La posizione della donna nella società russa subì importanti cambiamenti nel periodo immediatamente successivo alla rivoluzione bolscevica del 1917. In una nuova società, in cui veniva proclamata l’uguaglianza di tutti i cittadini, divenne essenziale cambiare il ruolo che da secoli era stato attribuito alla figura femminile. I bolscevichi promossero immediatamente la liberazione della donna dai doveri domestici e familiari per metterla alla pari con la sua controparte maschile. In seguito alle leggi che introducevano il divorzio e legalizzavano l’aborto, alle donne fu data la possibilità di affrancarsi dalle condizioni patriarcali e prendersi il possesso la propria vita attraverso l’istruzione superiore, la partecipazione alla vita pubblica, politica e lavorativa, per secoli assegnata esclusivamente agli uomini.
Con il passare del tempo vengono risaltati i nuovi doveri verso lo Stato in veste di donna-lavoratrice e donna-madre, protettrice del nucleo famigliare. Dal 1936 fu reso più difficile il divorzio per entrambe le parti e l’aborto divenne di nuovo illegale. La tensione internazionale della seconda metà degli anni ’30 portò a un ritorno verso politiche tipiche delle società tradizionale. Da questo momento il governo sovietico divenne sostenitore e promotore dei valori conservatori nell’interesse delle politiche nazionale e internazionale dello Stato.
Nel corso degli anni Venti le donne furono sempre più presenti nei media di propaganda, diventati una vera e propria arma della lotta di classe. Innanzitutto, di quelli più facilmente accessibili alle masse lavoratrici: i manifesti e la stampa. Il tema femminile acquisì maggiore importanza nel discorso comunista trasmesso anche tramite un altro canale, che gradualmente rivelò il suo carattere popolare per eccellenza, ovvero il cinema. Durante questo periodo la rappresentazione del genere femminile subì una trasformazione radicale rispetto al passato e una progressiva evoluzione nel corso del ventennio postrivoluzionario. Nel mio contributo cercherò di individuare i tratti tipici della rappresentazione delle donne attraverso le arti visive sovietiche e rintracciare la trasformazione dell’immagine nel periodo tra la Prima e la Seconda guerre mondiali. In ordine cronologico effettuerò l’analisi di diverse forme delle arti visive: manifesti, cartoline, illustrazioni delle riviste femminili, pittura e opere cinematografiche.
“Cosa ha dato la Rivoluzione d’ottobre alla lavoratrice e alla contadina”? (Fig. 1)
Prima di affrontare il discorso della rappresentazione delle donne sovietiche nelle arti figurative cercherò di individuare il contesto storico che condizionò tali trasformazioni e che plasmò un nuovo profilo femminile, inedito e sconvolgente non solo rispetto all’epoca passata, ma anche rispetto alla situazione contemporanea negli altri paesi compresi quelli dell’Europa Occidentale. Come uno dei problemi fondamentali che richiedevano una immediata risoluzione, i bolscevichi posero la questione femminile, che includeva una serie di problematiche inerenti alla soppressione dell’ineguaglianza delle donne nell’ambito sociale e famigliare, che portavano alla trasformazione della società in generale[1]. La risoluzione della “questione delle donne” ebbe inizio con la proclamazione dell’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne, che determinò una lunga serie di cambiamenti nella vita della donna sovietica. Lenin attribuiva una grande importanza alla questione della liberazione femminile dai vincoli patriarcali e dell’emancipazione politica ed economica della donna tramite il lavoro salariale: “Noi sentiamo la posizione privilegiata degli uomini e odiamo, sì, proprio odiamo e vogliamo eliminare tutto ciò che opprime e tortura la lavoratrice, la moglie dell’operaio, la contadina, la moglie di un uomo qualunque e addirittura in molti casi la donna della classe agiata”[2]. Il Codice del lavoro introdotto nel 1922 dichiarava un equo diritto di donne e uomini al lavoro, alla sua retribuzione, all’assicurazione sociale, alla protezione del lavoro femminile e alla tutela della maternità.
L’emancipazione economica non poteva essere completa senza la liberazione della donna dalla famiglia tradizionale nell’ambito privato. Il nuovo “Codice di leggi sul matrimonio, sulla famiglia e sulla tutela della RSFSR”, entrato in vigore nel 1927, riconosceva al matrimonio di fatto il valore legale per garantire la tutela giuridica degli interessi delle donne e dei bambini. Inoltre il Codice introdusse la comunità di gestione dei beni famigliari, il che rispondeva agli interessi delle donne impegnate per la maggior parte nello svolgimento delle attività domestiche e dell’educazione dei figli. La paternità veniva stabilità in base alla scelta della madre tramite una registrazione o in via legale. Il Codice di famiglia sovietico era uno dei più avanzati dell’epoca: la donna era in grado di richiedere il divorzio, difendere i diritti dei suoi figli leciti e illeciti, richiedere i sussidi per la maternità, ecc.
Inoltre le donne ebbero finalmente l’accesso alle elezioni politiche e ricevettero il diritto di votare ed essere elette (Fig. 2). Va tuttavia ricordato che il diritto al voto femminile fu proclamato dal Governo provvisorio, che anticipò la prima Costituzione sovietica del 1918 di qualche mese. La partecipazione nella vita politica fu garantita inoltre tramite la formazione del Ženotdel, il Dipartimento per il lavoro tra le donne, istituito nel 1919 presso il Comitato centrale del Partito comunista. Questo reparto si occupava del coinvolgimento delle donne nella vita politica del paese e della risoluzione delle loro tipiche problematiche.
Probabilmente una delle più grandi conquiste della rivoluzione nella “questione femminile” fu la liberalizzazione dell’aborto. Le donne per la prima volta in Russia ricevettero il diritto di gestire il proprio corpo e di decidere il momento della maternità. Per di più, sia per incentivare le nascite che, e soprattutto, per coinvolgere le donne nell’attività lavorativa, fu promosso il suo affrancamento dai doveri domestici grazie all’apertura di asili nido, mense, lavanderie e di vari servizi pubblici. La donna libera dagli impegni della vita quotidiana ebbe finalmente l’accesso al lavoro salariale pari all’uomo, raggiungendo uno status sociale equo a quello maschile. Inoltre, le donne potevano ricevere l’educazione superiore e frequentare tutti i corsi di specializzazione in base alla scelta della carriera professionale. A seguito di tali cambiamenti le donne entrarono nel mondo degli uomini e cominciarono ad appropriarsi del proprio spazio sia negli impianti industriali (e non solo come bassa forza lavoro), che negli ambiti sportivo, militare, scientifico e, a volte (con una grande riserva), politico.
Per il giovane Stato sovietico divenne di una fondamentale importanza la formazione dell’immagine di una donna nuova, emancipata, autosufficiente, responsabile, ideologicamente indottrinata, forte e convinta. La propaganda del nuovo stile di vita della donna, delle nuove aspirazioni, dei nuovi obiettivi e dei mezzi per raggiungerli divenne cruciale nelle politiche dello Stato, che se ne serviva non solo per assicurarsi la forza lavoro necessaria per la (ri)costruzione economica e industriale, ma anche per la formazione di una platea di masse attive e consenzienti, disponibili a dare un appoggio incondizionato al potere sovietico. In questo contesto fu varato il primo piano per la propaganda fondamentale, un progetto che prevedeva di intervenire sul tessuto urbano non solo con intenti celebrativi, ma anche educativi. Il Litizdat (Casa editrice letteraria), fondato nel 1919, costituì il centro di coordinamento dell’arte grafica e della produzione visuale finalizzata alla propaganda e creato in piena guerra civile: esso giunse a distribuire circa 7,5 milioni di manifesti e cartoline[3].
Uno dei mezzi della propaganda del nuovo stile di vita e del nuovo tipo di comportamento divenne il manifesto sovietico. I manifesti degli anni ‘20-‘30 rappresentano una fonte artistica e culturale unica dell’epoca. Il manifesto divenne uno dei mezzi di comunicazione degli interessi statali alla popolazione, essendo accessibile per la lettura alle ampie masse spesso analfabete. Il linguaggio visivo dei manifesti è particolarmente espressivo, vivace ma nello stesso tempo acuto, conciso ed essenziale[4] (Fig. 4).
Un altro mezzo di comunicazione per eccellenza furono le cartoline postali. Come sostiene Matteo Bertelé, “l’apporto di linguaggi espressivi e tecniche di riproduzione differenti, come la pittura, la fotografia e la stampa editoriale, ne fanno un testo intersemiotico e poliglotta, oggetto di diverse pratiche di consumo, interpretazione e fruizione. Dettata dal centro, essa raggiunge in maniera capillare le periferie geografiche e culturali dell’impero sovietico e, grazie al formato tascabile, al prezzo ridotto e alla sua facile reperibilità, si adatta facilmente a tutti gli spazi, tra cui quello più vicino alla sfera privata, l’ambiente domestico”[5]. Rappresentazioni di donne si trovano abbastanza spesso sulle immagini delle cartoline uscite nel periodo tra le due guerre.
Una grande importanza nell’educazione delle masse, ovvero nella diffusione della propaganda tra le masse fu attribuita alla stampa, soprattutto alla stampa specializzata sulle problematiche delle donne, così detta “stampa femminile”. Nel 1920 esce il primo numero della “Komunistka” (La comunista) su impulso di Inessa Armand. Ma, diventato nel giro di pochi anni un vero e proprio organo del partito, presto non soddisfece più le aspettative della maggior parte delle lettrici. Nel 1923 Aleksandra Kollontaj propose di pubblicare “Rabotnica” (La lavoratrice), il cui l’obiettivo era di educare la donna come un membro attivo del partito comunista, come obščestvennica (attivista sociale) e produttrice[6].
Per quanto riguarda le arti figurative, il periodo degli anni venti rappresenta nella Russia sovietica un’epoca di grandi ricerche artistiche, sperimentazioni stilistiche, elaborazione dei nuovi linguaggi espressivi e tecniche artistiche. Negli anni ‘20 non esisteva ancora la divisione tipica degli anni ‘30 tra gli artisti riconosciuti dal regime e quelli perseguitati. Gli esponenti dell’”arte di sinistra” e quelli del nascente realismo socialista rivaleggiavano nell’arrogarsi il diritto di riempire di significato il concetto di “arte rivoluzionaria”.
Per una parte di pittori (Malevič, Filonov, Suetin) era legata alle innovazioni nell’ambito del colore e della forma (Fig. 3), per altri (Samokhvalov, Dejneka) – ai tentativi di trasmettere lo spirito della nuova vita quotidiana e dei nuovi protagonisti[7]. La donna, come in qualsiasi periodo della storia d’arte, occupa un posto speciale rispecchiando diversi aspetti del suo nuovo status sociale.
Il cinema nel periodo postrivoluzionario divenne uno dei più importanti meccanismi dell’istruzione e della diffusione dell’ideologia comunista. Come strumento dell’influenza sull’opinione pubblica, la nuova arte formava le immagini femminili iscritte nella nuova realtà sociale; successivamente suggeriva il modello ideale inserito nel quadro del “futuro radioso”, che sullo schermo fungeva da presente. Il cinema negli anni ‘20 fu caratterizzato, come d’altronde la pittura, dalle sperimentazioni della giovane arte avanguardista, dalle opere d’autore e dai primi tentativi di montaggio. Per quanto riguarda il cinema propagandistico di massa degli anni ‘20, l’aspetto più rilevante èla contrapposizione tra il vecchio e il nuovo. Il cinema porta alla conoscenza delle masse i nuovi ordinamenti e le opportunità, esercita la funzione socio-educativa nelle questioni di attualità, ad esempio di igiene, di cure mediche, di problemi quotidiani e giuridici. La trama principale diventa il cammino della donna da una vecchia a una nuova vita, la sua trasformazione da vittima della vita patriarcale a protagonista della nuova epoca[8].
Epoca di sperimentazioni
Il primo periodo postrivoluzionario viene considerato dagli storici come un periodo di sperimentazioni nell’ambito della sessualità e dei rapporti matrimoniali e famigliari, il periodo della mobilitazione politica delle donne e il periodo degli žensovety[9]. Durante i primi anni del potere sovietico, gli artisti furono chiamati a creare un linguaggio visivo che la popolazione potesse comprendere. Dato il diversificato bagaglio culturale di quest’ultima, essi hanno attinto da più fonti: arte religiosa e popolare, mitologia classica, arte russa e immagini dei movimenti rivoluzionari europei. In poco tempo, sorse una nuova iconografia della Russia sovietica, con un proprio lessico e una propria sintassi[10]. Inizialmente nei manifesti la rivoluzione venne rappresentata esclusivamente da figure maschili mentre quelle femminili avevano piuttosto una connotazione allegorica (Fig. 5)[11]. L’enfasi sulle rappresentazioni allegoriche e simboliche delle donne nella propaganda visuale durò solo pochi anni. C’era una forte pressione da parte dei funzionari a favore dell’adozione di un vocabolario più comprensibile per la classe operaia[12]. Nel giro di pochi anni l’immagine della donna divenne centrale nei manifesti trasmettendo nelle vaste masse della popolazione i messaggi chiavi del potere bolscevico.
La lotta contro l’analfabetismo era uno dei temi cruciali del primo periodo rivoluzionario (Fig. 4). Una nuova donna veniva contrapposta a quella che rappresenta il passato patriarcale. La nuova cittadina comunista era istruita, ambiziosa, decisa e priva di pensieri frivoli. Il contrasto cromatico (rosso e nero), a parte richiamare i significati tradizionalmente applicati alle immagini iconografiche, aiutava a focalizzarsi sull’idea principale: la distruzione del vecchio ordine. Il tratto tipico dell’immagine era la protagonista con un braccio esteso o alzato nel segno del potere e del ruolo di leader[13].
Un’altra immagine tipica dell’epoca era la donna rivoluzionaria e combattente. I suoi tratti erano asessuati, il suo fisico è corposo e robusto. Era vestita in un abito tradizionale lungo o con una gonna spesso fino alla caviglia, le scarpe grosse o lapti (se è una contadina) e il foulard annodato davanti, se si trattava di una cittadina, o indietro nel caso della contadina (Fig. 7). La mimica e i gesti delle donne erano bruschi e grossolani, il che enfatizzava la loro presa di posizione decisa e irreversibile[14]. Le cartoline portavano la stessa carica didattica e servivano a trasmettere messaggi chiari alle masse della popolazione, come in quella immagine antireligiosa che invitava a combattere la fede e le superstizioni con l’istruzione e l’adesione alla nuova ideologia (Fig. 6).
Il linguaggio della pittura invece si presentava più ricco e variegato. L’inizio degli anni venti era il periodo delle ricerche, della libertà espressiva, delle sperimentazioni, di nuove tecniche e approcci stilistici. Non solo gli avanguardisti (Kazimir Malevič, Pavel Filonov, ecc.) ma anche i pittori tradizionalisti come Boris Kustodiev e Kuz’ma Petrov-Vodkin si trovarono davanti al bisogno di trasmettere le trasformazioni sociali sulle loro tele[15], senza dover ancora rendere conto alla stretta censura che caratterizzerà in seguito l’arte figurativa sovietica. L’obiettivo degli artisti non era tanto dialogare con il pubblico comunicando i messaggi ideologici o didattici, come lo era per i manifesti, quanto cercare di capire i cambiamenti avvenuti, il profondo significato dell’accaduto e in qualche modo prevedere il futuro tenendo conto del presente pieno di imprevisti.
Colpisce il richiamo delle tradizioni artistiche attinte all’antica storia russa. I pittori dell’avanguardia russa dei primi anni venti cercarono di trasferire nelle proprie opere i modelli figurativi delle icone, degli affreschi, la purezza e la vivacità dei colori, la distinta chiarezza della composizione. L’unione della tradizione viva e del riferimento alla classicità antico-russa è evidente nelle opere di Petrov-Vodkin[16]. La sua Madonna pietrogradese del 1920 (Fig. 11) unisce l’immagine tradizionale della madre-protettrice, dolce e premurosa, con il nuovo ruolo della donna sovietica, ovvero l’operaia, costruttrice della nuova società, che appare alle sue spalle sotto forma delle strade di Pietrogrado. Il volto della donna ricorda le antiche icone russe e il suo sguardo umile e rassegnato – l’accettazione dell’avvenuto e la speranza del futuro migliore anche se pieno di incognite e dubbi.
Sul telo di Kustodiev (Fig. 8) è rappresentata la coppia di un marinaio che tiene sotto il braccio una giovane donna. Eseguito nello stesso 1920 come la Madonna, il quadro rappresenta un fenomeno del tempo, ovvero il NEP (Nuova politica economica) che fece per un breve periodo rivivere l’ultima primavera ai ceti benestanti, accumulando e ostentando la loro ricchezza. A differenza degli abiti sobri e scuri delle lavoratrici la Milaja (la piccola) ha un bell’ abito con una profonda scollatura che mette in mostra le sue gambe tornite. La ragazza indossa scarpe eleganti con i tacchi e, invece di tenere in mano un libro o uno strumento di lavoro, tiene una rosa che, insieme ai diamanti e la volpe sulle spalle, più che ad un’operaia ascetica, fa pensare a tutt’altro tipo di donna. Kustodiev coglie il momento, riflette su quello che sta succedendo davanti ai suoi occhi, testimonia una vertiginosa ascesa delle classi popolari (marinaio), la ricaduta della moralità (lo sguardo voluttuoso della donna) – tutto ciò sullo sfondo della “culla della rivoluzione” Pietrogrado. L’immagine della donna è sfuggente e priva delle connotazioni giudicatrici, basta paragonarla con il disegno critico, fatto esclusivamente negli scopi didattici della “Rabotnica” (Fig. 9).
Le fotografie delle riviste femminili erano più vicine alla realtà quotidiana, perciò il messaggio diventava ancora più diretto, chiaro e efficace. La carica didattica è particolarmente intensa, il che rende la rivista un ottimo canale di propaganda anche attraverso le immagini “parlanti” e non solo tramite i testi con il linguaggio semplificato, diretto e privo di sfumature interpretative. La donna fotografata o disegnata sorrideva poco, era concentrata sul lavoro, sui suoi pensieri e sulle preoccupazioni per la società (Fig. 11). La sua missione fondamentale era quella di contribuire alla crescita e allo sviluppo del paese, guidato dal partito verso la direzione giusta. L’obiettivo privato era l’autorealizzazione, il raggiungimento dell’autosufficienza e dell’indipendenza economica e psicologica. Tuttavia le “debolezze femminili” non le erano estranee. Verso la parte finale di ogni numero si potevano trovare rare immagini di donne in vacanza (spiaggia o montagne), disegni di abiti di moda (con i modelli da copiare), consigli per la cura dei neonati, pubblicità dei succhiotti e addirittura dei preservativi. La prioritizzazione imposta dallo Stato era ben chiara e non suscitava alcun dubbio: i valori sociali prevalevano su quelli individuali, le foto di gruppo o di donne vestite nei costumi che trasmettevano la loro appartenenza professionale erano in schiacciante maggioranza rispetto a quelle di donne che richiamavano l’idea della maternità, della vita privata, del benessere personale. Anche i canoni di bellezza erano relativi. La bellezza fisica, i visi sensuali o semplicemente attraenti erano rari. Dominavano le donne serie, a volte abbruttite dal lavoro ma belle per la bellezza interiore che donavano loro lo sforzo, l’abnegazione, l’ascetismo (Fig. 12, 13).
Per quanto riguarda la cinematografia del primo decennio postrivoluzionario, va notata una netta priorità delle immagini delle donne che venivano utilizzate sul grande schermo. Erano le donne eroine che occupavano il posto centrale nei film che raccontavano le storie delle protagoniste femminili. Le immagini delle donne-leader, donne-rivoluzionarie, donne-combattenti riflettevano i cambiamenti, la nuova quotidianità (byt), visualizzavano le conquiste e le idee del nuovo potere, mentre la donna-madre non rappresentava un valore di per sé, ma veniva utilizzata per dimostrare la differenza delle condizioni della donna prima e dopo la rivoluzione. L’accento veniva messo sul binomio vittima ed eroina e sul processo del passaggio da uno stato estremo all’altro. L’atto di eroismo portava ancora il carattere individuale: ogni donna percorreva il proprio cammino; la sua trasformazione avveniva attraverso il lavoro, talora con il sostegno di un membro del partito[17] (Fig. 14).
Alla fine degli anni ’20 il governo sovietico dichiarò la decisiva conquista dell’equità dei diritti degli uomini e donne e la risoluzione della “questione femminile”. Nel 1928 le sezioni femminili presso i sindacati furono chiuse e nel 1930 fu sciolto il famoso Ženotdel.
Il noto pittore e grafico russo El Lisickij elaborò una straordinaria interpretazione artistica dell’auspicato risultato presumibilmente raggiunto nell’Urss (Fig. 15). Nel manifesto che pubblicizzava la partecipazione dell’Urss alla mostra russa presso il museo di arti e mestieri di Zurigo nel 1929, l’artista rappresentò un essere unico con due teste, una maschile e una femminile, e tre occhi. Il mostro dai tre occhi è un simbolo di cancellazione del confine tra l’uomo e la donna è cancellato. È un essere superiore che ha superato l’individualismo[18]. Il trionfo dell’uguaglianza, dell’unità delle idee e delle azioni, l’assenza di motivi per continuare la lotta per ottenere gli stessi diritti, una vera e propria constatazione degli obiettivi raggiunti. Tuttavia la reale situazione traspareva anche attraverso i manifesti appositamente ideati per dimostrare l’uguaglianza. Il famoso manifesto che rappresenta una coppia lavoratrice, uomo e donna, si presta a una attenta osservazione e critica interpretazione (Fig. 16). Nonostante il lavoro compiuto insieme, è l’uomo che agisce mentre la donna l’assiste, è lui che compie un’azione principale mentre lei lo aiuta a realizzare il suo lavoro. Nonostante una massiccia retorica e l’enfasi politica sulle conquiste sociali, nelle immagini dell’epoca trasparivano tuttavia le differenze negli atteggiamenti accordati dallo Stato verso l’uomo e la donna. Col passar del tempo la spaccatura si allargherà e sarà sempre più evidente anche attraverso le forme artistiche.
”Vivere è diventato più bello, compagni, vivere è diventato più allegro!”
Con l’avvio nel 1928 del primo piano quinquennale e quindi con il lancio dell’industrializzazione e della collettivizzazione, lo Stato ha provato un forte bisogno di manodopera entusiasta e profondamente leale al regime, pronta a dei sacrifici in cambio delle promesse della prossima costruzione del socialismo in un solo paese. Non c’era più bisogno di combattere e difendere con le armi in mano la rivoluzione e le sue conquiste. In questo periodo si trattava del duro lavoro e della completa rinuncia ai propri interessi in nome della costruzione della nuova società che avrebbe portato il benessere per tutti. I volti femminili erano più rilassati, i visi sorridenti. Era ora di accumulare i vantaggi del nuovo status sociale e utilizzarlo per il bene della comunità. Si cercava di cancellare la differenza tra le donne delle città e le donne rurali. Le ultime pian piano hanno smesso di rappresentare l’arretratezza e l’ignoranza. Sono state messe a pari livello con le operaie, occupando un posto rispettato nella società sovietica (Fig. 17). Evidentemente la collettivizzazione richiedeva il consenso che non poteva essere raggiunto esclusivamente con i metodi forzati.
L’ascesa del culto di Stalin ebbe i suoi effetti. La sua presenza diventa indispensabile, la sua benedizione fondamentale. Il suo ruolo assunse una certa ambiguità, spaziando da padre e maestro, a marito e sposo. Stalin non rimaneva da parte, nei suoi discorsi ricordava il ruolo della donna nella nuova società socialista, il suo importantissimo contributo alla costruzione e alla crescita del nuovo stato. I manifesti coglievano questa tendenza del leader e la trasformavano in una intensa ondata propagandistica che uniiva l’immagine della donna operaia e kolchoziana con quella di Stalin (Fig. 19). Il premuroso leader e Padre ha pensato alle “figlie” dando loro i trattori per semplificare il lavoro e gli asili per liberarle dagli impegni quotidiani. I bisogni fondamentali della donna (realizzazione professionale e maternità), a giudicare dai manifesti dell’inizio degli anni ’30, erano soddisfatti dal regime sovietico (Fig. 18). Il paese aspettava solo il rendimento della donna felice e riconoscente per il suo benessere morale. La donna-lavoratrice assunse i tratti di fertilità e corpulenza, il suo benessere era il simbolo del benessere del paese, la sua salute fisica e mentale era la prova delle politiche giuste e un buon auspicio per il futuro sviluppo del paese.
La pittura cominciò ad allinearsi ai canoni imposti dall’alto. Il realismo socialista sostenuto dal potere si rafforzava sempre di più e diventava la corrente se non unica in quel periodo, sicuramente la più importante. La femminilità si esprimeva attraverso la bellezza del corpo giovane e forte, la sessualità – attraverso la dimostrazione della sicurezza e la coscienza dell’uguaglianza dei generi. La donna diventò piuttosto la fonte di energia e la promessa della futura prosperità, che la fonte di ispirazione spirituale (Fig. 24). Lo stesso orgoglio e la coscienza della propria forza, stavolta non fisica ma del potere, traspariva dai quadri che rappresentano le donne lavoratrici. Le donne dipinte dimostravano sicurezza e autorità, come nel quadro di Georghij Rjažskij “Kolkoziana-capobrigata” (Fig. 20). La donna ha lo sguardo tranquillo e sicuro senza aver paura di affrontare la sua indipendenza né la critica dell’osservatore. Le due donne, amministratrice e lavoratrice, sono in primo piano, mentre sullo sfondo sono rappresentati uomini e donne nel normale svolgimento del loro lavoro. La protagonista esegue il suo lavoro al nome del suo partito (lo testimonia il foulard rosso che copre la testa della donna)[19] senza aver nessun capo e essendo responsabile esclusivamente verso il partito. Nel quadro va notata un’assenza del riferimento alla subordinazione della protagonista. La stessa sensazione di libertà, ma stavolta anche di gioia di vivere svolgendo il lavoro amato, di serenità e benessere interiore trasmettono le giovani kolchoziane di Konstantin Yuon (Fig. 21). Le donne dipinte nel primo piano rappresentano delle figure imponenti, il loro movimento verso lo spettatore trasmette la sensazione del cammino grandioso e monumentale che non si ferma davanti agli ostacoli. Colpiscono tuttavia gli accessori che non corrispondono al contesto contadino: le donne tornano dai lavori nei campi indossando abiti eleganti e puliti, le collane e le scarpe da città. Diventa evidente l’idealizzazione del soggetto e l’intento del pittore di aggiungere un tocco di perfezione e sublimare una tipica situazione della vita quotidiana contadina.
Anche le pagine della “Rabotnica” si caratterizzavano per le foto delle donne concentrate nel lavoro oppure delle felici kolchoziane orgogliose dei loro risultati raggiunti e serene nella loro vita in campagna (Fig. 22). Se i visi delle operaie o delle politiche erano spesso cupi e riflettevano una serietà e impegno, quelli delle contadine erano radiosi, trasmettevano la gioia di vivere e di lavorare nei kolchozy.
Il cinema svolgeva un compito simile. Il suo impatto era molto più diretto e i contenuti più semplici; questa forma d’arte è facilmente accessibile a tutti e non lascia spazio ai giudizi interpretativi. I film creavano l’immagine del socialismo vittorioso, costruivano l’atmosfera del “paradiso” raggiunto. Lo schermo si trasformava nella macchina-produttrice dei miti, di cui i temi più importanti erano la visualizzazione del futuro radioso, la dimostrazione delle conquiste del nuovo regime, la propaganda del collettivismo, il mantenimento della vigilanza dei cittadini per la difesa del mondo ideale dai nemici esterni e interni. Il cinema rinuncia alle ricerche avanguardistiche degli anni precedenti e si sottomette al controllo ideologico. L’immagine della donna eroina rimane sempre molto popolare ma il carattere del suo eroismo cambia. L’accento si sposta dal pathos della guerra rivoluzionaria all’eroismo del lavoro, all’entusiasmo operaio. Il significato fondamentale viene assunto dal lavoro, la produzione e il collettivismo. Uno dei temi più popolari diventa la campagna, dove le donne si realizzano professionalmente partecipando ai lavori dei kolchozy[20].
“Il grande e onorevole dovere”
L’immagine della donna nel discorso ufficiale subì un evidente cambiamento dalla metà circa degli anni ’30. Venne enfatizzato il valore della famiglia, il ruolo della donna come madre e il suo dovere primario davanti allo stato – dare nascita a dei figli e contribuire alla crescita demografica che negli anni ’30 subì un forte declino. Il numero di bambini orfani (besprizorniki) non diminuiva, i divorzi nel 1935 raggiunsero il 44,3%, i padri “fuggitivi” potevano formare un esercito, nello stesso anno il numero di aborti in campagna superavano quello delle nascite mentre a Mosca per un bambino nato c’erano due aborti[21]. Per fermare la discesa demografica e risolvere i problemi economici e alla lunga anche quelli della difesa nazionale bisognava cambiare gli accenti sulle priorità dei compiti delle donne e mettere al centro la loro missione tradizionale, ovvero quella di madre. Questi cambiamenti furono ufficializzati nella nuova Costituzione del 1936, che tra l’altro introdusse il divieto dell’aborto. La propaganda non tardò a mettersi in moto.
I manifesti riflettevano le tendenze dell’epoca proponendo le immagini delle donne circondate dai bambini, felici per essere madri: contente non solo per la loro maternità, ma anche per il dovere compiuto nei confronti dello Stato. Tramite le immagini dei manifesti venivano promosse le idee della famiglia ideale: unita, con entrambi i genitori, figli sani e ben nutriti, genitori sicuri e tranquilli, grazie alla tutela dello Stato della maternità e della possibilità che lo Stato sovietico garantiva alla donna di conciliare la famiglia e la sua carriera professionale (Fig. 24, 25).
Il linguaggio della pittura era più sottile e obliquo, si prestava a varie interpretazioni. Sui quadri trovava la sua rappresentazione il ruolo della donna nella società sovietica, la sua posizione secondaria, sottoposta alla guida dall’alto, subordinata ai controlli e messa sotto sorveglianza. Il quadro di Šegal’ rappresenta non tanto l’emancipazione della donna e il suo attivo ruolo politico, quanto la saggezza e la premura paterna che condivide le sue esperienze con una inesperta contadina (Fig. 26). Il suo ruolo sulla tela è strumentale e serve solo per enfatizzare l’autorità di Stalin[22].
Tornò sul telo il concetto di bellezza femminile come oggetto dellacontemplazione degli uomini in soddisfazione dei loro gusti (Fig. 28). Inoltre veniva richiamata l’idea di sensualità femminile tramite i visi attraenti, abiti che mettevano in risalto la bellezza naturale del corpo femminile. Tuttavia il ritorno alla femminilità non precludeva le rappresentazioni delle donne lavoratrici, operaie, combattenti per il futuro del paese. Nella seconda metà degli anni ’30 l’immagine della donna diventò più variegata, venivano esaltati diversi suoi aspetti, costantemente comunque in corrispondenza ai bisogni dello Stato. Anche le protagoniste delle riviste femminili (oramai rappresentate spesso a colori) diventarono più graziose, rispecchiando i canoni classici della bellezza, trasmettevano sullo stesso piano valutativo l’idea della perfezione estetica e gli ideali del comunismo: donna forte, resistente, decisa, pronta ai sacrifici e fedele al partito (Fig. 27).
Nell’arco dei dieci anni precedenti alla guerra, nel cinema il carattere eroico della donna venne gradualmente attutito e trasformato in intellettualizzato. La nuova femminilità veniva concepita come un insieme di ottimismo, puntualità e carattere allegro, che erano sempre accompagnati dall’entusiasmo per il lavoro, dalla forza, salute e da un indissolubile legame con la collettività. L’aspetto esteriore attraente, il viso carino, l’acconciatura assunsero un ruolo importante, una protagonista positiva non negava più l’attrazione femminile, la qual cosa era prima associata con i valori antisovietici. La svolta verso l’estetismo (come in pittura), la formazione di una nuova élite politica (nomenklatura), le sue esigenze e le possibilità aumentate fecero rinascere l’istituto delle favorite e riddarono alle donne nei mestieri artistici il posto delle “muse” (basta ricordare il ruolo delle ballerine). Nel quadro dell’ideologia ufficiale fu creato un ideale della star sovietica – Ljubov’ Orlova (Fig. 29) – una donna bella, sicura di sé, seria e asessuale. Nonostante la sua assomiglianza a Marlene Dietrich, Orlova sapeva escludere nei suoi ruoli anche un accenno alla sessualità e alla seduzione[23].
Vorrei concludere con una riflessione sulla natura dell’arte ufficiale. Da una parte fu lo specchio dell’ideologia e servì ad educare e indottrinare la popolazione nella chiave voluta dal potere. Dall’altra, servì da specchio della società, degli atteggiamenti dominanti e delle tendenze non del tutto visibili agli occhi dei contemporanei e sicuramente occultati negli interessi delle autorità. I grandi successi della rivoluzione nella “questione femminile” vanno ridimensionati a causa della loro realizzazione solo parziale. Nonostante le buone intenzioni mancavano i mezzi materiali e le condizioni economiche. Le mense e le scuole materne erano poche per coprire le esigenze di tutte le donne, la partecipazione attiva delle donne nella vita politica e soprattutto economica a livello paritario con gli uomini si scontrava contro i pregiudizi sociali e la reticenza maschile ad accettare la controparte femminile. La legalizzazione dell’aborto ebbe un’applicazione minore a causa della mancanza degli ospedali, della scarsità dell’attrezzatura e di una vasta e più famigliare offerta delle levatrici. La partecipazione politica fu piuttosto di facciata e coinvolse una misera percentuale della popolazione.
Gli artisti, sensibili per loro natura, si rivelano capaci di cogliere i profondi significati del tempo (intendo, anzitutto, la pittura, meno soggetta al controllo ideologico per il suo carattere elitario e quindi con una minore diffusione tra le masse). Un’attenta e critica lettura anche di altre forme artistiche permette di scoprire non solo l’evoluzione dei soggetti e delle loro interpretazioni, ma anche i significati che aiutano a ricostruire l’epoca tramite la loro rappresentazione visiva. È il caso del manifesto (Fig. 30) che secondo l’idea della censura doveva dimostrare la multifunzionalità delle donne sovietiche, le loro capacità fisiche e intellettuali, la loro apertura verso diversi fronti che le sono state offerti dal regime sovietico. Invece, secondo un’altra plausibile interpretazione, testimonia quel famoso “doppio carico” che dovevano affrontare la maggior parte delle donne sovietiche, portando le responsabilità sia lavorative sia domestiche.






























[1] Svetlana Smaghina, “Novaja ženščina” v sovetskom kinematografe 1920-h gg. kak fenomen [La nuova donna nel cinema sovietico degli anni ’20 come fenomeno], “Vestnik slavjanskih kul’tur”, 51 (2019), p. 258.
[2] Klara Cetkin, Vospominanija o Lenine [Le memorie di Lenin], Moskva, Gosizdat, p. 10.
[3] Mirko Orabona, La rappresentazione della donna nei manifesti sovietici, “La Camera Blu. Rivista di Studi di genere”, 13, 11 (2015), p. 116.
[4] Irina Dukova, Obraz sovetskoj ženščiny v plakatakh 1920-h godov [L’immagine della donna sovietica nei manifesti degli anni ’20 del ‘900], “Studenčeskij elektronnyj žurnal Striž”, 3 (30), 2018.
[5] Matteo Bertelé, La cartolina illustrata come modello dello spazio quotidiano sovietico, in Bertelé M., Bianco A., Cavallaro A. (a cura di) Le Muse fanno il girotondo. Jurij Lotman e le arti, Terra Ferma, 2015, p. 92.
[6] Igor’ Esip, Formirovanie obraza “novoy sovetskoj ženščiny” v 20-30-h godah XX veka (po materialam sovetskih ženskoh žurnalov) [La formazione dell’immagine di una “nuova donna sovietica negli anni ’20-’30 del ‘900], “II Jaltinskie naučnye čtenija. Krym v istorii Rossii: prošloe i nastojaščee”, Arial, Semfiropol’, 2017, p. 30.
[7] Lyudmila Patrati, Iskusstvo 1920-1930-kh [L’arte degli anni 20-30], Almanac, Ed. 391, Palace Edition, S. Petersburg, 2013, p. 5.
[8] Olga Chloponina, Transformacija ženskoj obraznosti v sovetskom kinematografe 1920-1930-h godov [La trasformazione delle rappresentazioni femminili nel cinematografo sovietico degli anni 1920-1930], “Znanie, ponimanie, umenie”, 2 (2017), p. 142.
[9] Elena Zdravomyslova, Anna Tjomkina, 12 lekcij po gendernoj sociologii [Le 12 lezioni sulla sociologia del genere], EUSPB, SPb, 2015, p. 335.
[10] M. Orabona, La rappresentazione della donna, cit., p. 119.
[11] Victoria E. Bonnell, The representation of women in early Soviet political art, “Russia review”, 50, 3 (1991), p. 269.
[12] M. Orabona, La rappresentazione della donna, cit., p. 121.
[13] Tatjana Šamanina, Obraz ženščiny v plakatnom iskusstve mežvoennogo perioda (1918-1939 gg) [L’immagine della donna nell’arte di manifesto nel periodo tra le due guerre], “Izvestija Ural’skogo federal’nogo universiteta”, 1, 183 (2019), pp. 141-142.
[14] T. Šamanina, Obraz ženščiny v plakatnom iskusstve, cit., p. 142.
[15] Evghenija Petrova, Mnogolikost’ sovetskogo iskusstva 1920-1930-kh [Molteplici aspetti dell’arte sovietica degli anni 1920-1930], Almanach, Ed. 391, Palace Edition, S. Petersburg, 2013, p. 9.
[16] Dmitrij Lichačёv, Le radici dell’arte russa dal medioevo alle avanguardie, Bompiani, Milano, 2005, p. 335.
[17] O. Chloponina, Transformacija ženskoj obraznosti, cit. p. 144.
[18] Ekaterina Degot’, Russkoe iskusstvo XX veka [L’arte russa del ‘900], Trilistnik, Moskva, p. 117.
[19] Susan E. Reid, All Stalin’s Women: gender and power in Soviet art of the 1930s, “Slavic review”, 1, 57 (1998), p. 148.
[20] O. Khloponina, Transformacija, cit. pp. 145-146.
[21] Hélène Yvert-Jalu, Femmes et famille en Russie d’hier et d’aujourd’hui, Sextant, Paris, 2008, pp. 151-152.
[22] S. E. Reid, Gender and Power, cit., p. 153.
[23] O. Khloponina, Transformacija, cit. p. 148.