Patroni e protettori nel mondo del lavoro di fine Ottocento: rappresentare il genere attraverso un case study

È noto che la Chiesa cattolica prese coscienza con ritardo, lentezza e fatica delle sostanziali novità portate in campo sociale dalla rivoluzione industriale, trovandosi a fronteggiare lo sviluppo dell’industrializzazione e la formazione di un mondo operaio che le sfuggiva. Nel mondo del lavoro ottocentesco inizia a penetrare la religione, l’etica del lavoro, attraverso un’ampia letteratura smilesiana o self-helpista a partire dalla metà degli anni Sessanta. Tali dottrine, espressione di un’aspirazione ideale della classe politica e imprenditoriale italiana del tempo ad aggregare ceti industriali e ceti operai attorno a una ideologia patriottica, civile e di progresso economico, hanno avuto una certa influenza, sia pur limitata, negli strati sociali, anche operai, a cui si rivolgevano[1].

Parlare di santi patroni nel mondo del lavoro di fine Ottocento solleva in partenza alcune questioni storiche e storiografiche rilevanti. La storia dei santi e dei culti raramente è oggetto di una trattazione sistematica nella storiografia della religiosità contemporanea. Proporli all’interno della storia dell’Ottocento pone una attenzione particolare su ciò che viene modificandosi sul piano istituzionale e agiografico, e sulla riproposizione di vecchi culti e il radicarsi di nuovi. Queste tematiche ci aiutano a cogliere anche le modalità e le ambivalenze con cui la Chiesa si misura con i processi di modernizzazione, non solo per ragioni tattiche e di mera sopravvivenza, ma anche di sintonia con le passioni del tempo. Seguendo il percorso della religiosità vissuta e del suo innestarsi nei comportamenti sociali diffusi, si giunge a scorgere il contatto tra il sacro e il linguaggio e la sensibilità laica della società: una sorta di deflessione che trasmuta il sacro nella forma di “mito”. Espressione ed esito della secolarizzazione, i miti e i simboli della cultura laica ne svelano la doppia anima: essa è antitesi del religioso, ma è al contempo impregnata di quel senso di sacro che essa stessa è dedita a debellare[2].

Dopo l’Unità d’Italia, favorito dall’atteggiamento ostile alla Chiesa del governo laico, dalla fase avanzata del processo di “de cristianizzazione” e dal grado di elaborazione di una ritualità di matrice politica e civile, l’anticlericalismo si diffonde principalmente in ambito urbano, e successivamente nelle campagne gradualmente conquistate al proselitismo socialista.

Osservatorio privilegiato di queste trasformazioni in atto sono i fenomeni di festa che implicano assetti di governo, evoluzioni dell’economia e della società, aspetti della cultura e della mentalità. Caratteri e dinamiche del mutamento festivo sono determinati dal rapporto del complesso di questi fattori con gli elementi della fenomenologia festiva che, nel viterbese come altrove, si definisce e si modifica in un articolato processo di scambi e relazioni tra la festa di “lunga durata” (tradizionale e folclorica) e quella “del tempo breve” (i nuovi modelli festivi)[3]. La tipologia della festa lunga comprende anche le diffusissime feste patronali, le ricorrenze di santi circondati da particolare venerazione; la festa che ha come riferimento il calendario religioso si avvicenda, in ambito rurale, alle feste agricole del mondo del lavoro, dalla mietitura, alla trebbiatura, alla vendemmia. Nel corso dell’Ottocento questa tipologia muta sensibilmente e si arricchisce di nuove e rinnovate forme e modalità festive. Mutano i tempi che alternano le accelerazioni delle esplosioni di piazza e delle feste politiche alla sincopata atemporalità delle liturgie religiose, mutano i luoghi di riferimento fisico della festa e mutano soprattutto i protagonisti[4].

I trent’anni dopo l’Unità vedono il viterbese, area prima incardinata nello Stato Pontificio, in trasformazione, sia sotto l’aspetto politico che sociale e di costume, con una netta separazione tra potere laico del governo e quello religioso della chiesa, divisione che nel corso del tempo tenderà poi ad affievolirsi. Nel mondo del lavoro fanno il loro ingresso nuove formazioni associative ed aggregative, con le loro celebrazioni laiche. L’associazionismo pre unitario aveva visto la presenza delle compagnie di mestiere le cui modalità organizzative, quantunque soppresse, continuavano a proporsi nelle confraternite. Tipica funzione delle corporazioni era quella di porsi sotto la protezione di un santo patrono[5], celebrarne solennemente la ricorrenza festiva. Nel periodo postunitario saranno le società di mutuo soccorso[6] e le leghe di mestiere, assumendo un indirizzo laico, che erediteranno le celebrazioni degli operai.

In effetti le associazioni mutualistiche, sia per la base sociale di riferimento sia per le finalità che si pongono rappresentano un fenomeno del tutto nuovo rispetto alla struttura corporativa, essenzialmente per il carattere associativo e trasversale tra i vari comparti economici e tra i diversi gruppi sociali: i membri tendevano a migliorare le loro condizioni materiali e morali mediante i propri sforzi senza dipendere da poteri esterni laici o ecclesiastici. Se di continuità può parlarsi, il discorso va spostato dal campo formale e istituzionale a quello dell’evoluzione delle culture, dei linguaggi, delle pratiche, ossia del bagaglio di conoscenze ed esperienze che le collettività si tramandano. Dall’analisi degli statuti l’unica società del viterbese che si ispira ai santi, e che nel fatto di essere professionale ricorda le corporazioni, è la società tra i calzolai sotto il patronato dei SS. Crispino e Crispiniano, rilevata come esistente nel censimento del 1885[7] e recante come data di fondazione il 1879. Sempre seguendo il filo dell’evoluzione delle culture e delle migrazioni delle forme, dagli statuti delle arti risulta che queste erano solite adunarsi e partecipare a luminarie, nelle feste comandate dalla chiesa, principalmente quella del Corpus Domini e di S. Maria d’Agosto. Onori solenni erano dovuti ai defunti, sacro era il nome dei benefattori e, dopo la morte, a memoria delle opere loro, si celebravano riti solenni nella chiesa dell’Arte[8]. All’alba dello stato unitario l’annuale processione del Corpus Domini vantava una tradizione secolare e la festa nazionale dello Statuto era collocata proprio in sua diretta concorrenza, celebrativa e simbolica. La festa del Corpus Domini veniva celebrata sia nelle campagne che in ambito cittadino, dove assumeva particolare solennità fungendo anche da ostentazione dell’immagine dei massimi poteri civili e religiosi congiunti nel dominio e nella concordia. Dopo l’Unità d’Italia la ricorrenza decade, per l’ostilità del governo e la concorrenza della concomitante festa dello Statuto. Dal punto di vista delle società operaie, ai simboli religiosi si sostituiscono emblemi della cultura laica e delle istituzioni civili: alla croce si sostituisce la bandiera a cui tutti gli statuti dedicano una serie di norme accurate e che non era solo un semplice vessillo, ma un simbolo di unione e fratellanza. La festa solenne era organizzata per gli anniversari di fondazione[9], in cui si organizzavano balli, lotterie e banchetti. Questi momenti conviviali non erano vissuti come una perdita di tempo, una esibizione di ozio, soprattutto perché era in queste occasioni che veniva enunciato il programma dell’associazione e costituivano una sorta di liturgia laica all’interno della quale ognuno poteva identificarsi[10].

Un altro aspetto che caratterizza il periodo è infatti l’aver accostato alla religiosità ottocentesca anche miti e simboli laici, frutti tardivi dell’universo simbolico della Rivoluzione francese o figli dell’epopea risorgimentale, veri e propri reperti del processo di secolarizzazione anticristiana. Emerge allora come queste associazioni, che non si rifanno ad alcun santo patrono, abbiano invece i propri protettori laici, perpetuando così una istituzione civile già in uso presso i Romani, il patronato, per cui un signore proteggeva e beneficava persone di ceto sociale ed economico inferiore le quali a loro volta gli assicuravano la propria devozione personale ed il proprio sostegno elettorale[11]. Per quanto si è riusciti a ricostruire dai dati della Prefettura di Roma, la Società operaia di Viterbo e quella di Ronciglione, avevano come protettore Giuseppe Garibaldi eletto presidente onorario, quella di Gallese Ricciotti Garibaldi, mentre quella di Corneto, il principe Odescalchi. Al mito e alla retorica dei “padri della patria” (Vittorio Emanuele II e Garibaldi quasi ovunque, Mazzini e Cavour nelle terre di elezione), corrispose una ben diversa loro rappresentazione. Dalla parte dei democratici le memorie risorgimentali guardavano al passato con gli occhi del presente e della lotta politica postunitaria: insomma, come ha rilevato Maurizio Bertolotti, «la radicalizzazione e la polarizzazione politico-cromatica, cominciate o acceleratesi dopo il 1870, si rovesciavano sul passato fornendo un canone d’interpretazione storiografica»[12]… Anche il culto di Mazzini era presente, diffuso principalmente tra le associazioni operaie costituitesi lungo la zona costiera, principalmente a Corneto-Tarquinia., ed era contrassegnato dall’esigenza di riaffermare l’attualità della sua eredità, patriottica e rivoluzionaria[13]. Le giornate del 10 marzo, anniversario della morte, e meno di frequente del 22 giugno, nella ricorrenza della nascita, divennero le occasioni principali sia per la circolazione della pubblicistica encomiastica sia per l’inaugurazione di lapidi, iscrizioni murarie, statue e monumenti[14]. Miti politici davvero popolari furono quelli di Vittorio Emanuele II («re galantuomo» e «re soldato» allo stesso tempo) e di Garibaldi (incarnazione della nazione armata e santo laico). Nei primi anni postunitari la loro convivenza risultò difficile e fu anzi causa di conflitti simbolici; lo testimoniarono le vicende di Aspromonte nel 1862 e di Mentana nel 1867. Con i governi della Sinistra storica e con Crispi, la costruzione di una immagine di “Monarchia popolare” e la perseguita nazionalizzazione degli italiani avrebbero invece fatto conto sulla memoria contestuale di Garibaldi[15] e Vittorio Emanuele II[16]: a partire dalle grandiose onoranze funebri loro tributate e attraverso gli eletti luoghi di memoria (rispettivamente al Pantheon capitolino e nell’isola di Caprera[17]).

Dall’altra parte, impegnata a contrastare il processo di secolarizzazione[18], la Chiesa rilanciò le pratiche liturgiche (canonizzazione, beatificazione, ecc.) e valorizzò il culto dei santi – in primo luogo con Caterina da Siena[19] – su un terreno non solo religioso ma anche civile e culturale. Al patriottismo risorgimentale della nazione “ufficiale” il “contro-mondo” cattolico opponeva un proprio patriottismo di matrice guelfa e municipale[20]

Storia della santità anche come espressione e testimonianza di una incessante tensione a restaurare il primato religioso, ad animare il così definito “mito della cristianità perduta”[21], nelle plaghe sempre più desolate ed inospitali del mondo secolarizzato. Si spiega in questo senso la riscoperta mitico-simbolica e l’uso politico del Sacro Cuore. Si assiste alla valorizzazione di tutta una serie di meccanismi rituali e devozionali, spesso originari della religiosità barocca e controriformistica, ma adattati a nuovi significati, che disegnano una tonalità della «vita devota» dai toni «popolari», cioè facili, «sensibili», di immediata recezione, e «femminili», vale a dire in direzione di una pietà sentimentale, sdolcinata e effusiva nell’esuberante affettività dei suoi temi, ruotanti principalmente intorno alla sofferenza riparatrice della passione, ai motivi teneri e «femminili» del cuore e alle metafore salvifiche del sangue[22]. La stessa iconografia del Cristo sofferente e la «guerra di immagini» scatenatasi intorno al culto del Sacro Cuore[23] denunciano, con l’insistenza della nuova sensibilità religiosa sul Gesù buono e «vittima espiatrice», la prossima nascita del Christ romantique dell’Ottocento[24].

D’altro canto, se certamente rilevante è il ruolo degli ordini maschili nella diffusione di questo tipo di devozionalità e nella utilizzazione, a tale scopo, della mediazione femminile, il ruolo delle donne spesso si rivela capace di svincolarsi dalla tutela degli ecclesiastici, giungendo fino a proporre e a imporre forme nuove di pietà. È il caso, ad esempio, di una nuova devozione mariana, che acquista un nuovo slancio sotto forme nuove legate a fatti meravigliosi. Si innalzano basiliche, si sviluppano pellegrinaggi varie feste mariane vengono inserite nei calendari diocesani. Il mese di maggio viene consacrato alla Madonna anche con l’incoraggiamento di Leone XIII. Medaglie, rosari, ceri, fiori, novene immaginette, gonfaloni, cantici, statue incoronate, consacrazioni alla Madonna, congregazioni mariane: sono tutte forme che prende una devozione visibile, che non trova ostacoli ed è quasi senza freni. Dalle carte della Prefettura di Roma emergono infatti vari pellegrinaggi effettuati dalle società operaie cattoliche al santuario della Madonna della Quercia dove venivano effettuati dei tridui di preghiera[25]. E non si può neanche non considerare che all’interno della Congregazione mariana di Viterbo fondata dal cardinale La Fontaine, venne creata una sezione operaia formata dai giovanetti del popolo[26]. Legata alla riscoperta del culto della Madonna vi è anche, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, il progressivo allontanamento dei ceti socialmente più forti dalle pratiche religiose; la popolazione maschile conosce una disaffezione e un allontanamento dalla pratica religiosa . Il clero rivolge allora la cura pastorale prevalentemente verso la componente femminile e più giovane della popolazione , stringendo con esse durature alleanze[27]. Così, accanto alla più nota devozione al Cuore di Gesù, proponente a sua volta un’immagine femminea e avvenente di Cristo, va sviluppandosi anche quella del Cuore di Maria. Questa, benché iniziata con minor fortuna, prende a mano a mano slancio, conducendo alla nascita, nel corso del Settecento e ai primi dell’Ottocento, di nuove confraternite in tal modo intitolate. In esse, in cui assai più consistente che nelle confraternite tradizionali è la presenza femminile, sono introdotte nuove preghiere e nuovi meccanismi rituali, come la consacrazione del mese di agosto al Cuore di Maria16. Ma altre forme spicciole, quotidiane e diffusissime di pietà mariana – certamente non proposte soltanto alle donne, ma dalle donne soprattutto praticate – sorgono in questo periodo e finiscono per prevalere, producendo effetti inediti e aprendo vie originali e durature per l’affermazione femminile in campo religioso.

Proprio queste espressioni diffuse della pietà mariana costituirono, attraverso il loro carattere collettivo, una spinta alla formazione di nuclei aggregativi stabili di donne e di nuove forme associative femminili, laicali e religiose, tutte ferventi e attive promotrici di devozioni quale quella, appunto, del mese di Maria. La connessione esistente tra il forte slancio del culto mariano e la femminilizzazione religiosa ci riporta così a quel piano della presenza delle donne nelle istituzioni da cui abbiamo preso le mosse. In tal modo, la devozione mariana informa tutti gli aspetti principali del processo di femminilizzazione del cattolicesimo[28].

Legato al mondo del lavoro è anche il culto di S. Giuseppe, tardivo nella chiesa, che si sviluppa sulla scia di quello di Maria e raggiunge il suo apogeo. La sua statua si trova in ogni chiesa, il suo patrocinio viene invocato da molte congregazioni religiose e marzo diventa il mese di S. Giuseppe. E proprio il 19 marzo 1893, sulla scia della Rerum Novarum ed in risposta alla diffusione delle idee socialiste anche sul territorio viterbese, in occasione del cinquantesimo anniversario della consacrazione a Vescovo di Leone XIII, si inaugurò una sezione operaia del Circolo democratico cristiano[29]. Nell’esplicita finalità di contrastare le tradizionali pratiche religiose e nella intenzione di dotarsi di occasioni celebrative autonome e diverse da quella ufficiale dello Statuto, nella giornata del 19 marzo i democratici avevano promosso una festa nel nome dei due Giuseppe laici, Mazzini e Garibaldi. La nuova festa civile, importante occasione di apprendistato ai rituali laici di massa continuerà con andamento regolare fino agli anni Ottanta prima di venire dismessa[30].


[1] G. Verucci, I simboli della cultura laica e delle istituzioni civili, in Santi, culti, simboli nell’età della secolarizzazione (1815-1915), cit., p. 237

[2] Sul tema in generale si può vedere Santi, culti, simboli nell’età della secolarizzazione (1815-1915), a cura di E. Fattorini, Torino, Rosenberg&Sellier, 1997.

[3] M. Vovelle, Le metamorfosi della festa. Provenza 1750-1820, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 3.

[4] P. Sobrero, Romagna in festa nell’Ottocento: i riti religiosi, politici e civili, in Le trasformazioni della festa, Memoria e ricerca, rivista di storia contemporanea, n. 5, luglio 1995, società editrice Il Ponte Vecchio, pp. 109-137, qui p. 110.

[5] Ad esempio l’arte del legname e quella della pietra e d’architettura invocano S. Claudio, S. Incostrato e S. Simplicio. Vedi T. Cuturi, Le corporazioni delle Arti nel Comune di Viterbo, Roma, 1883, p. 82.

[6] G. Nicolai, Lavoro, patria e libertà. Associazionismo e solidarismo nell’Alto Lazio lungo l’Ottocento, Viterbo, Sette città, 2008. Nell’area viterbese queste società sono per la maggior parte liberali e monarchiche, una piccola parte di esse, soprattutto quelle che nascono nei comuni di confine, democratiche ed un’altra piccola parte cattoliche.

[7] Ministero agricoltura, industria e commercio, Direzione generale della statistica, Statistica delle società mutuo soccorso e delle istituzioni cooperative annesse, anno 1885, Roma, 1888;

[8] Cfr. T. Cuturi, Le corporazioni delle arti, cit. p. 81.

[9] La prima vera festa sociale venne organizzata dalla Società operaia di Viterbo nel primo anniversario della sua fondazione, il 5 maggio1872.  Vedi Programma della festa della Società Operaia, in “Gazzetta di Viterbo”, a. I, n. 51, 27 aprile 1872.

[10] G. Nicolai, Lavoro, patria, libertà, cit. pp. 230-236.

[11] R. Casolaro, Santi patroni di arti e mestieri. Vite aneddoti e feste nella tradizione popolare, Napoli, Sigmalibri, 2006, p. 3

[12] M. Bertolotti, Camicie rosse, bandiere rosse. Il rosso nella storia italiana dal Quarantotto alla fine del secolo, in I colori della politica. Passioni, emozioni e rappresentazioni della politica nell’età contemporanea, a cura di S. Pivato e M. Ridolfi, Quaderni del Centro Sammarinese di Studi Storici, Repubblica di San Marino 2008, pp. 49-70.

[13] P. Finelli, «E’ divenuto un Dio». Santità, Patria e Rivoluzione nel «culto di Mazzini» (1872-1905), in Storia d’Italia, Annali 22, Il Risorgimento cit., pp. 665-695. 

[14] M. Ridolfi, Risorgimento, cit.

[15] D. Mengozzi, La morte e l’immortale. La morte laica da Garibaldi a Costa, Lacaita, Manduria-Roma-Bari 2000 e Id., Garibaldi taumaturgo. Reliquie laiche e politica nell’Ottocento, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2008.

[16] Per i funerali di Re Vittorio Emanuele II, cfr. U. Levra, Fare gli Italiani cit., pp. 3-40.

[17] F. Fuiisawa, Pellegrinaggi a due luoghi sacri della religione civile italiana: Caprera e il Pantheon, in Monarchia, tradizione, identità nazionale. Germania, Giappone e Italia tra Ottocento e Novecento, a cura di M. Tesoro, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 65-82.

[18] Santi, culti, simboli nell’età della secolarizzazione (1815-1915), cit.

[19] A. Scattigno, Caterina da Siena: modello civile e religioso nell’Italia del Risorgimento, in Immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento cit., pp. 175-200.

[20] M. Ridolfi, Risorgimento, in I luoghi della memoria, a cura di Mario Isnenghi, Laterza, Roma-Bari 2010. Sul patriottismo antagonistico dei cattolici intransigenti, cfr. G. Formigoni, L’Italia cattolica. Fede e nazione dal Risorgimento alla Repubblica, il Mulino, Bologna 1998, pp. 38 e 46.

[21] G. Miccoli, chiesa e società in Italia fra ‘800 e ‘900: il mito della cristianità, in fra mito della cristianità e secolarizzazione, casale Monferrato, 1985, pp. 21-89.

[22] M. Caffiero, Un santo per le donne: Benedetto Giuseppe Labre e la femminilizzazione del cattolicesimo tra’700 e ‘800, in “Memoria”, 30 (1990), 3, pp. 89-106, qui p. 92.

[23] M. Rosa, Regalità e «douceur» nell’Europa del ‘700: la contrastata devozione al Sacro Cuore, in Dai Quaccheri a Gandhi. Studi in onore di Ettore Passerin d’Entrèves, a cura di F. Traniello, Bologna, 1988, pp. 95-96.

[24] F.-P. Bowman, Le Christ romantique, Genève, 1973; su vari aspetti del romanticismo religioso si veda anche T.A. Kselman, Miracles and Prophecies in Nineteenth-Century France, New Brunswick, 1983.

[25] Archivio di Stato di Roma, Prefettura, Gabinetto, b. 30, f. 1417, Società della gioventù cattolica, Circolo S. Rosa, pellegrinaggio della Guercia, 1872.

[26] Istituto per la storia dell’Azione cattolica e del movimento cattolico in Italia, AC, Fondo Giac, Circolo S. Rosa, b. 897, f. 1894, Resoconto per l’anno 1894. Nel 1901, su proposta di La Fontaine, si decise di sciogliere la Sezione operaia e far entrare i soci nella nuova lega del Circolo democratico cristiano. Cfr. CEDIDO, Corrispondenza Vescovi, Protocollo generale, a. 1901, n. 317.

[27] Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, a cura di L. Scaraffia, G. Zarri, Bari-Roma, Laterza, 1994.

[28] M. Caffiero, Femminile/popolare. La femminilizzazione religiosa nel Settecento tra nuove congregazioni e nuove devozioni, Dimens 2 (1994), pp. 235-245.

[29] Centro diocesano per la storia e la cultura religiosa a Viterbo, Cronaca Medichini, 19 marzo 1893.

[30] Cfr. M. Ridolfi, Feste civili e religioni politiche nel “laboratorio” della nazione italiana (1860-1895) in, “Memoria e ricerca, rivista di storia contemporanea”, n. 5, luglio 1995, società editrice Il Ponte Vecchio, pp. 83-108, qui p. 88.

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