L’Emilia, regione-simbolo della sinistra italiana ed europea, può essere ancora – e in che termini – un modello per il resto del Paese? La domanda che pareva un po’ demodè è tornata al centro del dibattito (almeno di quello giornalistico) dopo il terremoto del maggio scorso, che ha posto questo territorio sotto gli occhi del mondo. Prima la gestione dell’emergenza, poi l’avvio della complessa fase della ricostruzione hanno fornito e forniscono nuovi argomenti a chi ritiene, al di là dell’apparente calembour, che molto del “modello emiliano” sia sopravvissuto alla fine del “modello emiliano” stesso.
I tratti caratteristici del “popolo dell’Emilia, evidenziati con insistenza da molti media nazionali ed internazionali, sono stati la cultura del “fare” e del “fare da sè”, la solidarietà, il pragmatismo e l’efficienza dei suoi imprenditori e della sua classe politico-amministrativa, la capacità di “fare sistema” mediando fra le parti e la difesa – si direbbe contro ogni avversità – di un certo livello di coesione sociale e di un’invidiabile qualità dei servizi. Ma sono davvero questi i tratti salienti che ci permettono di comprendere la reazione di un intero territorio al terremoto? Ancora più importante: da questi caratteri si potrà replicare la “via emiliana” nella gestione di analoghe future catastrofi, purtroppo così frequenti in Italia? Oppure si tratta dell’ennesima “storia a sé”, come lo sono stati i terremoti dell’Irpinia, del Friuli o dell’Aquila? E si dovrà così ripartire da capo, la prossima volta?[1]
Per comprendere quali siano le radici di un “modello” che ha dato prova di vitalità nella recente emergenza sisma, ci viene in aiuto il volume Bologna futuro. Il “modello emiliano” alla sfida del XXI secolo, a cura di Carlo De Maria (Bologna, CLUEB, 2012, pp. 198, € 18). Il libro raccoglie gli atti del seminario promosso a Bologna il 4 dicembre 2010 dall’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Bologna (Isrebo) e della rivista “Una città”, in collaborazione con la Fondazione Gramsci Emilia-Romagna e con il patrocinio del Comune di Bologna. L’idea era quella di spingere diverse generazioni di studiosi, politici, amministratori ed operatori sociali ad interrogarsi sul passato e sul futuro di un modello che affonda le radici nel socialismo emiliano-romagnolo delle origini e che si sviluppa pienamente nell’arco di circa un ventennio, dalla seconda metà degli anni Cinquanta alla fine degli anni Settanta (con le due date periodizzanti del 1956 e del 1977). La riflessione è quindi proseguita il 28 ottobre 2011, sempre a Bologna, con il secondo seminario su Il “modello emiliano” nella storia d’Italia. Tra culture politiche e pratiche amministrative (1889-2011) e con il terzo appuntamento che ha visto l’organizzazione di un nuovo workshop a Modena, il 18 maggio 2012[2], i cui atti saranno pubblicati nel 2013.
Bologna futuro ci dice innanzitutto che l’eredità più “nobile” del “modello emiliano”, quella che fa riferimento ad una pluralità di esperienze portandole a sintesi, può essere ancora capace di dettare all’agenda di politici ed amministratori idee, comportamenti e priorità per l’oggi. Il riferimento è in particolare ad un certo modo di intendere il “bene pubblico”, alla capacità di includere nella società i vari attori mediandone gli interessi, alla propensione a non trascurare gli strati marginali della società, valori che sono quantomai attuali in un periodo di sofferenza come quello attraversato oggi da questa regione-simbolo. Le cause di questa sofferenza sono affrontate in diversi spunti del volume e le evidenzia anche uno studio (opportunamente richiamato da Thomas Casadei nel suo saggio) commissionato nel 2004 dalla Regione stessa, intitolato Partecipazione civica, società e cultura in Emilia-Romagna, con contriibuti dei sociologi Marzio Barbagli e Asher Colombo. Accanto agli indicatori positivi del modello che continuano ad essere presenti (la coesione sociale, un significativo incremento dell’occupazione femminile, una qualità dei servizi che resta ai livelli dei Paesi più avanzati d’Europa), vi sono elementi disgregatori ed anche esiti negativi generati dal modello stesso. Traffico, inquinamento, consumo del suolo, incremento della criminalità nelle città capoluogo, percezione di insicurezza tra i cittadini, crisi dei distretti, infiltrazioni mafiose sono altrettanti aspetti problematici, che pongono seri problemi di tenuta della qualità del sistema.
Il volume curato da De Maria ci offre una lettura della situazione di Bologna e dell’Emilia-Romagna, in bilico tra un passato esemplare ed un presente incerto. I 14 saggi che lo compongono sono introdotti da una presentazione di Andrea Marchi e da una prefazione di Renato Zangheri, il quale da un lato sottolinea l’utilità di ragionare sulle radici storiche del “modello”, ma dall’altro mette immediatamente in guardia dai rischi di eccessive schematizzazioni e di astrattezza delle definizioni; a partire proprio dai prodromi del modello, nei quali sono racchiuse molteplici esperienze, anche molto diverse tra loro. Una cosa fu infatti l’opera riformistica di Costa ad Imola ed un’altra quella di Prampolini a Reggio Emilia e gli esempi potrebbero moltiplicarsi, a creare un quadro composito di esperienze locali, non sempre facilmente assimilabili. Allo stesso tempo, sono difficilmente eguagliabili le politiche di pareggio di bilancio messe in atto dai riformisti emiliani negli anni della costruzione del modello (per sottrarsi – si diceva – al vessatorio controllo delle autorità tutorie) con la politica del deficit spending dell’età del “rinnovamento” del modello stesso. Pur con le differenze del caso, la specificità emiliana negli “anni d’oro” del modello emergeva soprattutto nell’estensione dei diritti di partecipazione e di cittadinanza, nella “sedimentazione” del conflitto sociale, in una modernizzazione che era assai differente da quella in atto al Nord ed al Sud del Paese, nella creazione di un welfare con elevati standard basati su una dimensione che era, prima di tutto, municipale, come sottolinea Matteo Troilo.
Come evidenzia Mirco Carrattieri nel suo saggio sulle rappresentazioni culturali, per tracciare un bilancio ed indicare delle prospettive sul “modello emiliano” è innanzitutto necessario colmare il “vuoto di storia” che ha contraddistinto la pure sterminata letteratura sulla definizione, nata e sviluppatasi all’interno delle scienze sociali e diffusasi poi nel discorso politico e nella pubblicistica, marginalizzando a lungo il ruolo degli storici.
Dall’analisi di lungo periodo prende le mosse anche De Maria nel suo saggio introduttivo. L’analisi abbraccia un arco cronologico che va dal Risorgimento ad oggi, molto più ampio di quello solitamente considerato per delimitare i contorni del fenomeno. Questa prospettiva consente da un lato di scorgere i prodromi del modello nelle esperienze innovative di municipalismo popolare che si erano sviluppate in Emilia ed in Romagna a partire dalla fine dell’Ottocento e che riuscirono a fornire, tramite la raccolta e la valorizzazione di nuove forze ed energie popolari, maggiore vitalità a istituzioni nate con l’Unità su una ristretta base censitaria; l’uso di una periodizzazione ampia permette dall’altro lato di verificare la tenuta del modello oltre la crisi fiscale dello Stato ed il crollo del sistema politico della Prima Repubblica, negli anni Novanta del Novecento, per arrivare fino ad un presente in cui l’identità regionale – come pare scorgersi da molte pagine del volume – sembra aver smarrito parte delle proprie radici e di quelli che un tempo rappresentavano solidi punti di riferimento. Tra questi citiamo il tema delle alleanze sociali, quello dello sviluppo locale e della formazione delle necessarie competenze (ben analizzate da Margherita Russo nel suo saggio), il ruolo e l’identità del movimento cooperativo, ma anche le nuove sfide ecologiche, i diritti e doveri di cittadinanza, l’immigrazione e l’accoglienza.
Come osserva Carrattieri, l’analisi di lungo periodo offre almeno tre vantaggi ermeneutici: fornire un efficace «antidoto al mero presentismo e alle attualizzazioni forzate; la molteplicità dei punti di vista, come complessificazione del quadro analitico; la distinzione tra realtà e rappresentazione» (pag. 125). Carrattieri si sofferma in particolare su tre aspetti di quest’ultima distinzione: la sovrapposizione e le sfasature tra il mito politico dell’“Emilia rossa” ed il “modello emiliano”, il ruolo delle opposizioni politiche nella diffusione e riconnotazione del mito stesso e la sfasatura temporale tra realtà e rappresentazioni. Emerge, in sintesi, che la formula “modello emiliano”, recuperando una pluralità di esperienze – anche di opposizione – ha una ricchezza superiore a quella di “Emilia rossa”, preferita dalla componente egemonica comunista. Carrattieri ripercorre quindi le tappe ma anche le sfasature e le riconfigurazioni nel tempo dei due termini, fino alla recente tematizzazione della crisi del modello, che da metafora territoriale si rivela «mito strategico» non privo di rischi. Marzia Maccaferri arriva provocatoriamente a chiedersi se sia mai esistito davvero un “modello emiliano”, che appare in realtà connotato da una molteplicità di approcci: «oltre al modello di sviluppo e alla declinazione particolare del sistema cooperativo, abbiamo il modello inteso come sistema di welfare, come officina politico ideologica in positivo e in negativo, come laboratorio urbanistico, il modello “da esportazione” […] e infine quello popular». Da qui la necessità di applicare alle ricerche alcuni semplici suggerimenti metodologici quali la comparazione tra “modelli emiliani territoriali”, il rapporto centro-periferia e l’esercizio – ritorna qui uno dei richiami principali del volume – di una nuova periodizzazione. Provocatoria è anche la proposta di Valerio Romitelli. Di fronte alla crisi di quel ceto medio produttivo che rappresentava la grande «scommessa politica» (pag. 154) su cui si è basato il successo del “modello emiliano” e che oggi è sempre più «falcidiato» e sospinto verso una condizione di marginalità, l’autore invita a ragionare sulla possibilità di far diventare Bologna e l’Emilia-Romagna territori d’eccellenza e di sperimentazione proprio in fatto di servizi alla povertà.
Margherita Russo (nel saggio su “Sviluppo locale e meccanismi di rigenerazione delle competenze” già richiamato) legge, a trent’anni di distanza dalle osservazioni di Sebastiano Brusco e dall’ingresso del “modello Emilia” nel lessico di policy maker e studiosi, le trasformazioni in atto, individuando alcuni aspetti che oggi possono frenare i processi di innovazione e crescita della regione. In particolare l’autrice fa riferimento alla debolezza dello spazio regionale (si pensi alla difficoltà di ragionare su una rete di trasporto pubblico in grado di collegare efficacemente le varie città capoluogo e gli altri e centri nevralgici) e la difficoltà di valorizzare sinergie sovra-regionali in settori chiave quali la meccanica, per venire incontro alle necessità di un sistema produttivo che ha allacciato reti di relazioni con altre regioni del Nord quali la Lombardia, il Veneto ed il Piemonte.
Ad un’analisi del ruolo e dell’identità del mondo cooperativo emiliano-romagnolo oggi rimanda invece Vera Zamagni nel suo saggio. Il radicamento del movimento in questa regione, che è tuttora in grado di esprimere oltre la metà delle prime 100 imprese cooperative italiane, ha di fronte a sé alcuni rischi, tra i quali vengono segnalate l’omologazione e la rottura del delicato equilibrio tra aspetti economici e sociali. Vera Zamagni rivela poi un paradosso: a differenza della grande impresa capitalistica, che ha schiere di studiosi che lavorano per lei, la grande impresa cooperativa non ha mobilitato nessuno, «se non quei pochi intellettuali che lavorano volontariamente e spontaneamente». Una situazione denunciata dall’autrice come «insostenibile» (pag. 62). Tito Menzani ripercorre le tappe del packaging e della meccanica strumentale nella storia di Bologna e dell’Emilia-Romagna, evidenziando i mutamenti di fondo ed i più recenti “aggiustamenti”, conseguenti alle oscillazioni congiunturali della domandaa causate della recessione economica ed alla completa globalizzazione del settore, con l’ingresso di nuovi competitori quali le aziende giapponesi prima e spagnole e cinesi poi. Anche in questo caso sono le sfide della globalizzazione ad aver inferto seri colpi al “modello” ma anche ad aver incentivato aggiustamenti che consentono ancora una certa dinamicità e competitività al settore.
Matteo Troilo arriva quindi al “cuore” del “modello emiliano” presentando nascita ed evoluzione di uno dei suoi tratti più salienti: il sistema di welfare. Anche nelle rilevazioni più recenti la Regione Emilia-Romagna, considerando l’aggregato dei singoli comuni, continua ad essere quella a statuto ordinario che registra la spesa più alta per interventi e servizi sociali. Il primato si basa però sulla dimensione municipale, messo a dura prova negli ultimi anni dalla sostenibilità economica del sistema coi bilanci nazionali e locali e con il progressivo aumento della richiesta di servizi alla persona a causa dell’invecchiamento della polazione. Analoghe difficoltà a rinnovare il modello sono quindi evidenziate da quattro osservatori privilegiati quali Luca Lambertini (nel suo saggio sui servizi socio-sanitari ed educativi), Duccio Campagnoli (che per comprendere la crisi di oggi invita a cercare le faglie già presenti nel “modello storico”, quali le ambiguità delle amministrazioni riformiste di fronte a temi quali la “responsabilità sociale d’impresa” o il fenomeno dell’immigrazione, affrontato da molti come passeggero) ed Antonio Mumolo, avvocato di strada, che pone il tema dei diritti degli esclusi. Walter Vitali, partendo dall’analisi del ciclo politico, richiama l’ente Regione ad una nuova progettualità, per far fronte a quattro sfide: coesione sociale, minacciata fortemente dal conflitto tra la popolazione autoctona e quella immigrata sull’accesso ai servizi; la difficoltà a mantenere il welfare territoriale costruito negli anni d’oro del modello di fronte a politiche ormai strutturali dei governi che tendono al contrario a smantellarlo o a limitarlo fortemente; la sfida della crisi economica e sociale in atto; infine la difficoltà da parte delle singole province e dei territori a pensare la Regione come ad un sistema «che sceglie, che decide, che viene riconosciuto da tutti come l’unica dimensione alla quale possono essere efficacemente affrontate le questioni più importanti che riguardano tutti» (pag. 118).
È dunque una molteplicità di approcci e punti di vista quelli che danno sostanza e valore euristico a Bologna futuro.
Torniamo agli avvenimenti del maggio 2012. L’Emilia si trova oggi ad affrontare una nuova sfida, oltre a quella della globalizzazione ed alle altre richiamate in precedenza, che è quella della ricostruzione di un’ampia porzione di territorio. Il “cratere” del sisma si estende su un’area nella quale vivono e lavorano oltre 767 mila abitanti e 65.788 unità locali, che contribuiscono per l’1,8% alla creazione del Pil nazionale[3]. Lo sforzo è quello di tornare alla situazione pre terremoto dopo un evento che ha visto assestare un nuovo colpo ad un equilibrio nelle prestazioni dei servizi, nella coesione sociale, nella gestione dell’immigrazione, nella crisi dei distretti che – come detto – era già precario. Oggi gli elementi di tensione sociale, specie tra le fasce a reddito medio-basso e basso, appaiono ancora più difficili da gestire ed appare quanto mai necessario conciliare sviluppo e coesione sociale, ripartendo dai tratti di un modello che ha saputo dar vita ad un welfare articolato ed avanzato che non ha frenato, anzi, ha accompagnato la crescita economica.
Non si tratta evidentemente di recuperare nostalgicamente un modello che ha modificato i suoi presupposti, ma di riportare in primo piano alcuni elementi che lo caratterizzavano. Si tratta di una sfida non semplice, se si tiene conto che la sinistra (in tutta Europa), incapace di fronteggiare culturalmente e politicamente l’ondata neoliberista ed in affanno sul tema della sicurezza e dell’immigrazione, sembra perdere terreno anche sui temi che le erano più cari, come quello del lavoro, del welfare e della solidarietà, lasciando spazio a movimenti populisti che, come dimostrano le elezioni europee del 2009, le regionali del 2010 e le politiche del 2013, avanzano anche in Emilia-Romagna.
Non si può vivere di rendita all’infinito, anche se la percezione dell’Emilia come eccezione e la fiducia nel “modello” sembrano rimanere alte nella stessa popolazione regionale. I sondaggi locali rivelano infatti che i cittadini si aggrappano con determinazione a certi elementi che crede sicuri: il mondo cooperativo, la piccola e media impresa, le amministrazioni locali. Non stupisce, dunque, che anche nel resto del Paese persistano fiducia ed una certa dose di ammirazione verso questo territorio, come conferma una ricerca dell’Ispo commissionata dal Gruppo Giovani di Confindustria Modena a sei mesi dal terremoto[4]. Secondo l’indagine nazionale, la popolazione colpita avrebbe dimostrato voglia di “rimboccarsi le maniche” (secondo il 97% degli intervistati), grande senso di dignità (97%), solidarietà reciproca (96%), oltre che organizzazione ed efficienza (89%). Per l’88% degli italiani intervistati l’Emilia è insomma una terra che avrà la capacità di risollevarsi e tornare ad essere come prima, anche dal punto di vista economico. Per contro, è molto meno ottimistica la percezione sulla ricostruzione: il 43% ritiene che i lavori procedano a rilento e che le zone terremotate, soprattutto per effetto della crisi attraversata dalla finanza pubblica, versino ancora in gravi difficoltà.
Stando al sondaggio di Confindustria, dunque, l’Emilia ed i suoi abitanti, per il resto d’Italia, continuano a rappresentare un’eccezione positiva.
Oggi come nell’immediato dopoguerra, quando andavano dipanandosi i fili di una matassa ingarbugliata da 20 anni di dittatura, chi governa il territorio è chiamato a rimuovere (letteralmente) tonnellate di macerie, a ridisegnare il volto dei paesi a rischio identità, a risolvere drammatici problemi abitativi, a far fronte alla crisi occupazionale indotta dalla chiusura di un elevato numero di aziende; ma agli amministratori locali è chiesto soprattutto di garantire la coesione sociale all’interno di un quadro di sviluppo, che rappresenta probabilmente l’eredità più diretta, continuativa e stabile del riformismo di questi territori, a partire da quel particolare processo di emancipazione delle classi subalterne di cui parla in Bologna futuro Fausto Anderlini (nel suo saggio su alleanze sociali e rapporti politici); un processo che in questo territorio, partito in ritardo rispetto alle regioni più economicamente avanzate del Paese, si è connotato come ribellione alla rendita fondiaria più che come lotta al capitalismo tout court e che quindi non si è messo in rotta di collisione con l’impresa ma ha anzi cercato di favorirne lo sviluppo.
Ora come all’epoca del municipalismo popolare e poi, nel secondo dopoguerra, ai tempi della costruzione del “modello”, le istituzioni hanno dato prova di un nuovo protagonismo, in un periodo come quello attuale in cui lo Stato fa oscillare sempre più pericolosamente il pendolo del binomio autonomia-accentramento verso il secondo termine, specie in materia fiscale.
Sono stati in particolare il Commissario delegato alla Ricostruzione Vasco Errani ed i Sindaci dei Comuni delle zone terremotate ad assumere i compiti richiesti dall’emergenza e dall’avvio della ricostruzione – una ricostruzione difficile perché giunta inattesa ed in un periodo già non facile – con l’ente Provincia ad esercitare un ruolo piuttosto marginale, a conferma della necessità di rivederne ruolo, numero e funzioni.
Quell’insieme di prassi e culture amministrative che in passato è risultato decisivo nello sviluppo della Regione si è rivelato dunque ancora molto prezioso. Il terremoto ha evidenziato come la garanzia di un certo livello di servizi di welfare, la promozione e difesa della coesione sociale, la concertazione tra le diverse rappresentanze socio-economiche, l’inventiva ed il pragmatismo realizzativo della pubblica amministrazione emiliano-romagnola restano ancora, nonostante tutto, capisaldi dell’azione, tanto più utili nei momenti di forte tensione come quello attuale.
Sarebbe interessante indagare se e quanto sia stato utile il modello – anche solo come mito o metafora – nel fornire un senso e forza di reazione alla popolazione colpita, che ha visto scomparire punti di riferimento identitari nella lunga sequenza di scosse; che ha affrontato lo smarrimento dovuto al crollo di case e capannoni, in un territorio che proprio sul binomio casa-capannone aveva costruito la sua fortuna economica; che ha vissuto l’emergere di nuove tensioni nella vita promiscua delle tendopoli; che si è trovata ad affrontare le “new town” sorte per fornire una risposta abitativa alla fascia più marginale della popolazione, in particolare a quella di origine straniera, che aveva costruito il proprio futuro nei centri storici progressivamente abbandonati dalla popolazione autoctona ed oggi profondamente devastati dal sisma.
Ma l’elenco potrebbe continuare, fornendo nuovi elementi di conforto a chi crede che il “modello emiliano” possa ancora proiettare qualcosa in più dell’immagine sbiadita di un mito in declino.
La gestione del terremoto 2012 fornirà abbondanti materiali agli storici (oltre che a sociologi, economisti, psicologi, ecc.) e forse un nuovo convegno o un volume potranno spiegare se nella gestione dell’emergenza e nella fase della ricostruzione – che durerà almeno un decennio – le amministrazioni locali si siano ispirate e stiano ispirandosi al “modello emiliano” o a quello giapponese (come qualcuno suggerisce) oppure ancora al modello delle regioni a statuto speciale (leggi Friuli post 1976) oppure a nessun modello, affidandosi al pragmatismo ed alla capacità organizzativa che dopo la crisi della politica – secondo alcuni critici – rischia semplicemente di mascherare un’«assenza di valori» ed un «mero piglio manageriale» (Carrattieri, pag. 133).
Di certo, possiamo avanzare qualche suggestione e pista di ricerca, sulla scia delle analisi del volume collettaneo curato da De Maria.
Il primo spunto è che una parte rilevante dei comuni più duramente colpiti dagli eventi di maggio è stata governata ininterrottamente, negli ultimi 65 anni, da amministrazioni riformiste e progressiste, a volte con l’apporto determinante della componente cattolica. Queste amministrazioni hanno governato con una diversa idea della città e del protagonismo dei cittadini all’interno della città, con un nuovo modello di stato sociale, con particolari forme di assistenza, solidarietà ed accoglienza. È difficile affermare che questo non abbia inciso su una particolare (e da più parti apprezzata) gestione dell’emergenza 2012 e che ciò non contribuisca a porre basi nuove (e forse mai sperimentate) nella ricostruzione. Di converso, alcuni Comuni (in particolare del ferrarese), altrettanto duramente colpiti dal terremoto, non hanno avuto la stessa storia politica. Come è stata gestita l’emergenza in questi casi? Esistono differenze? La ricostruzione seguirà altre linee di sviluppo? Le domande non sono affatto retoriche ma – crediamo – possono fornire utili indicazioni sulla tenuta del modello.
Il secondo punto è che alcuni dei comuni, spostando le lancette della storia ancora più a ritroso, sono anche le culle del socialismo modenese ed hanno costituito esempi di governo di inclusione e partecipazione popolare ben oltre i confini provinciali: la Finale Emilia di Gregorio Agnini, comune che ha visto nascere le prime cooperative modenesi; la Concordia del riformista turatiano Confucio Basaglia, tra i primi sindaci socialisti d’Italia nel 1895; la Mirandola di Celso Ceretti ma anche di Ottavio Dinale e del riformista Francesco Salvioli, territorio di scontro ma anche di sintesi tra le varie anime della sinistra; senza dimenticare la Carpi di Alfredo Bertesi, che nel suo duplice ruolo di industriale e di influente leader politico riuscì ad imporre un sistema paternalistico di controllo personale delle organizzazioni dei lavoratori, delle amministrazioni locali e dell’associazione degli imprenditori del truciolo. Agli storici il compito di rintracciare quanto di quelle esperienze di “buon governo” sia sedimentato e resista nel tempo. La crisi della politica e della rappresentanza sembra aver travolto molto, ma come dimostrano i tre appuntamenti organizzati a Bologna e Modena nel 2010-2012 ciò che rimane non è soltanto un pragmatismo privo di valore.
Più in generale rimane la sensazione generalizzata e diffusa dell’“eccezionalità emiliana”, di una popolazione e di amministratori che nella circostanza più drammatica sono ripartiti – per dirla con le parole dell’Assessore Gian Carlo Muzzarelli – senza attendere il personaggio più noto di Samuel Beckett: «Nei momenti difficili emerge la cifra morale di una popolazione che chiede aiuto e solidarietà, ma non assistenza; una popolazione che si è subito rimboccata le maniche e si è messa al lavoro e chiede di essere accompagnata con misure di sostegno rapide ed efficaci. A questi nostri concittadini noi abbiamo il dovere di rispondere proponendo soluzioni, non illusioni. Non possiamo ripetere recenti e infelici esperienze, nelle quali al massimo delle promesse è seguito il massimo di delusione e il massimo di ritardi. Noi non vogliamo aspettare Godot».
L’Emilia terra del fare non vuole che quest’immagine rappresenti un alibi per altri livelli di governo, dato che «tanto gli emiliani sono bravi e fanno da soli». Qui si tocca un altro tema, affrontato a fondo nel volume Bologna futuro, ovvero la necessità di distinguere tra realtà e rappresentazione.
Della ricerca Ispo, commissionata dal Gruppo Giovani di Confindustria Modena, abbiamo già detto. In essa sono raccolte le percezioni degli italiani, alimentate dai media, e non necessariamente la realtà che sta vivendo la popolazione colpita dal terremoto, dove la voglia di “rimboccarsi le maniche” alle volte è frustrata dalle lentezze della burocrazia e dove la grande solidarietà è messa a dura prova, lasciando emergere, anche in settori dell’elettorato di centrosinistra, dubbi e critiche sulle politiche di integrazione e di inclusione sociale messe in campo negli ultimi anni. Non meno potenti sono però le auto rappresentazioni. Prendiamo ad esempio quella che descrive gli emiliani come giapponesi, rilanciata fino alla nausea su Internet nei giorni del terremoto. Si tratta di un’analogia non nuova, ma che è stata rivitalizzata da una lettera di un 43enne residente in provincia di Como, Davide Daniele[5]. La missiva, pubblicata sul Resto del Carlino, è stata “copincollata” sui profili Facebook di moltissimi utenti, emiliani e non, arrivando all’attenzione nazionale.
Almeno stando ai “post” di commento, l’emiliano, che si senta orfano o meno del “suo” modello, vuole ancora sentirsi rappresentato come un giapponese dedito al lavoro e pieno di creatività; ma in questa circostanza è sembrato che anche per gli altri italiani fosse rassicurante il fatto che l’emiliano assomigliasse al giapponese e non (per passare da uno stereotipo all’altro), all’aquilano “con le mani in mano”. E questo dopo che per mesi i media avevano raccontato dell’abruzzese fiero che non era stato piegato dal terremoto[6]. Potenza della (dis)informazione.
Di questi tempi, l’Emilia-Romagna ha bisogno di tutto tranne che della ripetizione di vuote formule. Pertanto, occorre restare in guardia verso chi applica semplificazioni, tenendo ben distinte realtà e rappresentazione, come ci indica Bologna futuro. Le sfide che la Regione ha di fronte, rese più urgenti dai drammatici avvenimenti di maggio, le evidenziava già De Maria: «l’idea e il senso di comunità, la crisi e la riforma dello stato sociale, le nuove forme di assistenza e solidarietà, l’immigrazione e l’accoglienza, i diritti e i doveri di cittadinanza e la trasformazione delle culture politiche» (pag. 40). Senza aspettare Godot.
[1] Per uno sguardo complessivo sulla storia recente dei terremoti in Italia e sul loro rilevante impatto rimandiamo al documentato volume di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni (Bologna, Bononia University Press, 2011).
Su questo si veda il resoconto di Alberto Ferraboschi su Officina della Storia: http://www.officinadellastoria.info/index.php?option=com_content&view=article&id=273:seminario-il-qmodello-emilianoq-nella-storia-ditalia-tra-culture-politiche-e-pratiche-amministrative-1889-2012&catid=22:storia-dellitalia-repubblicana&Itemid=32.
, «Agi», 20 novembre 2012 (http://www.agi.it/research-e-sviluppo/notizie/201211201331-eco-rt10133-terremoto_ispo_in_sei_mesi_capacita_produttiva_emilia_al_91).
[5] Cerco di essere emiliano, «Il Resto del Carlino-Modena», 5 giugno 2012. Questo il testo della lettera di Daniele (postata anche sul blog di Beppe Severgnini “Italians”, all’indirizzo http://italians.corriere.it/2012/06/13/cerco-di-essere-emiliano/): «Mia nonna abita a Carpi (Modena) Mio nonno si chiamava Emilio. Mio zio e mia zia abitano a Carpi. I miei cugini son di Carpi. I miei genitori si sono sposati a Carpi. Per quel che può contare, io e mia sorella siamo stati battezzati a Carpi. In un articolo di qualche tempo fa avevo letto che “l’Emilia è quel pezzo di terra voluto da Dio per permettere agli uomini di costruire la Ferrari”. Gli emiliani son così. Devono fare una macchina? Loro ti tiran fuori una Ferrari. Devono fare una moto? Loro costruiscono una Ducati. Devono fare un formaggio? Loro si inventano il Parmigiano Reggiano. Devono fare due spaghetti? Loro mettono in piedi la Barilla. Devono farti un caffè? Loro ti fanno la Saeco. Devono trovare qualcuno che scriva canzonette? Loro ti fanno nascere gente come Lucio Dalla, Francesco Guccini, Vasco Rossi, Ligabue e Samuele Bersani. Devono farti una siringa o una provetta? Loro ti tiran su un’azienda biomedicale. Devono fare quattro piastrelle? Loro se ne escono con delle maioliche. Sono come i giapponesi, gli emiliani, non si fermano, non si stancano, e se devono fare una cosa, a loro piace farla bene e bella, e utile e tutti insieme. Ed è proprio in questo modo che io cerco di essere emiliano ogni giorno. Ci son delle pietre da raccogliere dopo un terremoto? Noi alla fine ne faremo cattedrali. Davide Daniele – Como, dadaniele74@gmail.com».
Non banale, nell’evoluzione dello stereotipo, è stata la dichiarazione del Capo Dipartimento della Protezione Civile Franco Gabrielli sulla ripresa: «Ci sono molte cause ma anche il territorio ha le sue responsabilità. Io ho visto un territorio, quello emiliano, molto diverso dalla mia esperienza aquilana. È sempre facile dare le responsabilità ad altri, a chi sta fuori […] C’è in alcune comunità un attivismo, una voglia di fare, che sono insiti. La differenza, storicamente, in Italia, […] non la fa la quantità di denaro destinato agli aiuti ma la capacità di progettualità di ogni singolo territorio. E gli emiliani […] hanno reagito meglio» (http://www.unita.it/italia/gabrielli-polemiche-su-terremoto-br-emiliani-han-reagito-meglio-di-aquilani-1.455775).