnet, che ha messo in essere una fitta rete di scambi fra studenti, ma anche fra docenti, sia stato un percorso fondamentale per costruire altri tipi di iniziative pilota. Visto il successo di partecipazione alla prima “edizione”del Seminario“Dialogo sull’Europa”, il CRIE ha rinnovato ogni anno l’appuntamento, arricchendolo di nuove partecipazioni tramite un regolare“Call for Paper”rivolto al mondo giovanile della ricerca storica e pubblicando regolarmente gli Atti di tali incontri. E naturalmente sia l’organizzazione del Seminario che la pubblicazione degli Atti è stata affidata a giovani studiose, collaboratrici del Centro, che vi hanno messo tutto il loro entusiasmo e la loro carica innovativa. Questa “formula” di incontro, volutamente informale, ha consentito di far emergere attraverso il confronto nuovi talenti della ricerca, consentendo agli studiosi junior una espressione non marginalizzata ai confini serali dei convegni accademici tradizionali. Questa iniziativa ha contribuito anche a stimolare contatti sul piano internazionale fra i giovani studiosi dell’integrazione europea, creando un network assai dinamico che ha poi “gemmato” altre iniziative simili, spesso di grande interesse, come la rete RICHIE che fa capo all’IEP e alla Sorbona di Parigi, o i Seminari dei dottorandi che ultimamente viene organizzato annualmente dalla SISSCO.

Officina della Storia: Prima di Dialogo sull’Europa, da anni avevate già intrapreso l’iniziativa del Master in European Studies. Come è nata l’idea e come si è sviluppata? Cosa emerge maggiormente dalla collaborazione tra le diverse esperienze accademiche che vi partecipano?

Ariane Landuyt: Gli scambi di cui ho parlato prima che, nel tempo, hanno avuto diverse articolazioni e vari tipi di realizzazione, hanno consolidato i rapporti fra i docenti creando, attraverso una conoscenza sempre più approfondita, un solido gruppo di lavoro dalla configurazione squisitamente europea. Ciò ha consentito, come ho già accennato prima, di elaborare una riflessione comune sul modo di studiare e di insegnare il processo di integrazione europea, partendo dalle specificità nazionali. Così nel 1999 è nato il progetto del Master in European Studies “Il processo di costruzione europea”, basato sull’idea di far circolare gli studenti fra le varie Università partner, che organizzano per loro moduli specialistici su tematiche europee, sfruttando le specificità e i punti di eccellenza degli approcci scientifici locali. Il Master, che è stato inizialmente promosso dalla Commissione, nell’ambito del progetto Erasmus, si basa su di una Convenzione firmata da tutti i Rettori, che si impegnano a riconoscere la comune attività didattica ed in alcuni casi il doppio titolo, ed ha ottenuto a Berlino nel 2007 il Silver Award della Commissione europea, come progetto pilota, basato sulla interdisciplinarietà, il multilinguismo e la valorizzazione delle diverse specificità scientifiche e didattiche in un quadro di formazione unitario. Il network del Master è costituito attualmente da 10 partner e spazia da Università di antichissima tradizione come quelle di Coimbra e Salamanca, ad Università dalla collocazione ultraperiferica come quella delle Azzorre, ad Atenei legati alla cultura mediterranea come Montpellier ed Atene ed altri di cultura mitteleuropea come Hannover e in parte Strasburgo che conta anche su di uno stretto rapporto con le istituzioni comunitarie. Non mancano, naturalmente, università dei nuovi Paesi membri dell’UE, come Cracovia, Oradea e Maribor, che consentono una variegata riflessione su quella che è stata l’esperienza dei Paesi dell’Europa dell’Est, con una visione che va dal cuore del continente alla realtà balcanica. Il Master si è poi recentemente arricchito del contributo, su aspetti professionalizzanti come l’europrogettazione, del Punto Europa dell’università di Bologna – campus di Forlì e dell’ Institut Marie Haps di Bruxelles, che forma fin dagli anni Cinquanta i traduttori e gli interpreti per le istituzioni comunitarie. Anche il nostro “parterre” di studenti è vario e interessante, rigorosamente multinazionale, con numerose presenze anche extraeuropee, e questo melting pot indubbiamente contribuisce a maturare nuove e comuni sensibilità. Ancora una volta la “rete” di rapporti che si crea si proietta in ulteriori sviluppi futuri. Lo testimonia la creazione da parte degli studenti del Master della rivista trimestrale “Spazio Europa”, on line sul sito del CRIE ed organizzata e coordinata da alcuni ex-“Alumni”. Tale iniziativa editoriale raccoglie con approccio rigorosamente multilingue i contributi di studenti vecchi e nuovi, ma anche di altri giovani collaboratori in un dialogo e in un costante confronto che si dipana attraverso tutta Europa.

Per quanto poi riguarda la ricerca che nasce da questi molteplici intrecci scientifici e culturali uno dei primi risultati è stato il volume di cui ho già precedentemente parlato (Europa Unita e didattica integrata cit.) che ha proposto un bilancio della produzione scientifica esistente sull’integrazione europea, affidando ad ogni co-autore il compito di ricostruire per il proprio Paese il percorso di studi con cui erano state affrontate le tematiche in questione. Da questa indagine a più mani (fatta ormai alla metà degli anni Novanta) era emerso come ogni Paese avesse improntato della propria cultura e del proprio imprinting storico il modo con cui gli studiosi avevano affrontato ed analizzato il tema dell’integrazione europea. L’approccio scientifico risulta quindi assai diverso da un Paese all’altro, così come gli aspetti presi in esame: per alcuni, ad esempio, l’integrazione europea è stata studiata solo come un’appendice della storia delle relazioni internazionali (Francia), o come storia delle idee (Portogallo): in tutti i casi analizzati tuttavia appare evidente come la differenza di prospettiva, di approccio e di metodologia dipenda dal percorso storico nazionale.

Officina della Storia: In quest’ottica diventa interessante domandarsi qual’è stato l’impatto dell’allargamento ad Est.

Ariane Landuyt: Quando abbiamo organizzato come CRIE il convegno sugli allargamenti, invitando vari studiosi sia dei Paesi che avrebbero aderito che di quelli già membri, il problema che si è posto per i new comers è stato quello di trovare degli studiosi di storia. Per i Paesi dell’Est, a causa del loro percorso storico e politico, la disciplina storica si presentava infatti con un grande vuoto di analisi sulla storia del Novecento in generale e in particolare sulle vicende degli ultimi decenni. Abbiamo trovato dei politologi, degli economisti, ma per quanto riguardava l’analisi storica non c’era una lingua disciplinare comune di lavoro. E’ stato questo un ulteriore tassello per la valutazione del complesso mosaico metodologico – ancora in itinere- con cui è opportuno affrontare lo studio dell’integrazione europea.

Le diversità di approccio hanno fornito prospettive molto interessanti. Sarebbe bello riproporre questa analisi fra qualche anno, con l’allargamento ormai consolidato e con una riflessione storica che potesse contare su di una rilettura di lungo periodo delle vicende precedenti, ma realizzata con nuovi parametri e nuova documentazione.

Officina della Storia: Ripercorrendo la storia del CRIE sembra che la ricerca e le vicende del processo d’integrazione si intreccino spesso stimolandosi vicendevolmente. L’attuale stallo può influire sulla ricerca?

Ariane Landuyt: Si e no. A mio avviso la ricerca non sarà bloccata dalla crisi attuale che invece pone tantissimi problemi bisognosi di approfondimento. Dal punto di vista scientifico non credo che possa fermare nulla, ma anzi sono convinta che spingerà a trovare nuove chiavi interpretative. Quella che avrà forse una battuta d’arresto è la ricerca più legata all’attualità, ma questo non riguarda lo storico.

Se parliamo di ricerca storica è ancora valida la considerazione precedente, nata dalla ormai ultra decennale esperienza di bilancio sulla bibliografia e la didattica, cioè come in realtà lo stesso argomento possa essere studiato da diverse specializzazioni storiche, ma con un diverso approccio. Per esempio l’attenzione ai movimenti e ai partiti, presente in Italia fin dall’inizio nella storiografia sull’integrazione europea, è stata a lungo completamente assente sul piano francese e in parte su quello anglosassone. In Italia abbiamo avuto un doppio percorso storiografico: da un lato, soprattutto nel primo periodo, gli storici delle relazioni internazionali hanno dominato la scena – e questo spiega come la materia, interpretata come un’ aspetto della politica estera, sia stata collocata nell’area delle relazioni internazionali. Dall’altro lato – e questo credo sia un merito che va riconosciuto agli storici federalisti, c’è stata fin dall’inizio un’attenzione particolare nei confronti di quella che è la realtà dei movimenti e poi dei partiti e degli altri attori sociali, ciò che riporta l’integrazione europea nell’alveo dello studio della storia contemporanea. Un vivace dibattito continua tuttavia a contrapporre questi due filoni di ricerca. Recentemente gli storici federalisti si sono trovati particolarmente sotto mira con l’accusa di operare in una prospettiva teleologica e militante e spesso – a prescindere dalla propria impostazione storiografica – si dimentica di riconoscer loro il ruolo di pionieri che hanno avuto e il grande lavoro che hanno svolto soprattutto nel campo delle fonti. Occorre a questo punto superare questa contrapposizione, anch’essa frutto del contesto storico in cui si è sviluppata e trovare nuovi percorsi interpretativi.

Officina della Storia: …come quello sullo studio storico delle politiche europee? Qual’è il contributo che uno storico può dare nel campo dello studio delle politiche? Perché una persona che si interessa, ad esempio, di politica ambientale, dovrebbe anche prende in considerazione lo sviluppo storico della politica ambientale? Quale il valore aggiunto?

Ariane Landuyt: diciamo che l’approccio storico a questo tema è essenziale perché una riflessione di tipo diacronico consente di osservare elementi e di evidenziare problematiche visibili solo nell’ambito di un’analisi di lungo periodo che uno studio settoriale, seppur interessante, perde completamente di vista. Il valore aggiunto è dunque tutt’altro che irrilevante in quanto consente una riflessione di tipo storico-politico, che uno studio puntuale non offre. L’analisi nel tempo di una politica che tenga quindi conto dell’evoluzione del contesto di sfondo e della sua influenza sulla percezione del problema e delle scelte da operare, ci consente di calare nella realtà storica del momento ciò che nel bene e nel male è stato realizzato, traendone ipotesi e suggestioni che tengano conto del problema in profondità e ne considerino tutte le coordinate. E’ questo un percorso di studio avviato nell’ambito del CRIE ormai da vari anni, quando l’interesse scientifico in questa direzione era ancora marginale e riservato per lo più alle “grandi “politiche come la PAC. A lungo lo studio della storia dell’integrazione europea è stato incentrato sulla storia delle relazioni internazionali, sullo studio delle istituzioni e sugli attori, nell’ambito di una polemica storiografica che si concentrava sulla contrapposizione tra l’approccio intergovernativo e quello comunitario. In conseguenza di ciò, il compito di analizzare quanto aveva portato con sé in concreto il processo di integrazione europea, influendo nel bene e nel male sulla qualità della vita in Eurolandia, veniva lasciato per lo più a politologi ed economisti.

Officina della Storia: Questo ci porta a compiere un ulteriore passo avanti. Lo stato generale della ricerca sull’integrazione europea nei vari Paesi: quali sono le differenze? E gli elementi in comune? Le differenze cosa riflettono?

Ariane Landuyt: Le differenze riflettono la storia nazionale; è la storia nazionale che porta ad un approccio diverso, con il suo patrimonio assai diversificato di culture ed esperienze. E’ una presenza fortissima, ma non in senso “milwardiano”, ovvero che ogni Paese si sia servito del processo di integrazione europea ai propri fini, per rifondare la struttura dello “stato-nazione” ormai in crisi. Lo studio delle politiche comunitarie mostra come ci siano fili di interessi trasversali che non sempre necessariamente coincidono con gli interessi dei singoli Stati o quantomeno con gli interessi di quelli più forti. Questa constatazione ridimensiona l’incidenza dell’analisi milwardiana o quantomeno ne circoscrive la validità ad un determinato periodo, mentre consente di sviluppare un punto di vista europeo, relativo all’affermarsi di interessi comuni e di scelte politiche che prendono forma con il tempo, approccio che ci riporta ancora una volta sul piano della storia contemporanea.

Officina della Storia: Quanto al caso italiano, ci sono debolezze nella ricerca italiana? A cosa si possono imputare?

Ariane Landuyt: Non direi che ci siano debolezze in questo campo da attribuirsi esclusivamente alla nostra ricerca nazionale. Anzi, abbiamo una ricerca buona sui vari fronti che ho toccato in precedenza. Non vorrei essere troppo polemica, ma il provincialismo della storiografia italiana sta spesso in un’autoflagellazione di principio, dovuta ad un complesso di marginalità da cui si pensa di uscire con l’esercizio di un deprezzamento e di una svalutazione del proprio patrimonio scientifico e culturale, in modo tale da prevenire le critiche altrui. La nostra ricerca raccoglie tuttavia le conseguenze di un limite effettivo, quello di essere scritta in italiano. Questo limite – accentuato dalla scarsissima conoscenza dell’italiano all’estero, passato ormai al rango di lingua minoritaria – fa sì che dal punto di vista della diffusione la ricerca italiana venga fortemente penalizzata. Faccio un esempio. Recentemente in Francia si sta sviluppando l’interesse per lo studio dei partiti e dei movimenti politici, a lungo quasi completamente ignorato, mentre da oltre trent’anni anni tale interesse è stato coltivato in Italia. A tali studi la storiografia francese che considera tale percorso di assoluta novità, non fa quasi riferimento, mostrando come il problema sia la lingua. Per questo nella letteratura generale di riferimento gli studi francesi e inglesi (le due lingue veicolari) sono sempre presenti, anche quando sono cronologicamente successivi, mentre gli studi in italiano (come del resto quelli di larga parte delle lingue minoritarie) rischiano di rimanere a margine e quindi di essere misconosciuti.
Officina della Storia: è già possibile o lo sarà nel futuro lo scrivere una storia europea svincolata da quelli che sono i contributi e le prospettive nazionali? Si inizierà solo grazie al crollo del Muro, come se in precedenza non sia esistita una storia comune?

Ariane Landuyt: Occorre partire da prima del crollo del Muro. Il problema di costruire una storia comune si è posto da quando si è prospettata, anche solo a livello ideale, la costruzione di un’Europa unita. Potrebbe essere adottata, come punto virtuale di partenza, la prima guerra mondiale – anche se esiste un’ampia letteratura sull’Europa che tuffa le proprie radici nei periodi precedenti. Indubbiamente, la frattura della Grande Guerra, che ha scomposto il quadro geopolitico europeo e che con i Trattati di pace, parcellizzando l’Europa, ha posto le basi per i drammi successivi, costituisce il punto di partenza per fondere e accomunare memorie che non sono ancora condivise. Il tema della memoria condivisa deve giocare un ruolo centrale in tale ricostruzione: anche la storia comparata, che è comunque interessante perché ci può fornire elementi utili, fornisce un’immagine frammentata. Occorre invece intrecciare le varie memorie per far emergere una memoria europea comune.

Officina della Storia: …più la società si integra, più queste potenzialità si dispiegano. Il fatto stesso di percepire che vado a Dublino, a Parigi, a Londra e non “all’estero” ci introduce anche ad un discorso di carattere generazionale.

Ariane Landuyt: E’ indicativo come la generazione attuale non si ponga il problema dei confini, perché non ha mai vissuto le code alle frontiere e la moneta per loro è sempre stata una. Tuttavia, a mio giudizio, lo scrivere una storia europea comune non può partire dal 2000. Sarà prima necessario mettere insieme le memorie di lungo periodo e riflettere su di esse per mettere le basi di una memoria condivisa: questo dovrebbe essere il punto di partenza. Inoltre un altro aspetto va evidenziato: occorre intrecciare la storia dell’integrazione europea all’interno della storia europea, perché acquisisca una giusta dimensione. Attualmente noi abbiamo volumi di storia dell’Europa e accanto volumi di storia dell’integrazione europea. Questi due aspetti vanno connessi.

Officina della Storia: si corre il rischio che diventando sempre più importante il ruolo e lo studio dell’integrazione europea perda d’importanza lo studio della realtà nazionale? In altre parole, esiste il rischio, nella ricerca storiografica che si svilupperà sul periodo seguente al crollo del Muro di Berlino, di sottovalutare i fattori interni?

Ariane Landuyt: Questo rischio si supera intrecciando le due storie in un’unica vicenda, anche per la ragione che i due piani di analisi contribuiscono ad un chiarimento reciproco. Sappiamo benissimo che le decisioni non sono certo prese solo a Bruxelles e che questa affermazione quando viene avanzata, fa parte della polemica politica. In realtà si tratta di un intreccio storico e politico assai più complicato. Le direttive comunitarie tracciano dei percorsi e suscitano delle spinte che gli interessi comuni, in certi settori trasversali, portano poi alla maturazione come politiche comuni. Detto ciò, ci sono tutte le diversità nazionali che agiscono e che vanno conosciute per capire come i Paesi si muovano all’interno di questa scacchiera. E’ importante quindi avviare una riflessione sul percorso che il proprio Paese ha avuto all’interno dell’integrazione europea, non tanto sul piano della storia delle relazioni internazionali, quanto sul piano della storia contemporanea, scandagliano vicende di politica interna, ma anche aspetti economici, culturali e sociali. Il percorso storico delle diversità nazionali ha infatti un peso non indifferente negli atteggiamenti, nelle sensibilità e nelle modalità con cui ogni Paese interviene all’interno delle istituzioni europee per giungere ad un risultato condiviso. E se questo background non è chiaro, spesso è difficile capire certe scelte. Si usa la storia nazionale, non la si cancella. La storia europea comune non può che nascere tenendo conto di questo molteplice intreccio: un intreccio, non una comparazione.

Officina della Storia: Officina della Storia nasce anche per rispondere all’emergere di problematiche connesse all’uso pubblico della storia. Esiste un problema nell’uso pubblico della storia dell’integrazione europea? Nel dibattito politico e mediatico, si ricorre spesso alla politologia e alla sociologia. Gli interventi degli storici molte volte nascono in funzione polemica, ad esempio l’editoriale di Della Loggia sul mito europeo in seguito al discorso di Napolitano a Ventotene (E. Della Loggia, L’Italia e il mito europeo, in “Corriere della Sera”, 26 maggio 2006). C’è questa carenza di comunicazione degli storici dell’integrazione europea nel dibattito politico e mediatico nazionale? C’è un problema nell’uso pubblico del tema “Europa”?

Ariane Landuyt: Non c’è dubbio che le istituzioni comunitarie hanno sostenuto e promosso la creazione di un’area di studi funzionale a dare un radicamento, una legittimità alla costruzione europea. Si pensi, solo per citare le iniziative più importanti, al Groupe de Liaison degli storici promosso dalla Commissione ed alla serie di convegni e volumi da essi prodotti, alla rivista Historiens de l’Europe contemporaine e all’Azione Jean Monnet per la creazione di una rete di cattedre sull’integrazione europea. Tuttavia, vorrei ricordare che, anche quando l’Italia è nata come Stato, sono nate le Società di storia patria; l’uso pubblico della storia va sempre distinto dalla polemica legata alla politica attuale, in quanto ha dato anche una base di legittimità ad elementi come uno stato nuovo, partiti e movimenti alla ricerca delle proprie radici. Questo è un elemento che è stato sempre presente, ma che naturalmente non va confuso con l’uso politico della storia utilizzato “all’impronta” e senza rigore scientifico e documentario, per promuovere interessi “di parte”.

Officina della Storia: …e il dibattito mediatico? Sono altri che parlano di Europa, non gli storici dell’integrazione europea.

Ariane Landuyt: In questo contesto il ruolo degli storici manca totalmente.

Officina della Storia: come mai? C’è una riluttanza degli storici dell’integrazione europea, oppure, una volontà politica editoriale dei quotidiani e della programmazione televisiva?

Ariane Landuyt: c’è di fondo una grande ignoranza da parte dei media su quella che è la costruzione europea. Ho avuto l’occasione di partecipare qualche anno fa in Romania a due grandi convegni dedicati ad una riflessione sull’Unione europea e i mass media, durante i quali giornalisti e studiosi dell’integrazione europea di tutto il continente si erano incontrati per analizzare il rapporto fra mass media e integrazione. Da tali analisi era emersa una totale carenza di formazione su questi temi da parte dei media, indipendentemente dal Paese di appartenenza, ciò che spiega l’uso diffuso di stereotipi che sono di più facile approccio. Quello di una informazione corretta e competente è uno dei grandi problemi attuali, che concerne sia i Paesi “fondatori” che quelli di nuova adesione. L’atteggiamento da parte dell’opinione pubblica è quello del tipo: “l’informazione vuole manipolarci in funzione di un’adesione forzata all’ideale europeo”, ciò che provoca una reazione di rigetto. L’aspetto che emerge è quello di un atteggiamento ipercritico nei confronti della realtà comunitaria, nel timore che una valutazione positiva possa sembrare, come dice Galli Della Loggia, una svendita del Paese a favore del “mito” europeo, mostrandosi succubi e subalterni. Questo atteggiamento comunque è diffuso e non tocca solo l’Italia.

Nonostante queste remore, aumenta tuttavia la quantità di cittadini in visita alle istituzioni: tanto è vero che il PE sta allestendo un proprio Centro di informazione visitatori, basato su un avanzato sistema di comunicazione multimediale, per far fronte a quello che sta diventando un vero e proprio turismo di massa: il presidente Hans Pottering ha sostenuto con forza questa iniziativa, la cui supervisione è affidata ad un Comitato Accademico di esperti e che dovrebbe essere inaugurata a Bruxelles, nella sede del Parlamento, alla fine del 2009.

Tornando a parlare del CRIE e dell’importanza di intrecciare esperienze di varia natura, il Centro oltre alla propria attività didattica e di ricerca, si è da un anno impegnato anche sul piano della divulgazione “di qualità” delle vicende comunitarie, offrendo la propria consulenza scientifica ed i propri numerosi contatti internazionali alla redazione della rivista trimestrale “Imago Europae”, pubblicata in collaborazione con l’Europe Direct di Firenze per i tipi della casa editrice Nerbini. L’impostazione della rivista affonda le proprie linee guida nelle posizioni culturali maturate all’interno del CRIE, proprio grazie alla molteplicità delle esperienze che nel tempo si sono intrecciate nel Centro. La volontà di rompere l’isolamento nel quale si trovano per lo più gli studiosi di integrazione europea in rapporto al grande pubblico e sull’altro versante la mancanza da parte del grande pubblico di informazioni accessibili, ma ugualmente basate sul rigore scientifico per quanto concerne le tematiche europee, ha spinto gli studiosi del CRIE ad una crescente riflessione sulla mancanza di un approccio divulgativo “di qualità” in questo settore. Una lacuna gravissima, che affonda le proprie radici nel profondo disprezzo proprio dell’accademia italiana nei confronti della divulgazione – a differenza della cultura universitaria anglosassone, ma anche francese, che hanno prodotto e producono opere di elevata qualità in questo campo- e che lascia quindi in mano il settore a giornalisti o studiosi non professionisti, con inevitabili conseguenze sul piano del rigore storiografico. Nello specifico, per quanto riguarda la conoscenza che i cittadini hanno dell’integrazione europea, questa presa di distanza degli studiosi si trasforma in una carenza di informazioni o in una visione distorta e per lo più incompleta della realtà comunitaria e delle sue vicende che sfocia in scelte politiche (o in astensionismo) legate ad una rappresentazione e ad una percezione non corrispondente alla realtà, sia nei suoi aspetti positivi che negativi.

Officina della Storia: Ci stiamo avvicinando rapidamente alle elezioni europee del 7 giugno. Dopo una lunga fase nella quale l’ideale europeo ha inciso notevolmente sulla formazione delle culture politiche della prima Italia repubblicana – si potrebbero citare la DC, le forze laiche, la trasformazione del PCI – oggi sembra di trovarsi di fronte ad una sorta di crisi nel ruolo dell’europeismo nell’elaborazione delle nuove culture politiche e dei nuovi partiti. C’è questo rischio? È imputabile a quanto si accennava in precedenza circa la tendenza a scaricare sull’Europa e il suo processo d’integrazione i fallimenti delle classi politiche nazionali?

Ariane Landuyt: Tale fenomeno è legato alla profonda crisi economica che l’Europa sta passando e che in realtà è una crisi globale, dove le classi politiche locali tendono a scaricare sull’Unione europea le responsabilità della crisi di fronte ai propri elettori. E quindi si pone un altro grande problema, un problema politico. Finché non si affronterà a livello europeo l’obiettivo di definire i parametri di una politica sociale comune, questo problema si porrà, anche perché dove sono esplose manifestazioni “antieuropee”, come è avvenuto con i referendum in Francia, Olanda e Irlanda, va sottolineato come sia in atto una gravissima crisi sociale. Il “NO” è stato un no alla crisi, che ha dirottato verso l’Europa il rigetto che era invece diretto verso la classe politica nazionale, la quale a sua volta è stata ben contenta di orientare sull’Unione europea la rabbia dei cittadini.

Officina della Storia: però qualcosa è cambiato, Berlusconi non attacca più l’Euro dopo averlo accusato per cinque anni di essere il responsabile di tutti i malesseri economici e sociali dell’Italia.

Ariane Landuyt: Certo. L’evolvere così veloce delle vicende, e la crisi che sta esplodendo, sta rovesciando tutti i precedenti parametri di valutazione. Berlusconi in questo contesto è ben consapevole che nonostante tutte le critiche avanzate nei confronti della moneta comune, è grazie all’euro che l’economia del Paese non è completamente collassata.

Officina della Storia: Si assiste però ad un paradosso. Il centro-destra, per anni costretto a formare dei propri gruppi a Strasburgo – ad esempio Forza Europa – ha ora un chiaro referente politico europeo – il PPE – anzi ne è tra i principali protagonisti. Il partito democratico no, nonostante sia il frutto dell’unione di una serie di culture politiche – quella popolare e quella socialista – che hanno avuto sempre un loro referente europeo, che hanno costruito l’Europa.

Ariane Landuyt: penso che sarà proprio questa l’anomalia che rischierà di mettere in crisi il Partito Democratico. È davvero un paradosso. Alla lunga una mancanza di referente europeo può divenire un aspetto problematico anche in ambito nazionale e non solo nell’arena comunitaria. In questa anomalia la nostra storia nazionale ha un peso non indifferente. Per quanto riguarda il riferimento al termine socialista – e quindi la possibilità di aderire al PSE – in qualche modo è sempre presente sotto traccia la polemica che si era sviluppata nel vecchio PCI contro il partito socialista dopo la rottura del patto di unità di azione e l’approdo socialista al governo di centro sinistra, per non parlare del periodo craxiano; in secondo luogo non è stata ancora elaborata appropriatamente sotto il profilo storico la transizione incompiuta del PCI verso l’Europa, una transizione che avrebbe dovuto farlo approdare ai lidi della socialdemocrazia. Purtroppo il PCI non riuscì a compiere a tempo il definitivo distacco da Mosca prima che avvenisse il crollo del Muro e così la ricomposizione non ha mai potuto realizzarsi, in mancanza di un’adeguata rielaborazione ideologica. La mancata rielaborazione storica di questo sofferto percorso rappresenta un indubbio ostacolo alla ricomposizione della sinistra italiana: manca a questo fine una memoria condivisa. Ed è quindi più semplice cancellare una grande tradizione che nel nostro Paese ha avuto un forte radicamento, e rinunciare alla confluenza nel PSE. Per la componente cattolica del PD vale una analoga riflessione: c’è una netta difficoltà a definirsi “socialista” sempre sulla base di motivazioni rientranti nel percorso compiuto dalla storia nazionale e non adeguatamente elaborate. Mentre Forza Italia, con grande disinvoltura e nonostante le opposizioni esistenti sul piano europeo, si è inserita nel PPE, mutuando ascendenze e radici che non le sono proprie, la componente cattolica del PD non ha saputo fare un salto analogo, in nome dei valori riformatori e sociali che la contraddistinguono e che avrebbero tranquillamente potuto essere il veicolo di un’adesione alla socialdemocrazia europea. Questo ci dimostra come alcune ferite ancora non siano state curate e superate. È un problema questo che rischia di marginalizzare ulteriormente la sinistra italiana sul piano della sua presenza nel Parlamento europeo.

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    By: Massimo Piermattei

    Massimo Piermattei, curatore del numero, è professore a contratto di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università della Tuscia e membro del teaching staff della cattedra Jean Monnet “l’Europa mediterranea nell’integrazione europea: culture e società, spazi e politiche”. Le sue ricerche sono incentrate sull’europeizzazione dell’Italia e dell’Irlanda, sull’evoluzione della regione mediterranea nella storia del processo d’integrazione europea e sui partiti europei. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Crisi della repubblica e sfida europea, Bologna, Clueb 2012; Territorio, nazione, Europa: le presidenze Cossiga, Scalfaro e Ciampi, in “Presidenti. Storia e costumi della Repubblica, nell’Italia democratica”, ed. by, M. Ridolfi, Roma, Viella, 2014; On the Mediterranean shores of EU: geography, identity, economics and politics, in C. Blanco Sío-López, S. Muñoz, ed. by, Converging pathways. Spain and the European integration process, Bruxelles, Peter Lang, 2013.

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    L’Europa mediterranea nell’integrazione europea: spazi e culture, economie e politiche
    Le destre tra sovranità nazionale, localismi e sfida europea
    Officina della Storia. Indice n. 7 / 2011

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