Ringraziamo gli amici di «Officina della Storia» per aver ospitato gran parte delle relazioni del convegno, tenutosi all’Università di Salerno dal 9 all’11 maggio 2016, “La Cuccagna”. I media audiovisivi e l’Italia del miracolo, dedicato alla memoria di Aurelio Lepre.
Il convegno ha caratterizzato la XII edizione di «Filmidea-Incontri universitari di storia, cinema, musica e televisione», che dal 2005 rappresenta un’occasione per riflettere con i ragazzi, attraverso gli audiovisivi, su alcuni momenti della nostra storia (e per nostra intendiamo non solo quella italiana, immersi come siamo in una dimensione globale).
Più che un tema, abbiamo pensato di esaminare un periodo storico preciso, visto da prospettive e sensibilità molteplici (storici, storici del cinema, semiologi, studiosi di letteratura), tutte però riconducibili alle fonti audiovisive. Non una storia degli audiovisivi, ma una storia con gli audiovisivi, attenta cioè all’uso che ne veniva fatto e alle suggestioni da essi esercitate. Certo, può essere una storia sfuggente perché sfuggenti sono i media audiovisivi, come mostrò nel 1985 Woody Allen con La rosa purpurea del Cairo dove la protagonista Cecilia scambia per realtà le immagini dello schermo. Ai limiti della provocazione, potremmo definirla, per usare un aggettivo di moda (anche se ora mostra un po’ la corda), una «storia liquida».
E quale periodo della storia d’Italia, già peraltro notevolmente esplorato, si prestava meglio del decennio 1953-1963?
Dieci anni che cambiarono l’Italia. Aumentavano, specie nei settori trainanti dell’industria, i salari, ma ancora di più saliva la produttività operaia e la produzione industriale cresceva addirittura dell’89% (ampliando così il margine di profitto per gli imprenditori), mentre il PIL viaggiava tra il 5% e il 7% e la disoccupazione scendeva dal 10,3% al 3%. La struttura sociale ed economica italiana cambiava radicalmente. Nel 1952 la percentuale di popolazione attiva addetta al settore Agricoltura era del 42,40%, nell’Industria del 31,69%, nei Servizi del 25,90%. Dieci anni dopo i dati si modificavano radicalmente: nel 1962 l’Agricoltura occupava il 27,44% della popolazione attiva, l’Industria saliva al 40,38% e i Servizi al 31,27%.
Come una sorta di gigantesco “shakeraggio” le migrazioni interne cambiavano il volto del paese: nel 1958 erano 85.175 i meridionali che abbandonavano le loro terre, nel 1959 scendevano a 79.829 per poi risalire rapidamente a 135.018 l’anno successivo e toccare l’acme nel 1961 con 240.723. Complessivamente, alla fine dei Sessanta saranno 1.637.512 gli italiani emigrati dal sud al nord.
I consueti scenari del paese si modificavano profondamente. In un mutamento che rapidamente avrebbe sradicato secolari abitudini, gli italiani cambiavano innanzi tutto il loro modo di nutrirsi e, nel tempo, il loro aspetto. I consumi alimentari si trasformavano, a partire dalla presenza regolare della carne sulle nostre tavole. Le nostre strade si intasavano di auto (dalle 342.000 del 1950 si passava ai quattro milioni 670.000 del 1964) e di moto (700.000 nel 1950, quattro milioni nel 1964). Il 7 dicembre 1956 veniva inaugurato il primo tratto dell’Autostrada del sole (Milano-Parma). Nel 1964 l’autostrada sarà completata arrivando a Napoli.
Sempre più nelle famiglie italiane arrivavano gli elettrodomestici (nel 1958 il 3% delle famiglie possiede una lavatrice, il 13% un frigorifero; nel 1965, il 23% una lavatrice, il 55% un frigorifero).
Erano gli anni insomma in cui iniziava a concretizzarsi in Italia l’aspirazione a quei beni di consumo che aveva già fatto capolino, anche se solo sotto forma di sogni, nella seconda metà degli anni Trenta («Se potessi avere mille lire al mese» recitava la canzone portata al successo dal film Mille lire al mese) e della cui pericolosità per il regime Mussolini si era reso conto. Nel discorso tenuto il 25 ottobre 1938 al Consiglio Nazionale del Pnf il duce aveva parlato di un nemico che minacciava «il nostro regime»: «Questo nemico ha nome “borghesia”». Non «una categoria economica», aggiungeva, bensì «una categoria morale», «uno stato d’animo», «un temperamento», «una mentalità nettissimamente refrattaria alla mentalità fascista». E non a caso il discorso veniva subito dopo l’incontro di Monaco quando, nel viaggio di ritorno, Mussolini, sgomento, si era visto acclamare come il salvatore della pace.
Tornando ai Sessanta, erano gli anni in cui iniziava a verificarsi la «cetomedizzazione» (De Rita) dell’Italia e iniziava quell’omologazione di cui avrebbe parlato successivamente Pasolini, anche se un altro autore, troppo spesso dimenticato, anticipava di un buon decennio lo scrittore friulano. Sull’«Avanti!» dell’8 gennaio 1960 Luciano Bianciardi scriveva:
La festa della cristianità si va inoltre scattolicizzando. L’onda dell’americanismo batte anche su questa spiaggia, e non sembra che il Vaticano voglia far qualcosa per arginarla. Quasi mai si è sentito, alla radio e alla televisione, cantare la vecchia e celebre pastorale di Alfonso dei Liguori. Quasi sempre invece, si è sentito Heilige Nacht (naturalmente in lingua inglese), che è canzone natalizia a diffusione protestante. E addirittura si son riascoltate le note di un motivo (nenia irlandese in origine, e per nulla natalizia) che ci è rimbalzato dall’America, ed è piombato fra di noi quale sigla musicale di una marca di benzina. La gente lo ascolta e non sa se farsi il segno della croce o correre al distributore.
Un ceto medio che è quello della piccola borghesia commerciante, propensa – probabilmente proprio per il suo mestiere – a vedere tutto nel territorio circoscritto della “bottega”, e quindi con un’ottica individualista e attenta al tornaconto personale. Ma è anche quello, ormai preponderante, delle professioni “intellettuali” (professori, avvocati, architetti, ingegneri, ecc.), frutto di una scuola e, successivamente, di un’università di massa, maggiormente attento alla “cultura”, intesa in senso vasto: un ceto medio che viaggia, si esalta nel visitare la Mostra Italia 61 a Torino (nel 1961 il centenario dell’unità d’Italia viene festeggiato riscuotendo quasi ovunque vasti consensi), va a cinema e a teatro e sempre più prova fastidio per una censura ottusa che arriva a vietare qualunque rappresentazione possa sembrare “scabrosa”. Solo nel novembre 1960 i fulmini della censura si abbattevano su Il gobbo di Lizzani, Una giornata balorda di Bolognini, I dolci inganni di Lattuada, sequestrato, peraltro, a più di un mese di distanza dall’entrata in circolazione, quando ormai era in proiezione nelle sale di terza visione, mentre nel febbraio 1961 veniva colpito Visconti per l’allestimento teatrale de L’Arialda di Testori e non cessavano gli attacchi, anche da parte del ministro dello spettacolo, il democristiano Alberto Folchi, a Rocco e i suoi fratelli, arrivato peraltro sugli schermi con molte sequenze oscurate.
È un ceto medio che fa sì che nel 1960 ai primi quattro posti negli incassi cinematografici si piazzino quattro film italiani, non certo facili: La dolce vita di Federico Fellini, Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, Tutti a casa di Luigi Comencini, La ciociara di Vittorio De Sica, lasciando al kolossal Ben Hur un misero quinto posto.
E sono anche i figli di questo ceto medio, i «ragazzi dalle magliette a strisce», ad animare la «nuova Resistenza» dell’estate del 1960 contro il governo Tambroni. Si veda l’inchiesta di Romano Ledda su «Rinascita» che segnala tra l’altro come il movimento sia sfuggito all’attenzione delle organizzazioni tradizionali della sinistra: sono giovani che non frequentano le sezioni Pci, che spesso si disinteressano dei grandi temi della politica, ma che non tollerano il ritorno a modelli del passato rappresentati dai partiti di destra, in primo luogo il MSI. Insomma, un primo delinearsi di quella frattura generazionale che troverà spazio e compiutezza negli anni successivi e che è frutto, oltre che di una scolarizzazione più accentuata, anche – e veniamo agli audiovisivi – di una diffusione della cultura, sorretta dal cinema e dalla televisione che ampliano orizzonti consueti, e dalla musica, con le case discografiche che individuano un target preciso nei giovani in seguito all’avvento di un genere, il rock ‘n’ roll che aveva scatenato – oggi si direbbe “sdoganato” – atteggiamenti un tempo censurati e che marcavano una netta differenza con il mondo degli adulti: «for ever young and beautiful» cantava Elvis Presley. Dai nove milioni e mezzo di dischi venduti nel 1956 si passava ai dodici milioni dell’anno successivo per arrivare ai circa 17 milioni del 1958 (per la precisione 16.875.200), con il 45 giri che soppiantava definitivamente il 78 giri. Negli stabilimenti balneari – ma non solo – arrivava il juke-box, la «scatola per ballare» (dai 500 del 1956 si passava ai 4000 del 1960). Il corpo seminudo dei giovani, sempre più snello e longilineo (La voglia matta), si incontrava, si sfiorava e si allontanava nei nuovi balli che si alternavano al classico “lento”.
Nasceva così, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, come soggetto sociale, l’universo dei giovani. Un universo in espansione, non privo di contraddizioni e ambiguità, differenziato in complesse articolazioni, il cui elemento unificante è il percepirsi come un mondo a sé, separato da quello degli adulti. La nuova identità sociale passa per la propria musica, il proprio cinema, le proprie letture, il proprio modo di vestire che li separa dagli adulti e crea i loro referenti in modelli internazionali, mutuati prima dal cinema americano, da Marlon Brando a James Dean, e successivamente dall’Inghilterra dei Beatles.
Un’Italia in conclusione che “volava” (per citare la canzone di Modugno vincitrice del Festival di Sanremo del 1958) e che nel dicembre 1959 ritirava con Salvatore Quasimodo il premio Nobel per la letteratura e con Emilio Segré quello per la fisica (nel 1963 Giulio Natta avrebbe vinto il Nobel per la chimica), mentre nel 1960 il «Financial Time» attribuiva alla lira l’Oscar per la moneta più stabile. Un’Italia dove l’industria sposava la cultura. Un solo esempio: il «Gatto Selvatico», la rivista aziendale dell’Eni, diretta da Attilio Bertolucci, ospitava gli scritti di Caproni, Gatto, Menna, Cassola, Natalia Ginzburg, Gadda, La Capria, Siciliano, Bassani, Anna Banti, Berto, Comisso, Parise, Sciascia (e l’elenco non è completo!).
Certo, l’Italia di quegli anni non era solo luci, ma anche ombre (e di non poco conto), come si incaricheranno di mostrare alcuni saggi.
Il «miracolo» o, per dir meglio, il «boom», come preferivano chiamarlo gli italiani all’epoca, fu a due, o più, velocità. Al dualismo industria-agricoltura si aggiungeva quello della stessa industria, con lo sviluppo soprattutto di quei settori – metallurgico, meccanico, chimico – legati alle esportazioni e concentrati per la quasi totalità nel triangolo Milano-Torino-Genova. La crescita impetuosa comportava scompensi notevoli, dalla «distorsione dei consumi» (sviluppo frenetico di quelli privati a scapito di quelli pubblici) all’ampliamento del divario Nord-Sud. Alla lacerazione del tessuto urbano delle metropoli del triangolo industriale si accompagnò lo sviluppo esponenziale delle città (nel 1955 il 21,6% della popolazione italiana viveva in città con più di centomila abitanti; questa percentuale saliva nel 1968 al 28%), un urbanesimo diffuso con la conseguente crescita disordinata dei centri urbani e il parallelo spopolamento delle campagne del meridione, soprattutto di quello interno.
Elementi negativi messi in luce da molti intellettuali che, soprattutto a partire dall’anno in cui si celebrò il centenario dell’unità, iniziarono a segnalare i guasti del boom e del nascente consumismo. Il discorso richiederebbe uno spazio che non ci possiamo consentire, ma ci pare lecito sottolineare come in quegli anni si assista a una sorta di divaricazione tra gli intellettuali (come gli autori di cinema) e gli italiani che del miracolo furono beneficiari. Come ha scritto Aurelio Lepre, alla cui memoria abbiamo voluto dedicare il convegno, molti intellettuali guardarono alle realizzazioni del miracolo «dall’esterno», come nel caso delle nuove abitazioni, giudicandole elementi che alteravano il paesaggio, senza capire che chi le abitava le guardava invece, dopo anni passati in baracche, «dall’interno: uno spazio finalmente abitabile a misura umana». Certo, il boom comportò in molti casi il “sacco” delle città e causò danni notevoli al territorio. Quanto contò però l’incapacità della classe politica dirigente di guidare e governare il cambiamento (si pensi all’abortita riforma urbanistica di Fiorentino Sullo)?
L’avrebbe riconosciuto qualche anno dopo Guido Carli, governatore della Banca d’Italia dal 1960 al 1975, che nell’Intervista sul capitalismo italiano (1977) curata da Eugenio Scalfari imputava alla classe dirigente (di cui non nascondeva di far parte) «una sola colpa, ma molto grave: per non porre ritardi allo sviluppo produttivo, non ci siamo preoccupati che esso fosse accompagnato e sorretto dagli investimenti sociali necessari; che fosse magari più lento, ma più ordinato e stabile […]… avremmo dovuto, per ogni nuova impresa che nasceva, per ogni nuovo posto di lavoro che veniva creato, preoccuparci di costruire la scuola, le case, l’ospedale, i trasporti collettivi. E rifondare la pubblica amministrazione affinché fosse capace di accogliere e soddisfare le richieste della nuova popolazione».
Come si sarà capito, in queste righe abbiamo solo tentato di delineare quanto accadeva nel paese in quegli anni, non intendendo operare una sintesi dei tanti studi sull’Italia del miracolo.
Ci preme invece sottolineare l’importanza dei media audiovisivi e, nello stesso tempo, la cautela necessaria nell’usarli.
Fonti e, nello stesso tempo, agenti di storia.
Al cambiamento della società italiana gli audiovisivi dettero un contributo fondamentale e, nello stesso tempo, in certo qual modo lo rispecchiarono. Usiamo il verbo «rispecchiare» con tutte le cautele del caso: qui non possiamo soffermarci su come esso vada inteso. Abbiamo comunque ben chiaro che la realtà dello schermo (grande o piccolo) non era, non è e non sarà mai quella reale (non a caso sopra abbiamo accennato al film di Woody Allen). L’audiovisivo rispecchia una “presa di posizione” sulla realtà, una “prospettiva” che è quella dell’équipe che lo ha realizzato. Ed è proprio questo che ci interessa. Da un lato, la rappresentazione che di questo cambiamento cinema e televisione, seguendo percorsi diversi, davano (fonti). Dall’altro, la «nazionalizzazione» da loro indotta (agenti di storia).
Iniziamo dal cinema di finzione, che ha caratterizzato l’Italia degli anni Sessanta e che, direttamente e indirettamente, ha avuto i suoi riflessi sul panorama televisivo e sugli altri media, sia come influenza diretta, sia come spartizione del “territorio” dell’immaginario dell’italiano. In quegli anni vive la sua age d’or. Tra il 1957 e il 1963 ben quattro premi Oscar vanno al cinema italiano:
1957 – Le notti di Cabiria, miglior film straniero;
1961 – Sophia Loren, miglior attrice per La Ciociara, primo Oscar consegnato a un’attrice per un film non in lingua inglese;
1962 – Ennio De Concini, Alfredo Giannetti, Pietro Germi, miglior sceneggiatura originale per Divorzio all’italiana;
1963 – 8 e ½, miglior film straniero.
Un cinema che fino alla Dolce vita sembra sorridere in modo quasi sfrontato al futuro e che successivamente inizia a riflettere invece sui danni arrecati da uno sviluppo così veloce. Un titolo per tutti che è diventato anche l’icona del miracolo: Il sorpasso. Il quarantenne Bruno Cortona [Vittorio Gassmann, che al momento di girare aveva proprio 40 anni] è il nuovo italiano del boom: narcisista, cinico, sbruffone, cialtrone, lontano dalla religione e dalla politica (sul parabrezza della sua Aurelia ha un contrassegno della Camera dei Deputati che dovrebbe servire a evitargli le multe), pronto a cogliere tutte le occasioni per soddisfare i suoi desideri e incurante degli altri («Ma che vuoi passare il ferragosto in commissariato?» dice all’attonito Roberto che vorrebbe testimoniare su un furto). E però con una vitalità e un’intraprendenza («ti sblocchi, te butti, fai come me!») che prima spaventano, poi attraggono inesorabilmente il timido studente universitario Roberto Mariani [Jean-Louis Trintignant], residuo di un’epoca al tramonto («Pure la canottiera. Ma sei proprio un selvaggio!»). L’epilogo è noto. Un sorpasso in curva chiude la vicenda. Roberto muore e Bruno ripeterà attonito alla pattuglia della polizia stradale: «Si chiamava Roberto, il cognome non lo so, l’ho conosciuto ieri mattina». Il sorpasso descriveva un Paese dove sembrava non esserci più frattura tra società ed economia da una parte e modelli e stili di vita dall’altra. Sembrava. Ma probabilmente solo a chi si fosse posto nella stessa prospettiva, dalla quale era impossibile guardare cosa ci fosse dietro la curva, del superficiale Bruno Cortona. La strada era ancora lunga e non era possibile abbreviarla fermando il tempo. Era, questa, solo un’illusione. Pensavamo – noi italiani – di poter volare (come cantava Domenico Modugno). Non era così!
Se i film mettevano in guardia dai pericoli rappresentati dalle veloci trasformazioni della società italiana, diverso era il percorso della televisione. Dalla fine degli anni Cinquanta il cinema inizia a fare i conti con la televisione, che sempre più troneggia nei salotti delle case italiane (nel 1958 il 12% delle famiglie possedeva un televisore, nel 1965 sarà il 45%).
Lascia o raddoppia? (prima puntata ufficiale: 26 novembre 1955), Il Musichiere (7 novembre 1957), Campanile Sera (5 novembre 1959) fanno conoscere l’Italia agli italiani, mentre gli «sceneggiati» propongono i grandi testi della letteratura internazionale (il 9 marzo 1957 va in onda la prima puntata di Jane Eyre) e italiana (il 26 ottobre dello stesso anno è la volta di Piccolo mondo antico, primo «sceneggiato» tratto da un romanzo italiano), e contribuiscono a divulgare la storia, del nostro paese (il 6 dicembre 1959 inizia Ottocento, tratto dal romanzo di Salvator Gotta, regia di Anton Giulio Majano; il 26 ottobre 1960 La Pisana, tratto da Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, regia di Giacomo Vaccari), ma non solo: l’11 marzo 1962 va in onda la prima puntata de I giacobini, diretto da Edmo Fenoglio, che avrà un seguito nel 1964 con I grandi camaleonti. L’11 ottobre 1960 Mario Scelba, in qualità di ministro degli interni, inaugura le trasmissioni di Tribuna elettorale, confessando di nutrire perplessità sulla comparsa dei politici in TV che certamente non hanno le «qualità fisiche» dei personaggi televisivi. L’anno successivo Fanfani annunzia l’inizio di Tribuna politica. Gli esponenti politici sono goffi, impacciati: eppure la trasmissione piace, raggiungendo alti indici di gradimento e soprattutto interessando un pubblico che difficilmente avrebbe letto i giornali. E in questa velocissima carrellata come non ricordare Non è mai troppo tardi, la trasmissione che contribuisce all’alfabetizzazione del paese? Ben 35.000 persone, grazie al programma ideato e condotto dal maestro Alberto Manzi, ottengono il diploma di licenza elementare già nei primi anni della trasmissione. Ma soprattutto come non citare la trasmissione più emblematica del miracolo, quel Carosello (3 febbraio 1957) che diffonde e introduce nuovi modelli di comportamento e nuove abitudini (come ha ricordato Aldo Grasso, dopo qualche anno di Carosello, il consumo di sapone in Italia si quadruplica: «L’Italia impara a lavarsi»)? Quel Carosello che è l’esempio più eclatante – con la netta divisione tra la “scenetta” (che oscilla, a seconda degli anni, tra il minuto e 45” e il minuto e 55”) e il “codino” pubblicitario finale di 35 secondi che sovente non ha nessun collegamento con lo sketch – della «nazionalizzazione» portata avanti dalla TV, basata sul modello americano dei consumi e, contemporaneamente, dal necessario “distacco” con cui guardare a questi stessi beni di consumo.
Una televisione – va doverosamente sottolineato – egemonizzata dalla DC che aveva lasciato al PCI l’egemonia sulla “cultura alta”. Il “capolavoro culturale” della DC e del suo retroterra cattolico (spesso tradizionale) fu appunto quello di saper gestire il cambiamento, non di combatterlo o rifiutarlo, permettendo l’immissione di piccole dosi di americanismo e di modernismo, nel senso dei consumi, con un graduale e controllato cambiamento “all’italiana”, escludendo ad esempio il divorzio, l’emancipazione della donna, il ribellismo giovanile, la laicità: fenomeni propri della società USA e delle più avanzate democrazie occidentali. Il che le consentì di combattere il comunismo sul piano dei consumi e del cambiamento e anche le idee del liberalismo più aperto e la laicità borghese. In altre parole, vista la fragilità delle istituzioni democratiche dopo la guerra e la perdita di un’identità nazionale a lungo identificata con il regime fascista e con la figura del duce, quello messo in atto dalla DC fu un tentativo (sottovalutato dal PCI e dalle sinistre) di “nazionalizzare”, tramite la televisione, gli italiani, ricorrendo a modelli che si discostassero da quello americano e contemporaneamente recuperassero la tradizione culturale italiana di derivazione cattolica.
Riassumendo, mentre il cinema d’autore denunciava i guasti del boom e anche quello comico ironizzava sull’industriale Sordi, appassionato di canzoni, che anelava a partecipare al Musichiere, la TV, monopolizzata dalla DC, prospettava il modello di una (piccola) modernizzazione possibile, trasferendosi in città, comprando qualche elettrodomestico, una cucina americana (o meglio all’americana), con mobili bianchi, moderni, frigorifero e tutto il resto, che era poi l’aspirazione vera di tante donne italiane. Mentre i film o i documentari (di sinistra) si attardavano a denunciare la povertà e l’arretratezza del sud, la “visione” prevalente diffusa dalla TV, da Carosello, o anche dalle inchieste televisive di autori, come la Cavani o altri, prospettava l’orizzonte di (piccoli) cambiamenti possibili, di (piccole) conquiste quotidiane, che il boom e il consumismo introducevano o almeno rendevano accessibili. Carosello ad esempio abituava gli italiani a una progressiva modernizzazione, ma fermamente ancorata al passato, preservando i “valori” e le identità tradizionali: cibo industriale, ma italiano, donna moderna ma che resta in casa a regnare sulla sua cucina americana, che sorveglia con occhio indagatore i pavimenti tirati con la cera Liù, e che si esalta per le conquiste della chimica italiana (Moplen). La TV, inoltre, conciliava le esigenze giovanili facendo interagire Rita Pavone e lo «yé yé» con il “matusa” Fabrizi. Le spinte giovanili venivano accettate e anche in un certo senso incoraggiate, a patto che rimanessero confinate in una innocua dialettica tra generazioni, basata sulla musica moderna e su qualche novità della moda o del linguaggio.
Il disagio lo esprimevano soprattutto gli intellettuali e – come si è detto – il cinema d’autore che vedevano i guasti e le ombre della modernizzazione del boom: qualche anno dopo, si sarebbero aggiunte alcune fasce dell’universo giovanile. Molto meno critici erano gli italiani medi, i piccoli borghesi e anche le plebi meridionali che emigravano in cerca di qualche beneficio materiale che il boom prospettava come cambiamento possibile, come benessere economico (magari con una montagna di cambiali).
Non ci sembra opportuno tracciare una conclusione. Vogliamo però sottolineare che sovente si è guardato al boom con gli occhi di chi, in anni successivi, magari più vicini ai nostri, ha osservato i guasti e le distorsioni della modernizzazione, senza considerare le migliori condizioni di vita che avvicinavano l’Italia alle moderne democrazie industriali dell’Occidente, quasi che questo processo fosse naturale e scontato.
E qui sta il merito degli audiovisivi: segnalare (lo spartiacque è rappresentato come si diceva da La dolce vita) a cosa poteva portare la nuova società che si andava delineando, il pericolo che l’Italia correva, sfiorando, come l’Aurelia sport di Bruno Cortona nel Sorpasso, pericolosamente il ciglio della strada. Ma anche mostrarci la gioia, l’allegria, la serenità, soprattutto la speranza con cui si guardava al futuro. Ironizzando sì sui consumi, ma anche vedendoli per quello che erano, non un valore o uno status symbol (almeno non allora), ma un modo per affermare l’uscita definitiva dall’indigenza e dalle ristrettezze dei quindici anni precedenti. Nell’Italia del boom erano in gran parte vivi coloro che – chi da adulto, chi da anziano, chi da bambino – avevano vissuto e sofferto le privazioni della guerra. E nessuno di loro avrebbe voluto ricaderci. Ma molti dirigenti politici e intellettuali di sinistra stentavano a capirlo e l’aspirazione al benessere era vista come un valore di destra, salvo a riconoscerlo ex post.
Come farà Pietro Nenni che, nel 1971, in un’intervista concessa a Oriana Fallaci, rivendicava con orgoglio le lotte e i sacrifici sostenuti per il “benessere” degli italiani: «Ho visto crescere sotto i miei occhi ben tre generazioni: la mia, quella dei miei figli, quella dei miei nipoti. Guardandoli penso: non sono stati inutili questi decenni di lotta, oggi si sta tanto meglio di quanto si stesse ai tempi miei. Sì, la vita è infinitamente meno dura, oggi. Non c’è paragone col mondo in cui erano nati mio padre e mio nonno».
Pietro Cavallo
Pasquale Iaccio
Margherita Platania