La Gazzella e la Pantera. La gestione dell’apparenza razziale nella industria della moda

Basato su una ricerca etnografica condotta negli ultimi tre anni con diversi attori del teatro della moda dalla città di Lisbona, partecipando di eventi quali ModaLisboa, Lisboa Fashion Week, Africafashionweeklisboa Lisboa e Moda Àfrica, questo articolo discute come l’industria della moda seleziona, classifica, manipola e mette in scena i corpi di modelli e mannequins, riproducendo e rafforzando immaginari razzializzati e razzializzanti.

Nel 2013 ho iniziato un percorso di curatela e organizzazione di eventi nell’ambito della associazione EBANO (www.ebanocollective.org) che promuove attività artistiche basate su ricerca etnografica. Ho collaborato alla realizzazione di sfilate ed eventi di moda, ho organizzato casting, sessioni fotografiche, presentazioni di designers, selezioni di ambasciatori di marche e premiazioni di stilisti a livello nazionale, ho frequentato l’ambiente informale dei camerini e del dietro le quinte, partecipando di tutti gli avvenimenti legati al mondo del fashion in Portogallo, creando contatti professionali che ancora si mantengono attivi con i diversi attori coinvolti in questo mercato. La ricerca condotta nell’ultimo anno nell’ambito del progetto EXCEL[1] – che studia immaginari, desideri, ambizioni, pratiche e prospettive dei consumatori d’interventi e prodotti destinato al “miglioramento umano” dal punto di vista estetico, cognitivo e sessuale – mi ha permesso in questi anni di conoscere più a fondo l’industria della bellezza in Portogallo e i suoi principali protagonisti.

I dati che presento in questo testo provengono tuttavia da uno studio più ampio legato al mio progetto di ricerca individuale[2], per il quale a partire dal 2015 ho intervistato 14 modelle tra editoriali e commerciali (delle quali 4 Afro-Europee), 4 agenti di moda (o “bookers” come sono noti nel settore), 3 impresari di agenzie di moda, 8 organizzatori di casting, 3 make-up artists, 6 stilisti, 4 parrucchieri, 5 fotografi e 2 produttori; per un totale di 49 interviste semi-strutturate. Il campione comprende la fascia d’età tra i 18 ai 26 anni per le modelle (con eccezione di due ex-modelle tra i 45 e i 50 anni); e la fascia tra i 40 e i 50 per gli altri professionisti del settore. Come ben sappiamo, le interazioni tra ricercatore e partecipanti della ricerca non possono produrre dati neutrali. Il modo in cui i miei intervistati interpretavano la mia presenza e la mia persona nell’industria della moda ha facilitato considerevolmente il mio accesso agli eventi pubblici e privati e alle interviste. Innanzitutto il mio essere ‘Made in Italy’ funzionava come garanzia del mio ‘innato’ buon gusto e della mia competenza in moda e design. La mia esperienza di curatrice e organizzatrice di eventi mi permette inoltre di essere riconosciuta professionalmente da diversi agenti del settore. Il mio aspetto – il colore della mia pelle, occhi e capelli, i lineamenti del mio viso e il mio stile nel vestire – per un lato, ha facilitato le domande che coinvolgevano questioni di rappresentazione razziale con intervistati ‘bianchi’, poiché questi davano per scontato che condividessi i loro gusti e opinioni. Per l’altro, il mio fenotipo era immediatamente associato all’Europa dell’Est o a paesi come la Svezia, collocandomi non solo nella posizione di straniera, ma di un tipo specifico di straniera associato a un’immagine libertina di donna seducente, disinvolta e disinibita – ma anche ‘facile’ e ‘disponibile’- potenzialmente corruttrice dell’armonia familiare della famiglia conservatrice portoghese. Definite come le “Slavic Sirens”, le “Russian Gold Diggers” o ancora “Swedish hot blondes”, questi modelli di donna promiscua e dalla dubbia moralità appartengono a un’Europa distante, recente o periferica[1]. L’essere percepita in Portogallo come non portoghese, nonostante che io sia legalmente cittadina portoghese da più di una decada, mi ha invece facilitato nella creazione di empatia con le modelle Afro-Europee, con le quali condivido la categoria (indipendentemente dall’effettiva nazionalità) di ‘straniera esotica/erotica’[2]. L’essere donna mi ha facilitato molto il contatto con le donne coinvolte in questa industria e pertanto ho alla fine deciso di lavorare solo con modelle, anche per la maggiore rappresentatività del genere femminile nelle agenzie. Infine, il mio aver vissuto in dieci diversi paesi e in tre continenti mi ha consentito di frequentare i circuiti del mercato globale della moda e di cogliere le ambizioni, gli ideali di stile e bellezza egemonici, le logiche neoliberali dominanti, le tendenze, gli imperativi morali e le difficoltà di un settore professionale fatto di carriere fugaci, competizione feroce, tecnologie intense e severe di disciplina estetica. In un lavoro in cui niente è garantito e per sempre, ma nel quale anzi la data di scadenza è molto prossima, soddisfare le esigenze del mercato è caratteristica chiave e condizione necessaria per la sopravvivenza professionale. Il settore della moda, che si distingue per la centralità dell’immagine dal punto di vista dell’inserimento professionale e dell’impiegabilità, offre una prospettiva privilegiata dalla quale osservare il corpo come un progetto incessantemente in costruzione[3], un bene o una merce per rappresentare una marca e uno stile e attrarre clienti.

Avendo svolto ricerca negli ultimi anni sugli interventi cosmetici definiti come ‘etnici’, destinati ad alterare caratteristiche fisiche considerate poco attraenti secondo gli standard di bellezza egemonici (prevalentemente euro-centrati) (Pussetti 2019), ho deciso di lavorare in particolare con modelle commerciali e di alta costura, perché professionalmente soggette ai più rigorosi criteri di controllo estetico secondo logiche di mercato. Per capire come questi criteri erano incorporati e quali le pratiche disciplinatrici (dieta, sport, sonno, idratazione, chirurgia plastica, terapia ormonale, prostetici o epilazione a laser) e i modelli di riferimento dei miei soggetti etnografici, ho deciso di adottare una metodologia di ricerca incentrata sulla persona e sulla sua esperienza[4]. Riportare i racconti, le biografie, le riflessioni e le parole di persone reali, ponendo l’accento su ciò che gli stessi interlocutori indicavano come rilevante, si è rivelata un’importante strategia per non ridurre l’esperienza altrui a tipificazioni, essenzialismi e definizioni astratte, rendendo invece conto dell’eterogeneità, contraddittorietà e complessità dei discorsi che abitano gli individui. Le pratiche di costruzione estetica di un corpo ideale non comportano solo trasformazioni superficiali, ma un lavoro intenso e profondo sul ‘’, considerato come la somma di diversi elementi in un’unità, definita altrove ‘body/mind manifold[5]. Adotto – in linea con altri lavori condotti negli ultimi anni[6] – una prospettiva del ‘’, ispirata alla tradizione Foucaultiana e in particolare al lavoro del sociologo Nikolas Rose[7], non come qualcosa che ‘è’ ma come qualcosa che ‘è fatto’ e continuamente plasmato e manipolato da vocabolari, universi morali, tecnologie e pratiche legati a contesti specifici.

La ‘razza’ come stile e l’estetica del corpo nero.

Il processo di costruzione del sé nell’industria della moda – sulla base di ideali normativi di età, genere, razza, classe sociale, orientazione sessuale, dimensione e peso del corpo – è finalizzato alla adeguazione, appropriazione, corrispondenza e valore delle mannequins alle tendenze e alle necessità del mercato. Considerando il corpo del modello come costruito, per essere commercializzabile, ho pertanto prestato particolare attenzione alla variabile ‘razza’ non solo come categoria sociale per classificare le variazioni fisionomiche, ma come “stile”, “look”, “accessorio”, “tendenza” o ancora “performance”. Il linguaggio estetizzante del mondo della moda, fatto di parole come “glamour”, “cool”, “vogue”, “chic”, “allure”, “trend” rischia acriticamente di occultare come la selezione delle modelle nere o più in generale ‘etniche’ nei casting, così come la scelta dell’out-fit, del make-up e dell’acconciatura per la sfilata e le proprie coreografie della passerella si basano molte volte su antiche iconografie e rappresentazioni coloniali della ‘Venere nera’. La letteratura accademica su corpo e bellezza nell’industria della moda è cresciuta verticalmente in questo nuovo millennio[8]. Tuttavia, ad eccezione di pochi autori[9], la maggior parte degli studi affronta superficialmente la questione della razza[10]. Pur non approfondendo il tema, tutti questi autori concordano tuttavia sulla difficoltà che i modelli con caratteristiche considerate come non ‘caucasiache’ hanno nel trovare lavoro, al punto da aver coniato una espressione propria per definire il fenomeno dell’esclusione del mercato della moda: sindrome del nero unico, ossia l’obbligo di facciata che le agenzie hanno di assumere alcuni modelli definiti come ‘etnici’ con la funzione di rappresentare la categoria. Le interviste condotte con i direttori delle principali agenzie portoghesi confermano che la domanda di modelli ‘etnici’ è molto limitata. Con le parole di David, direttore di una delle agenzie più famose di Lisbona, in un’intervista registrata in un ambito informale, durante un aperitivo con alcuni colleghi del settore:

“Non è nel nostro interesse avere in agenzia più di due o tre modelli etnici (neri o asiatici), quando statisticamente sono chiamati a lavorare solo nel 6% dei casi. In agenzia abbiamo bisogno di modelli che funzionino, che vendano bene. Vende una bellezza molto più eterea, elegante, come la bellezza dell’Europa dell’Est – modelle magre, alte, pelle diafana, quasi trasparente, capelli e occhi chiari. Va bene anche avere modelle differenti, come le rosse, con la pelle bianca-bianca o anche con le lentiggini. Avere una rossa naturale in agenzia è sempre positivo, perché sono rare e interessanti nello spettro del colore, per non parlare di come facilmente riflettono la luce, irradiano e illuminano la passerella. Queste sono le modelle con le quali i clienti vogliono identificare la loro marca, di modo che questa abbia connotazioni di classe, eleganza, cosmopolitismo e raffinatezza. Le modelle nere servono in fondo solo per le collezioni molto urbane, sai: l’effetto ghetto-chic, hip hop glam… o per le sfilate etniche, alternative, con molto colore, molta stravaganza. Insomma, quando non si parla di classe e d’élite, ma di mostrare un lato più selvaggio, più aggressivo. In alternativa riesco a farne lavorare una o due nell’alta moda. Che lì sì, ci sono quelle che sembrano giraffe, molto alte, con il collo lungo-lungo e le gambe che non finiscono più. Nell’haute-couture è il corpo strano che attira l’attenzione, non è la bellezza come la intendiamo normalmente. Nel commerciale la bellezza di una donna dell’Est vende sicuramente meglio il prodotto”.

Entra in dialogo con René la sua assistente Delfina, ex-modella afro-europea, di 48 anni:

“C’è una domanda molto limitata di modelle nere: spesso gli stilisti sollecitano solo uno o due modelle ‘etniche’ per creare l’illusione dell’integrazione della diversità e della multiculturalità nella sfilata. Secondo me, è un mero pro forma, una facciata, per non parere male. Come quando si fa sfilare una modella più vecchia o over-size o ancora trans-gender. O per esempio quando reclutano una modella in sedia a rotelle, o con la sindrome di Down, o con qualche altra disabilità. Insomma, l’idea è mostrare che si fanno lavorare anche persone di gruppi vulnerabili e generalmente esclusi dal mercato. Cos ì tutti ne escono puliti, evitando accuse di razzismo o discriminazione. Chiaramente non sono queste le modelle che lavorano davvero”.

L’alta moda tende a preferire un ideale di bellezza bianca, giovane, etero-normativo, di alta classe sociale. Se il mercato preferisce un modello di bellezza ‘Euro-centrato’, riescono a inserirsi nelle maglie del sistema solo le modelle afrodiscendenti con caratteristiche prossime a questo ideale – pelle chiara, lineamenti molto delicati, naso piccolo e sottile, capelli fluenti e luminosi, o ancora treccine lunghissime, o grandi ‘afro’. Come sostiene Barbara, direttrice di un’agenzia di moda e consulente di immagine:

“L’elemento africano che piace è quello dalla cintura in giù: gambe lunghe, glutei alti e fermi. Oppure piacciono caratteristiche spendibili come labbra carnose in contrasto con naso piccolino e occhi scuri enormi come Bambi. E se poi si trova qualcuna con occhi verdi o azzurri, la moda la adora. Ci può star bene il capello intrecciato o un grande afro rotondo… ecco cosa vende bene: la donna esotica con la faccia europea, delicata, alta e sottile… se con occhi chiari e capelli lisci anche meglio:  è ci ò che vende bene”.

Secondo Mariele, giovane modella di origine capoverdiana:

“nei casting senti una certa pressione perché per lavorare devi sembrare una donna bianca ma essere nera, o almeno quel tipo di nera che piace ai bianchi: qualcosa di diverso, ma non molto. Tipo… una bianca ricoperta di cioccolato (ride). Ma dipende anche dall’occasione, dal mercato. Quando vogliono vendere qualcosa di trasgressivo, fuori dalla norma, vogliono le più nere e tutto serve a rafforzare l’elemento etnico: dettagli animaleschi, piume, ossa, trucco da guerriere, pettinature tipo l’ultimo dei Mohicani (ride). O ci vogliono bianche o creature della giungla”.

Con le parole di un’altra modella di passarella:

“In un casting per Africafashionweeklisboa Lisboa e Moda África per esempio conviene sembrare più africana. Sembrare un’autentica donna africana: una ‘African Queen’, come dicono loro (ride)! Deve apparire più scura, io ad esempio rimuovo le estensioni e vado con i capelli corti o faccio le treccine. In pratica, dobbiamo minimizzare o massimizzare costantemente e strategicamente i nostri tratti africani per aumentare la nostra uscita sul mercato. Razza è in fondo “apparenza” nel nostro settore, che si basa sull’aspetto. Quindi è una questione di stile, di look: non penso ci sia qui una questione seria, non ci vedo del razzismo”.

Diverse interviste confermano questa percezione dell’elemento ‘razza’ come di una merce malleabile, un carattere superficiale o uno stile da mettere in scena, con cui si può giocare strategicamente, in base alle circostanze e agli obiettivi. Antonia, famosa make-up stylist, ci parla di come il colore della pelle può essere camuffato, alterato, enfatizzato in base alle esigenze:

“dipendendo dall’editoriale possiamo lavorare diversamente il colore della pelle. La bellezza classica europea gioca tra il tono pallido che diventa madreperla, vetro, opalescente e il lieve dorato dell’abbronzatura, toni caldi ma luminosi. La bellezza esotica chiede toni scuri brillanti che possano riflettere la luce, quando si vuole costruire una immagine forte, di provocazione, di rottura dei paradigmi… tipo Alek Wek o Lupita Nyongo hai presente? In generale, però, l’alta moda adora l’in-between, la bianca biondissima coi dreadlocks, la nera con gli occhi chiarissimi. Contrasti come l’androginia, i generi indefiniti, i trans… O eccessi, super alte e dinoccolate, eccessivamente magre, nasi aquilini, denti separati… quanto più strana, più serve per l’haute couture: qui la modella nera funziona, esotica, sexy, pantera, anatomicamente esuberante, oggetto provocante fetish… come Grace Jones”.

Questo immaginario è immediatamente ripreso da Ricardo, fotografo di una delle principali agenzie di moda di Lisbona, il cui principale compito è preparare il primo book fotografico alle giovani modelle recentemente assunte:

“Quando si lavora con una modella nera abbiamo due possibilità. O si gioca sull’elemento classe, e lì ci serve che sia molto magra e alta, con tratti finissimi come una europea o come Nefertiti. Per la classe ci servono regine, non ballerine di kuduro (ride). Nessun eccesso, quanto meno, meglio. Per esempio Iman, la moglie di David Bowie. In questo caso, ci serve in fondo una bianca con un tocco esotico, o una nera che venda il lusso con la classe di una bianca. Vedi, come Beyoncé per Diamonds di Armani e per L’Oreal; come Naomi Campbell nella pubblicità del Martini; o Rihanna per Armani Jeans and Underware, o ancora di Malaika Firth per Prada. Oppure ci serve l’effetto Nicki Minaj. Lo stile Venere Nera, o ancora lo stile rastafari, reggae, o rap, hip-hop, kuduro. Come Aamito Lagum, per esempio”.

Di giraffe, pantere e veneri ottentotte: etno-pornografie coloniali in passarella.

In tutte le mie interviste con attori dell’industria della moda portoghesi, quando direttamente confrontati con modelli di bellezza nera, i pochi che indicano icone fashion non ‘vaniglia’, come Alek Wek, Lupita Nyongo, Grace Jones o Naomi Campbell, immediatamente le associano a metafore che le erotizzano e animalizzano. Le prime sono associate a gazzelle, giraffe, farfalle esotiche, affascinanti e selvagge. Le seconde a tigri, pantere, animali notturni allo stesso tempo sensuali e spaventosi legati al regno della natura incontaminata.

Considerando il continente africano non come un contesto culturalmente omogeneo, ma come una area geografica investita da una moltitudine di significati, narrative, immaginari, desideri, fantasie e fantasmi, come direbbe Michel Leiris, la cui ripetizione li ha trasformati in certezze, l’immaginario coloniale della Venere nera, simbolo della sessualità animale e metafora della penetrazione coloniale di terre vergini e selvagge, continua a essere replicato inconsciamente in molto ambiti della contemporaneità.

Come i sociologi Herman Gray[11] e Sander Gilman[12] hanno sottolineato, il corpo africano ha sempre occupato uno spazio ambivalente nell’immaginario dei bianchi, tra paura e desiderio, tra orrore e fascinazione erotica. Se il corpo maschile africano rappresenta l’emblema della violenza selvaggia, la forza animale, il predatore sessuale minaccioso, la donna africana è raffigurata come eccessivamente provocante nei tratti e nelle forme, disponibile, oltraggiosamente attraente e lasciva, icone di una terra vergine e accessibile alla dominazione del colonizzatore bianco.

Sulla “venere nera”, sulla sua disponibilità, sono state scritte possibilmente ovunque le pagine più numerose della pubblicistica coloniale, attente a descriverne minuziosamente forme e nudità, rilevando come tutto in lei, dal portamento agli sguardi ai comportamenti, costituisca un invito a possederla. La metafora sessuale della conquista, della penetrazione, della dominazione e del possesso del continente sostiene la vicenda coloniale europea lungo tutto il suo corso. Se l’unione procreativa è stigmatizzata, poiché generatrice di una progenie degenerata, “geneticamente predisposta” all’ozio, all’asocialità, alla sfrenatezza sessuale, tarata dal punto di vista fisico, psicologico e morale, l’accesso sessuale al corpo eroticizzato e spesso apertamente pornografico dell’africana, seduce e attrae i giovani europei a imbarcarsi nell’impresa coloniale. L’ideologia razziale riduce le soggettività colonizzate a puro corpo. Corpo rappresentato artisticamente, analizzato scientificamente, esibito in spettacoli pubblici, come il caso rappresentativo di Sarah Bartmann, conosciuta come la Venere Ottentotta, ben evidenzia. Irvin Cemil Schic[13]usa il termine “etnopornografia” per definire tanto il discorso scientifico come la rappresentazione artistica del diciannovesimo e del ventesimo secolo del corpo nero, strumenti entrambi dell’esercizio del potere geopolitico, destinati a disumanizzare l’altro per giustificare l’impresa civilizzatrice.

Fotografate o esibite nelle esposizioni coloniali dell’Impero d’Oltremare, le “bellezze nere” diventano il simbolo più concreto dell’erotizzazione della conquista coloniale, spazi femminilizzati e selvaggi che la mascolinità imperiale europea andava a dominare. La Rosita, o Rosa o ancora Rosinha – come fu chiamata per darle un nome più comprensibile per il pubblico portoghese – la giovane esibita nel Giardino Zoologico Umano dell’Esibizione Coloniale Portoghese nel 1934 a rappresentare la Guinea Bissau, fu fotografata da Domingo Alvão in varie pose classiche messe in scena secondo i codici visuali dell’erotismo femminile europeo. Con le braccia sollevate per meglio proiettare visualmente i seni, esposta allo sguardo personificava quello che l’impero doveva essere per incoraggiare i giovani portoghesi a imbarcarsi – un luogo vergine da conquistare, pieno di ricchezze e di donne sessualmente disponibili. I ritratti della ‘Rosita’ furono poi riprodotti e venduti come souvenirs dell’evento: la sua nudità selvaggia di donna nera non offendeva la morale vigente e poteva essere esibita negli spazi familiari ricreativi[14]. L’analisi che condussi sulla letteratura coloniale portoghese per la mia tesi di dottorato mostrava che era nei tropici, o meglio nei ‘porno-tropici’, come ebbe a definirli ironicamente Anne McClintock[15], che gli Europei proiettavano le loro fantasie più trasgressive. Si parlava ovunque di corpi sinuosi di cioccolato tutti da divorare (in portoghese comer, termine che indica il mangiare ma anche il possedere sessualmente), esposti impudicamente alla vista e disponibili all’amore libero o ad amplessi selvaggi e morbosi, di donne ninfomaniache dalla libidine animale, di promiscuità e libertinaggio senza restrizioni morali, di temperamento selvaggio, di totale assenza di sentimento, affetto o devozione, d’interesse, avidità e predisposizione naturale alla prostituzione. “Gentile figurina di cioccolato, con solo una corta gonnellina a coprire le anche e le cosce, pronta a offrirsi per l’amore”[16], la donna nera “attinge molto presto la pubertà, essendo questa precocità spiegabile non solo per il clima, ma per la promiscuità nella quale vive, facilitando eccitazioni sessuali morbose fin dai più teneri anni”[17], per poi “praticare il libero concubinato e godendo tutte le delizie dell’amore libero”[18], “…in continua licenziosità, abbandonati gli uni agli altri di nascosto, nella foresta chiusa, ora selvaggia e nello stesso tempo mite”[19].

Il lavoro sul campo che ho sviluppato negli ultimi anni tanto sulla discriminazione istituzionale nel campo della salute pubblica come sulla razzializzazione della prevenzione sessuale e riproduttiva, sulla pianificazione familiare, e sull’estetica e la alterazione chirurgica dei tratti considerati come marcatori razziali mostra come questo immaginario dicotomico tra donne “nere” (ipersessuali, selvagge, produttrici e riproduttrici, promiscue e provocatorie nelle sue forme e caratteristiche sessuali e morali) e donne “bianche” (legate a ideali di eleganza, modestia, fragilità, classe, educazione, castità, decenza, asessualità, amore romantico e coniugale) sono ancora presenti anche laddove meno ce lo aspetteremmo.

Il colore della bellezza

L’incoronazione come Miss Universo della Modella sud-africana Zozibini Tunzi ha diviso il mondo: nel dibattito, su un fronte colori i quali indicavano in questa vittoria un segno dei tempi, ormai maturi per una ridefinizione dei modelli dominanti di bellezza, e sull’altro quelli che hanno sostenuto che non sia stata altro che una scelta politica destinata a dar visibilità a corporeità marginali e modelli estetici trasgressivi. Siccome la vittoria della Tunzi è stata accompagnata dalla vittoria di altre tre donne di colore nello stesso anno – Nia Franklin, Miss America 2019, Kaliegh Garris, Miss Teen USA e Cheslie Kryst Miss USA – la polemica si è accesa. Sará questo un anno di celebrazione della diversità e dell’inclusione? Staranno finalmente cambiando i paradigmi? O si tratta di eccezioni prodotte da politiche di eccezionalismo o da pretese di ridefinizione di egemonie in un’epoca post-razziale?

Discussioni di questo tipo hanno accompagnato per anno icone della moda come  Wek, Campbell o Jones. Basta ricordare i casi delle prime Miss nere incoronate in Europa: tra queste Denny Mendez, Miss Italia 1996, Rachel Christie Miss Inghilterra nel 2009. In entrambi i casi, la loro elezione creò polemica a livello nazionale. Come potevano due donne che non rispecchiavano l’ideale di bellezza nazionale, vincere un titolo che rappresenta l’immagine di un paese? La dicotomia razializzata che distingue esteticamente e eticamente la donna ‘bianca’ dalla donna ‘nera’ dettò in entrambi i casi chi poteva occupare il trono di Miss, quale corpo sarebbe stato riconosciuto, quale colore di pelle, forma, dimensione, struttura, lineamenti avrebbero rappresentato legittimamente il ‘volto’ della nazione.

Quale il volto che ci vogliamo dare? Che cosa rivelano le scelte degli agenti della moda e le richieste dei clienti che hanno partecipato della mia ricerca? Se guardassimo nello specchio di Biancaneve, chi sarebbe la più bella del reame? Marcia Ann Gillespie, che nel suo saggio Mirror Mirror analizza la narrativa euro-americana che costruisce come egemonico l’ideale di bellezza “bianca”, afferma che il “nostro” specchio (euro-americano) riflette ancora le immagini di Biancaneve, Cenerentola, Raperonzolo, Belle, Ariel e di tutte le altre candide principesse che hanno definito la nostra idea di estetica femminile[20]. I risultati dei 477 questionari che abbiamo somministrato in Portogallo nell’ambito del progetto EXCEL non sembrano contraddire le conclusioni di Gillespie. Sebbene i riferimenti siano più contemporanei, alla sfida di indicare il loro ideale di bellezza femminile, i risultati di questo primo sondaggio nazionale riaffermano un’immaginazione di sottile, chiara, delicata, eterea, elegante, bella e non troppo sensuale. Si distinguono Kristen Jaymes Stewart (che ha interpretato Biancaneve nel film di Biancaneve e il Cacciatore del 2012), Cate Blanchett (che ricordiamo come la luminosa Galadriel, la “Signora di Luce” con i suoi lunghi capelli platino), Charlize Theron (che emerge nuda come una moderna Cleopatra dorata da una piscina di oro liquido, in uno scenario che ricorda Il bagno turco di Jean-Auguste-Dominique Ingres) ed Emma Watson (la principessa Belle del film La Bella e la Bestia nel 2017).

“Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame”. Se questa domanda fosse posta a una ragazza nera, sostiene ancora Marcia Ann Gillespie – la risposta sarebbe: “certamente non tu”[21]. Biancaneve continua a regnare. Sebbene la presenza di canoni razzializzati sia evidente nelle mie interviste, come se non avesse alcuna importanza, il tema ‘razza’ non è affrontato apertamente, operando implicito come un’assenza presente, che sostiene tutto il discorso.

La femminilità ‘bianca’, considerata come ideale, appare come una norma de-politicizzata e de-razzializzata sulla base della quale tuttavia è misurata la differenza. Parlando del Portogallo come di una nazione bianca, nonostante decadi d’immigrazione e di relazioni coloniali e post-coloniali, i miei intervistati hanno delineato una netta linea divisoria tra una estetica di buon gusto, eleganza, discrezione e sobrietà propria dei portoghesi e modelli di bellezza esuberanti e chiassosi legati a chi ‘viene da fuori’ (tramite il movimento costante di persone, immagini, musica, idee).

Ana, consulente d’immagine di origine argentina, introduce un elemento importante: la distinzione di classe.

“Oggi più che mai ci sono molti concetti di bellezza. Prima c’era solo quel tipo di bellezza, la donna portoghese, con i capelli castani, elegante, lineamenti delicati, aria composta, con classe. Oggi sta cambiando tutto. Abbiamo così tante influenze, che alla fine abbiamo trovato più bello ciò che non abbiamo mai avuto qui. E così ci siamo presi le Kardashians, Anitta, curve, unghie lunghe, estensioni di capelli, unghie, ciglia, corpi sensuali, sedere sporgente, tipo le africane. Va bene, dipende anche dall’ambiente … Alle persone di alta classe sociale continua a piacere di più il tipo alto, magro, poche forme, pelle molto chiara, perfetta, capelli lisci e lucenti… un ideale di sobrietà. Quando pensiamo a una donna di potere e di classe, non pensiamo a una donna che piena di curve o con un afro in testa (ride). Questo è ciò che piace in periferia… l’estetica favela, funk, ghetto, kuduro… nelle élite non vedi nulla di tutto ciò. Magari gli piace pure, ma di certo lo non lo ammettono (ride)”

“Dipende dal concetto di bellezza di ciascuno: da un lato la bellezza eterea, come la bellezza delle donne dell’Europa dell’est; dall’altro il modello erotico, carnale, quello delle angolane, delle brasiliane. Nella moda ci rivolgiamo a clientele differenti. Ma dobbiamo tenere in conto che le classi sociali alte in Brasile o in Angola vogliono apparire europee, pelle chiara super perfetta senza imperfezioni, look discreto e elegante. Noi che vediamo da fuori abbiamo imparato ad adattarci allo stile europeo: ad esempio facendo qualcosa che chiamiamo make up no make up, che è un trucco super minimalista che rende la pelle luminosa e radiosa, ma è come se non ci fosse. È anche chiamato classy o sleek make up. Praticamente senza gli eccessi tipici delle africane o delle brasiliane”.

Interviene quindi una ex-modella di origini mozambicane sostenendo che:

“Una modella vive sulla sua immagine. Quando ti chiamano a un casting, devi essere impeccabile, perfetta. È il tuo lavoro, la tua immagine … devi imparare cosa significano nella moda la bellezza e l’eleganza … unghie curate, ma non finte e niente smalto vistoso, nessun trucco caricato, no alle estensioni per capelli, no alle ciglia finte, no ai lustrini – non se mi faccio capire (ridendo). Devi essere molto ‘clean’, trucco super ‘lite’, quasi inesistente, solo una base, una lucentezza e una polvere di riso per sembrare più chiara e luminosa. Guarda che curioso: io vengo dalla tribù Macua del Mozambico. I Macua hanno una storia di bellezza legata alle maschere… maschere bianche sulla pelle nera. Hai mai visto pubblicità del Mozambico nelle agenzie di viaggi? Le donne nere con maschere bianche? Sono le Macua. È una pianta che si gratta e da lì si produce una pasta bianca per decorare il viso, per avere la pelle più chiara, illuminata, per rendere il viso più bello. Rendere la pasta sottile come una polvere di riso è difficile, richiede molto lavoro. Ma ne vale la pena perché questa pasta (mussiro) illumina molto la pelle, schiarisce e combatte le imperfezioni della pelle! La usano già tutto in Mozambico, non solo le Macua. È persino usata nelle sfilate del Mozambique Fashion Week!”.

Questo ideale di bellezza eterea, pura, luminosa e sbiancata[22] che questa intervista e la mia intera ricerca mette in luce, diventa l’apice nella contemporaneità di una gerarchia estetica che attraversa buona parte della storia europea dipendendo dalla e alimentato dal contatto con il ‘soggetto coloniale’. Basandosi su ideologie antiche che valorizzano la cultura e l’estetica europea e le sue implicite basi morali[23], queste “sfumature di differenza”[24] classificano i corpi non creando solo una linea di colore tra l’Europa civilizzata e i territori delle colonie, ma anche gerarchizzando le diverse popolazioni nel territorio Europeo. Le rappresentazioni del femminile che questa ricerca ha individuato – legati a immaginari di razza, genere e classe – hanno (e continuano ad avere) un profondo impatto sulla riproduzione di ciò che è considerato un corpo normale/desiderato/legittimo/valorizzato. Ovviamente non stiamo parlando tanto di un corpo reale, quanto di rappresentazioni e fantasie di perfezione e di ‘noi’, della costruzione di un’identità o di uno stile europeo[25], costantemente riprodotto per consolidare i propri confini e proteggerli dall’alterità. Questo immaginario ha tuttavia effetti reali sulla vita delle persone e modella letteralmente il corpo di tutti colori che rappresentano altre estetiche e economie simboliche codificate dal colore.

In conclusione, tuttavia, vorrei riportare un breve estratto dell’intervista con una delle modelle afro-portoghesi più conosciute nel panorama iberico. Nonostante la sua pelle molto chiara, ammette di essersi sentita alvo di discriminazione nei castings, da parte delle colleghe e dei gerenti delle agenzie, dei truccatori che erano critici sul suo tono della pelle, così difficile da schiarire e dei parrucchieri che definivano i suoi capelli come arbusti indomabili. Catarina condivide con noi questa memoria:

“Stavo sfilando a Vienna d’Austria, era tutto favoloso. Per la prima volta uni stilista mi chiede di chiudere lo spettacolo, uscendo sulla passarella con un abito da sposa. Ma quando entro sulla scena, metà del pubblico si alza e se ne va. Ho capito allora perché è così raro vedere una donna nera con un abito da sposa bianco a chiudere una sfilata. Ho fatto la passarella con le lacrime agli occhi, mi sono sentita offesa come mai nella vita. Ma sono professionale e ho continuato. Poi però dietro le quinte ho chiesto, perché, perché non posso indossare un vestito come Sissi, la principessa? Anche i neri si sposano! Anche gli zingari si sposano. No, noi nere siamo scelte solo per il barocco, abiti stravaganti. Noi donne nere sopportiamo tutto. Colori, esagerazioni, le cose più esagerate, le più esotiche. Rafael (il suo agente), in me… vedi, io non ero così prima [indica con la mano i suoi capelli lisci e la pelle chiara]. A poco a poco ho dovuto cambiare il tono della mia pelle con creme, saponi, e lisciare i capelli e prima o poi penso che diventerò simile alle donne di classe, in modo che io possa essere accettata nei nuclei giusti e magari ancora una volta sfilare in abito da sposa”.


Bibliografia

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[1] Il progetto EXCEL “The Pursuit of Excellence. Biotechnologies, enhancement and body capital in Portugal” (PTDC/SOC-ANT/30572/2017) é finanziato dalla Fundação pela Ciência e Tecnologia e coordinato da Chiara Pussetti presso l’Instituto de Ciências Sociais della Università di Lisbona, Portogallo. www.excelproject.eu

[2] From Ebony to Ivory: Cosmetic citizens, and transnational circuits of  “ethnic” surgery nell’ambito del progetto di post-dottorato finanziato dalla Fundação para a Ciência e a Tecnologia (SFRH/BPD/95998/2013).

[1] Hale 2003; Halej 2014; Jacobsen & Skilbrei 2010; Wiedlack 2019; El-Tayeb 2011.

[2] Pussetti 2015a, 2015b, 2020a.

[3] Elias, Gill, Scharff 2017.

[4] Hollan 1997.

[5] Samuel 1990.

[6] Pussetti 2009, 2011, 2012c, 2013, 2015c.

[7] Rose 1996.

[8] Entwistle, 2002, 2004; Entwistle and Wissinger, 2006; Haidarali, 2005; Maynard, 1999; Mears, 2008, 2010; Mears and Finlay, 2005; Neff et al, 2005; Sadre-Orafai, 2008; Soley Beltran, 2006; Wissinger, 2007, 2009.

[9] Dean 2005, 2008; Williams e Connell 2010, Candelario 2007; Casanova 2004, 2011; Craig 2006; Felski 2006; Hobson 2005; Tate 2009, 2015, 2016; Jarrin 2015.

[10] Nickson e Warhurst, 2007; Nickson et al., 2001, 2003; Pettinger, 2004; Speiss and Waring, 2005; Warhurst e Nickson, 2001, 2007a, 2007b, 2009; Warhurst et al., 2000; Witz et al., 2003.

[11] 1995: 165.

[12] 1985: 23.

[13] Schick 1999.

[14] Carvalho 2008; Vicente 2013; Garraio 2016.

[15] 1995: 22.

[16] Simões Landerset 1935: 148.

[17] José Mendes Moreira 1946: 79.

[18] José Mendes Moreira 1946: 98.

[19] Francisco Valoura 1972: 271.

[20] 2003: 202.

[21] 2003: 202.

[22] Ware 1993; Frankenberg 1993; Poitevin 2011.

[23] Benthien 2002; Stoler 2002.

[24] Glenn 2008, 2009.

[25] Ferguson 1999.

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    By: Chiara Pussetti

    Chiara Pussetti (PhD 2003, Università di Torino, Italia) è ricercatrice presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Università di Lisbona e dal 2017 coordina il progetto “EXCEL The Pursuit of Excellence”(PTDC / SOC-ANT / 30572/2017) (www.excelproject.eu). Negli ultimi diciassette anni ha insegnato, condotto ricerca e pubblicato estensivamente su temi di migrazione, genere, corpo ed emozioni.

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