Da quasi tre decenni Pietro Cavallo tenta di convincere gli storici dell’epoca contemporanea che le produzioni audiovisive sono strumenti imprescindibili per la loro ricerca. I suoi colleghi gli danno ragione in linea di massima, ma non usano mai radio, cinema o televisione o, se per caso lo fanno, si accontentano di citare frammenti testuali[1], non sanno che il significato di un dialogo dipende dal punto dove è inserito nel film e dalla maniera in cui viene filmato[2]. È nelle nuove generazioni, abituate a comunicare con parole e fotografie, che Pietro Cavallo ha incontrato un’apertura mentale grazie alla quale ha creato, nell’università di Salerno, un attivo centro di studio dei documenti audiovisivi e ha lanciato iniziative originali, come l’approccio a certi momenti del passato attraverso i film e le trasmissioni televisive.
Il boom economico degli anni ’50 e ’60 era un oggetto privilegiato per un procedimento di questo tipo: gli schermi, grande o piccolo, hanno contributo in maniera notevole all’illustrazione dei progressi economici e sociali che hanno marcato l’epoca. Mettere a fuoco i loro messaggi, accanto ai testi e alle statistiche già ampiamente analizzati, era un’impresa nuova. Le quattordici relazioni riunite in questo sito aprono un capitolo inedito nell’approfondimento di quello che è stato chiamato il “miracolo italiano”.
Un lavoro in cantiere
In parecchi saggi si afferma che il valore informativo dei prodotti audiovisivi, per essere diverso da quello dei documenti cartacei o archeologici, non è di qualità inferiore, e che una storia del mondo attuale privata del ricorso sistematico ai film o alla televisione non fa che sfiorare il suo argomento. Nel loro entusiasmo, i relatori non si soffermano sulle difficoltà che i ricercatori devono affrontare quando si servono di fonti audiovisive.
La questione, tuttavia, non è indifferente.
Perché gli storici non si servono di queste risorse? Perché, abituati ai testi che possono citare o riassumere, si chiedono come accostarsi alle immagini in movimento, sentono che comunque qualcosa sfugge loro e non sanno cosa è. Una riflessione preliminare su oggetti che non sono di natura testuale è indispensabile. Non a caso Paolo Mattera inizia il suo articolo con un’interrogazione epistemologica fondamentale: quale ipotesi lo studioso deve formulare per giustificare il ricorso a una fonte non “classica”, musica nel suo testo, immagini in movimento negli altri saggi?
L’illusione della “trasparenza” sembra ancora forte tra i ricercatori che si occupano di film: la fotografia è “oggettiva”, ci mette il mondo sotto gli occhi, uno dei relatori parla di trasmissioni televisive “capaci di restituire la realtà”, che “raccontano la realtà”. Bisogna ricordarsi che l’immagine fotografica registra, sì, un frammento del mondo concreto, ma che la scelta dei parametri tecnici (luce, inquadratura, focale, angolazione, situazione nel montaggio) fa di ogni foto un punto di vista sulle cose, non una “restituzione” di queste. Tutte le opere studiate sono “rappresentazioni” – non copie dell’Italia degli anni ’60, bensì maniere di interpretare e di presentare aspetti di quest’Italia.
Paolo Mattera rileva che le rappresentazioni sono agenti di storia, “capaci di indirizzare i valori e di orientare i comportamenti” e fonti di storia, canali d’informazione. La sua distinzione, utile e benvenuta in questo numero di «Officina della Storia», merita di essere precisata. Le creazioni culturali, indipendentemente dai messaggi che portano, generano atteggiamenti collettivi caratteristici delle società nelle quali sono prodotte. Il cinema mobilitò, il sabato sera o nel pomeriggio della domenica, milioni di persone che spesso non sapevano quello che stavano per vedere. Il rituale era talmente forte che in Italia, a differenza di altri paesi europei, il cinema resistette alla concorrenza della televisione fino agli anni ’70. Dal 1960 al 1964, precisamente al culmine del boom, l’Italia passò da un ascolto televisivo irregolare, principalmente maschile e comune, di solito nei bar, a una frequentazione in famiglia che influì fortemente sulle strutture familiari. E oggi i giovani hanno lasciato il televisore agli anziani per immergersi nei cellulari, nei tablet e negli smartphone.
I modelli di comportamento e di consumo illustrati nelle opere culturali incidono, a volte, sulle pratiche degli individui, ma l’effetto non è automatico, non tutte le produzioni sono agenti e quando se ne parla non basta descriverle, bisogna sempre verificare se hanno o non hanno avuto un impatto. Ci fu per esempio, all’epoca del boom, un tentativo di sviluppare un filone cinematografico di fantascienza italiana, un pugno di film inscenò la minaccia atomica, ma solo due di loro produssero un utile: l’indifferenza del pubblico fa sì che questi film non insegnino niente sull’eventuale interesse degli Italiani per il nucleare. Consapevole del problema, Paolo Mattera non si limita a spiegare perché canzoni e danze nuove potevano piacere ai teenagers negli anni ’60, indaga sulle risorse delle quali i giovani disponevano per conoscere la musica pop – i 45 giri e non solo la radio – sui luoghi dove la ascoltavano – i bar con i juke-box – sulle maniere di ballare, sui conflitti intergenerazionali a proposito del rock e del twist. Riesce così a mostrare come una generazione si è auto-definita e singolarizzata attraverso un ascolto e una gestualità che la distinguevano dalle generazioni precedenti.
Certi relatori, dopo aver compiuto ottime analisi di una sceneggiatura o di un personaggio, non si sono chiesti fino a che punto le opere che avevano scelto di studiare sono state agenti di storia – quale modello hanno proposto e quale pubblico hanno toccato. Agnese Bertolotti fa con garbo un ritratto acuto e vivace dell’attrice Marisa Allasio, indica come la sua esuberanza, la sua silhouette sottile ed elegante, il suo atteggiamento allo stesso tempo libero e ironicamente distante nei confronti dei maschi ne facessero un esempio di femminilità moderna. Chi s’interessò a questa figura? Fu molto popolare o passò inosservata? La relatrice non si fa la domanda, mentre la risposta getta una luce interessante sulla relazione tra opera e pubblico. All’inizio del boom (1954-58) la provincia s’interessò a una ragazza emancipata, preoccupata di esercitare un mestiere ma disposta ad accettare lavori modesti – commessa, impiegata – e decisa a trovare un marito – indipendenza personale in un ambito socio-economico immutato. Nelle varie situazioni in cui si muovono i personaggi a cui dà vita l’attrice, l’emancipazione femminile sembra non coincidere con un migliore tenore di vita.
Agenti, i prodotti culturali sono anche fonti storiche, ci mettono in contatto con momenti dell’attività sociale. Talvolta importante è la parte orale, commenti off o dialoghi che si prestano a una trascrizione testuale, come nella seconda puntata di La casa in Italia (la trasmissione su cui si sofferma Bruno Bonomo) le statistiche e le dichiarazioni d’imprenditori o, nella terza e la quarta puntata, le aspre discussioni tra marito e moglie o madre e figlia, testimonianze di concezioni opposte del benessere domestico. Nondimeno, le immagini sono fatte prima di tutto per essere viste, non per essere maldestramente descritte in parole. La deficienza del linguaggio appare specialmente nei saggi che evocano i mutamenti in corso all’epoca del boom; i relatori parlano di alloggi malsani: come si presentavano? Spiegano che, sullo schermo, sono sostituiti da edifici moderni – costruiti come? Con quale luminosità, quali dimensioni, quale sistemazione? Evocano le bonifiche rurali, i mezzi di comunicazione, la motorizzazione di massa, la moda, le vacanze, in breve le innovazioni che modificano i paesaggi, cambiano le condizioni materiali dell’esistenza e che lo storico avrebbe la fortuna di guardare grazie alla cinepresa – a patto che vengano mostrate, non trascritte in parole.
L’immagine non è il riflesso neutro di una situazione, manifesta un’opinione. Girati da ottimi operatori, i cinegiornali Incom studiati da Andrea Miccichè mostrano, a proposito della riforma agraria in Sicilia, una campagna perfettamente ordinata, armoniosa, dove coltivare sembra facile, i commenti entusiasti della voce fuori campo contano meno delle riprese che rendono palesi i progressi compiuti: deprivato di tali sequenze, un articolo non restituisce la forza persuasiva della fonte filmica.
Esiste la possibilità d’inserire in un saggio immagini e anche brevi brani di film o di programmi televisivi. Le scienze esatte, fisica, medicina, geografia ne fanno uso da molto tempo. La storiografia fa fatica a interrompere una tradizione letteraria che risale a tremila anni, questa raccolta è un grande passo avanti, la prossima sarà costruita attorno ai documenti visuali[3].
Tre sogni
Gli studi sull’epoca del boom mescolano spesso due evoluzioni diverse, da un lato un cambiamento culturale che coinvolge nuove generazioni desiderose di prendere le distanze nei confronti dei loro predecessori, dall’altro un rapido e importante miglioramento delle condizioni di vita. Se le due tendenze hanno interferito (i mezzi di trasporto hanno permesso ai giovani d’incontrarsi lontano dalle famiglie, i televisori hanno reso desiderabili case moderne, articoli elettrodomestici, macchine) non si sono condizionate l’una l’altra. Il desiderio di autonomia personale, la volontà di esercitare un mestiere da parte di molte ragazze, il gusto per la musica americana, per le danze dove, come scrive Paolo Mattera, uomo e donna ballano “ciascuno in modo paritario e indipendente” si sarebbero manifestati, anche se non ci fosse stato il “miracolo”, le mondine di Riso amaro si erano già immesse sulla strada in un’epoca di penuria e di restrizioni. All’inverso i genitori, non i figli, beneficiarono di una velocità mai raggiunta prima del miglioramento degli alloggi e della diffusione di apparecchi domestici. In pochi anni, speranze e illusioni nate nella società italiana hanno trovato un’espressione nelle produzioni audiovisive. In linea di massima, cineprese, magnetofoni, dischi registrano il negativo e il male come il positivo e il bene ma i film, i dischi, sono merci fatte per divertire gli acquirenti, mentre la missione della televisione, all’epoca del monopolio statale, era di convincere l’audience che tutto andava bene grazie alla politica del governo. Ad eccezione di rarissime opere indipendenti – qui il solo L’antimiracolo presentato da Salvatore Iorio – le realizzazioni audiovisive respiravano buon umore e soddisfazione. Auspicare un avvenire differente, migliore del presente, è banale in tutti gli ambiti, ma i rapidi cambiamenti sopravvenuti negli anni 1958-63 hanno permesso al cinema, alla televisione e alla canzone d’inscenare un’Italia dinamica, entusiasta, felice e hanno avviato tre sogni.
La parte della popolazione che visse il primo sogno era il ceto che possiamo chiamare “visibile” perché era il bersaglio principale dei mezzi di comunicazione. Stando a Carosello, analizzato nel suo profilo generale da Stefano Magagnoli e a partire della propaganda Eni da Elio Frescani, l’esistenza era diventata un piacere continuato per questa classe che l’affrontava giorno dopo giorno con scioltezza. Il formato particolare della trasmissione, un’allegra scena di costume seguita da una rapida “réclame”, consentiva d’inscenare momenti di vita tanto più convincenti in quanto eseguiti con estro. Guardandoli oggi, scopriamo che i compiti domestici non pesano più sulle spalle delle padrone di casa, vari strumenti eseguono i lavori abitudinari, lasciando alle donne il tempo di divertirsi o di riposare. Perfettamente truccate, elegantemente vestite, fanno gli onori di casa senza darsi da fare grazie a un materiale sofisticato. Se la Settimana Incom si compiace delle cucine e dei bagni, Carosello (come del resto i film a soggetto) evita questi luoghi e i loro strumenti, gli effetti contano più delle cause, gli elettrodomestici sembrano robot che tutti desiderano introdurre nella loro casa ma di cui non si parla nell’ambiente medio borghese perché possederli va da sé[4].
C’era, però, un’eccezione, l’automobile, bene “nuovo”, non nella sua natura ma nella sua diffusione massiccia: in un decennio, 1953-63, da 350.000 si passò a più di 4.500.000 di veicoli – e da 700.000 a più di 4.000.000 di motociclette. Il paese era affascinato dalle auto, i ragazzi sognavano di possederne una[5]: Marilisa Merolla ricorda la «consacrazione canora» dell’automobile in Andavo a cento all’ora di Gianni Morandi, «esempio della commistione motore-amore, di più in rima baciata». Cento all’ora, velocità mitica, i motorini ne erano molto lontani, ma davano un’impressione di rapidità, di mobilità libera e infinita che entusiasmava i giovani. Il ceto benestante non sfuggiva all’infatuazione generale, Stefano Magagnoli descrive con umorismo i capi di abbigliamento, di buon gusto, curati nei più piccoli dettagli, che le coppie abbienti indossavano per visitare, “a bordo di automobili di fascia alta”, monumenti famosi o amici. Come spiega il relatore, la marca prestigiosa (con il relativo prezzo) dell’auto indicava la qualità superiore del prodotto promosso alla fine della sequenza e faceva sentire ai consumatori che acquistandolo facevano parte dell’èlite. Ricco e povero si sfioravano negli ingorghi automobilistici, l’intasamento stradale, luogo comune di tutte le conversazioni, si prestava ai sarcasmi, La settimana Incom ironizzava – lo ricorda Mariangela Palmieri – sulle “lunghe code” che si trascinavano verso le spiagge; Guido, il protagonista di 81/2, bloccato in un’interminabile fila, usciva dalla sua macchina grazie a un palloncino, la televisione ovviava alla carenza d’informazioni politiche o internazionali durante il week-end con chilometri di automobili in sosta. Fare la coda era una perdita di tempo e di denaro ma, come affermava Epoca[6], in poco tempo l’auto era divenuta “il rivelatore più evidente della situazione economica”: nell’atmosfera del boom i vantaggi (è la mia macchina) superavano gli svantaggi.
Il secondo sogno, riguardante la giovinezza, era più complicato, concerneva in maniere diverse gli adolescenti e gli adulti. Appartenere alla classe 1940 voleva dire un ricordo di cinque anni di guerra e sette anni di penuria e di tensione: inevitabilmente un ritorno alla normalità, un relativo benessere provocarono uno slancio di vitalità tra i teenager, che erano in grado di spostarsi, andare in gita, bere coca-cola, comprare dischi a buon prezzo e ballare. S’imparavano nuovi gesti – fare delle acrobazie sul motorino, trionfare velocemente dello spazio, ballare avvicinandosi e separandosi dal partner, denudarsi per il bagno – e nuove relazioni con l’altro sesso.
Per Paolo Mattera due parole, allegria e trasgressione, caratterizzano lo stato d’animo di molti giovani all’inizio degli anni ’60. La partecipazione di Mina e Celentano a Sanremo nel 1961 gli dà ragione ma, come lo stesso autore riconosce, non tutti i teenager apprezzavano una musica in rottura con le canzoni sentimentali trasmesse alla radio e con allusioni apertamente sessuali. Dopo tutto, i motivi languidi di Bobby Solo erano ancora molto popolari, anche tra gli adolescenti. Mina e Celentano avevano voluto provocare l’audience tradizionalista della città balneare ma l’idea forte di trasgressione non veniva piuttosto dall’intransigenza un poco ottusa di certi adulti? Ai numerosi esempi di una tale intolleranza dati da Paolo Mattera aggiungo il diario di Margherita Nicotra (conservato all’archivio di Pieve Santo Stefano) nel quale la catanese trentenne esprime a più riprese (11 gennaio, 13 aprile 1960) la sua ripugnanza per l’“hullabaloo” che incanta i teenager.
Incontriamo qui l’altro aspetto del sogno, lo sguardo al medesimo tempo ammirato e invidioso degli adulti davanti ai corpi svelti, disinvolti, snelli e sodi degli adolescenti. Gabriele Rigola si è fermato su una favola cinematografica, La voglia matta (1962) nella quale un quarantenne (Ugo Tognazzi) s’invaghisce di una ninfetta sedicenne. Imbarcato in mezzo a un gruppo di giovani, l’uomo maturo non cessa di paragonare il suo corpo appesantito, poco agile, a quello dei ragazzi: la “voglia matta” e disperata di sposare la fanciulla s’impone come rimedio, mezzo di ringiovanirsi per procura. La fiction evidenzia la presenza invadente e seducente dell’immagine giovanile nei mezzi audiovisivi. Mariangela Palmieri rileva che, sulle spiagge, la Settimana Incom catturava una moltitudine di corpi seminudi. Anni prima i cinegiornali Luce avevano già passeggiato lungo il mare, ma era soltanto un pretesto per esaltare il dopolavoro fascista, la cinepresa non si soffermava sulle belle ragazzine. La Incom, invece, privilegiava signorine o donne giovani, slanciate, sorridenti e, sotto il pretesto di fare domande senza interesse, si fermava a lungo sulla loro anatomia e sul loro seducente costume. La nudità pubblica, all’epoca, era inconcepibile[7], però la siesta sulla sabbia, la ginnastica, la pallavolo erano altrettanti pretesti per sognare.
E i dirigenti del paese, anche loro, s’inventavano – o tentavano di convincere i cittadini di partecipare a – un sogno collettivo. Si erano impegnati a trasformare l’Italia e volevano che i mezzi di comunicazione seguissero, tappa dopo tappa, la realizzazione del progetto. La casa in Italia, serie televisiva diretta da Liliana Cavani, studiata qui da Bruno Bonomo, illustra il loro metodo. La trasmissione fu controllata dalla censura, che fece modificare drasticamente, nella seconda puntata, la minuziosa analisi della speculazione sulle aree fabbricabili: i costruttori ebbero il diritto di esprimersi a lungo, i loro contraddittori non parlarono direttamente. Invece i censori non imposero tagli alla prima puntata, servizio allarmante sugli alloggi malsani, sull’occupazione abusiva di edifici in rovina, sugli appartamenti bui e senza acqua abbandonati dai Torinesi e occupati da immigranti, sulle misere stanze napoletane dove una famiglia dormiva in un solo letto, sulle borgate di Roma: mostrare l’ampiezza e la gravità del male consentiva di enfatizzare, nelle due ultime puntate, i progressi realizzati. I problemi, precisava la terza puntata, erano enormi, nelle campagne lo Stato contribuiva a sanare gli alloggi, ma i giovani partivano per la città. La trasmissione citava critiche abilmente scelte, le lagnanze riguardo all’assenza di televisione o all’obbligo di mettere la casa in ordine sembravano derisorie in rapporto alla fortuna di avere un alloggio decente. Pubbliche o private, le soluzioni enumerate nella quarta puntata erano numerose, a patto che si svolgessero “secondo piani urbanistici preordinati e razionali”.
Il Mezzogiorno era l’ambito ideale per mettere in atto un audace piano di trasformazione; due relatori, Immacolata Del Gaudio e Andrea Miccichè l’hanno incontrato, la prima in Il viaggio nel Sud, serie trasmessa dalla RAI nel 1958, il secondo nei documentari e nelle Settimane Incom. L’impulso era stato dato e continuava a venire dall’alto, Stato e Regione assicuravano le infrastrutture, strade, scuole, ospedali, costruivano case, installavano l’acqua corrente, aiutavano i contadini a trarre profitto della riforma agraria. Bastava ascoltare il dottor Fiorentini, agronomo, gestore di una masseria nei dintorni di Manfredonia, per capire come, con l’aiuto statale, si passava dall’agricoltura estensiva a uno sfruttamento razionale e produttivo. Spettava ai meridionali continuare sullo slancio per fare del Sud e delle isole ricche regioni agricole. Testimoni selezionati si rallegravano dei progressi ottenuti, la vita, dicevano, era diversa, più libera, la terra rendeva bene, e chi non voleva coltivare poteva andare in fabbrica o accogliere i turisti. Voci isolate ricordavano la permanenza della povertà, delle malattie endemiche, del potere dei grandi proprietari, ma, sugli schermi, il Mezzogiorno era totalmente coinvolto nel miglioramento generale.
Dietro gli schermi
Annamaria Sapienza rileva varie debolezze nella trama come nella realizzazione di Peppino Girella, serie televisiva scritta da Eduardo de Filippo, mandata in onda nel 1963, e nota che fu freddamente accolta, nonostante la fama dell’autore. E se la ragione di una tale debolezza consistesse nel fatto che Eduardo, volendo mostrare la Napoli del boom, si rendeva conto che qualcosa era cambiato ma, non credendo al “miracolo”, non sapeva come rendere conto della trasformazione?
La relatrice qualifica giustamente l’opera come “dramma iperbolico”. Andrea, un disadattato, che vive tra sradicati e fannulloni della sua risma, non trova lavoro mentre suo figlio, Peppino, sa approfittare di tutte le occasioni per arricchirsi. Bravo ragazzo, Peppino mantiene la famiglia e riesce a scovare un impiego per Andrea che non sente riconoscenza e non nasconde la gelosia che provocano i successi di Peppino. Annamaria Sapienza fa notare la “dissonanza” tematica e anche stilistica che caratterizza l’opera. La trama oppone, classicamente, vecchio e nuovo mondo in una città “che non riscatta chi non riesce a trovare un ruolo nel mutato stato delle cose”, ma il passaggio da ieri a oggi non è il frutto di un’evoluzione economica, bensì della capacità o dell’incapacità di adattamento della quale gli individui danno prova. Il fatto è universale, non congiunturale: Peppino pratica “l’arte di arrangiarsi”, Andrea l’ignora. La serie deluse il pubblico perché ignorava la questione all’ordine del giorno: Napoli viveva un’epoca eccezionale? O i più abili si accontentavano di mettere a profitto l’evoluzione del sistema produttivo?
I telespettatori reagirono in maniera negativa perché il piccolo schermo mandava quotidianamente un messaggio entusiasta a proposito del boom. Bisognava essere molto attenti per rilevare, nella serie La casa in Italia, l’intreccio, apparentemente casuale, evidentemente voluto, di case lussuose, di palazzi, di quartieri modernissimi, forniti dei servizi più sofisticati grazie al piano Ina Casa, e di case della periferia milanese nelle quali i lavoratori facevano fatica a pagare l’affitto. Al cinema le satire del consumismo e della propensione dei clienti a soddisfare, come scrive Stefano Magagnoli, i loro “bisogni (reali o latenti)” facevano ridere senza mettere in ballo le trasformazioni economiche. Un cortometraggio, Il pollo ruspante[8] si burlava del suo protagonista, prototipo, per citare Gabriele Rigola “del consumatore degli anni del boom … all’inesauribile ricerca dell’ultima novità in campo” senza chiedersi perché i negozi traboccavano di oggetti apparentemente lussuosi, inutili, continuamente rinnovati. Le critiche dirette e topiche s’incontravano altrove, nei film marginali come L’antimiracolo (1965) studiato da Salvatore Iorio.
La carriera pubblica dell’opera è stata difficile e breve. A dispetto di una premiazione a Venezia gli esercenti esitarono a proiettarla, passò solo in cineclub e circuiti paralleli. A prima vista è uno dei numerosi film antropologici del mezzo secolo che hanno registrato tradizioni ancora vive nel Sud, ma, confrontato alle descrizioni entusiaste di un Mezzogiorno in piena trasformazione che abbiamo incontrato sopra, costringe a riconsiderare questa visione soddisfatta. Sannicandro Garganico, dove fu girato, si trova a 37 chilometri da Manfredonia, luogo dove, l’abbiamo segnalato, la Cassa per il Mezzogiorno aveva sistemato una fattoria modello, creando un’oasi di agricoltura intensiva. Dopo aver esposto le condizioni precarie nelle quali vivono gli abitanti di Sannicandro e le difficoltà della pesca di anguille nei laghi di Varano e Lesina, loro risorsa principale, il film registra rituali ai quali partecipano tutti i Sannicandresi. Lavori e celebrazioni costituiscono un insieme, uniscono gli individui in una comunità densa, affiatata, arcaica nei confronti della società industrializzata, capace di resistere in un ambiente sfavorevole[9]. Il titolo del film assume due significati diversi. Segna i limiti di un boom che mette in disparte gran parte della popolazione italiana e si interroga circa le finalità di un cambiamento che sta per rompere le solidarietà tradizionali: una pesca moderna sui laghi impiegherà poche persone, ma che ne sarebbe della comunità di Sannicandro? La migrazione forzata di molti non distruggerebbe i rituali e di fatto il fondamento della comunità?
Sono domande palesemente assenti nei documenti audiovisivi del boom. La ricostruzione del paese aveva mobilitato un’imponente manodopera maschile e femminile. Nella seconda meta degli anni ’50 il lavoro cominciò a diminuire, le migrazioni dal Sud verso il Nord provocarono una forte disoccupazione e i rapidi progressi dell’automazione ridussero i bisogni dell’industria. Le vittime furono soprattutto le donne: nei soli anni del boom – 1958-63 – 200.000 posti di lavoro femminile furono soppressi. Il paradosso è che, nel medesimo tempo, cinema e televisione celebravano la volontà di rendersi indipendenti grazie al lavoro espressa da moltissime donne. Immacolata Del Gaudio insiste, nel suo studio di Il viaggio nel Sud, sul contributo decisivo che le donne danno allo sviluppo del Mezzogiorno: si mostrano orgogliose di guadagnare un salario e di sostenere la loro famiglia, non si stancano a dispetto della difficoltà dei loro compiti. L’entusiasmo è ancora più forte nei cinegiornali Incom presentati da Andrea Micicché: le giovani operaie sono felici, ricevono in fabbrica soldi grazie ai quali potranno sposarsi; le più grandi, già sposate, hanno bicicletta o vespa, fanno visitare le loro case bene attrezzate, si sono sbarazzate dei vestiti neri in favore di abiti più adeguati. Insomma, la cuccagna!
Come conciliare i fortissimi inviti al lavoro femminile e il calo degli impieghi? Marisa Allasio ci dà la risposta, non con i suoi personaggi cinematografici, bensì con la sua carriera personale. A 18 anni, prima di trovare un marito, voleva guadagnarsi denaro e riuscì a introdursi in uno studio. Era svelta, elegante, ma la sua recitazione era disastrosa, bisognava farla doppiare, sapeva che non sarebbe mai diventata una star, il suo passaggio al cinema era un lavoro temporaneo che sarebbe durato fino alle nozze. Il caso, eccezionale nella fattispecie, era banale nel suo principio: centinaia di ragazze, in attesa di un fidanzato, cercavano un lavoro provvisorio. Industria e servizi hanno sempre bisogno di personale interinale quindi, ignorando un calo evidente nell’occupazione femminile, la televisione e ancora di più la Settimana Incom[10] celebravano la liberazione delle donne per merito del lavoro dipendente.
L’entusiasmo della Settimana Incom riguardo a un cambiamento che, in poco tempo, avrebbe radicalmente modificato la quotidianità di migliaia di signore è talmente ingenuo da suscitare immediatamente diffidenza. Risveglio dell’esercizio critico: la confutazione dei discorsi di propaganda s’incontra negli stessi discorsi, bisogna rilevare contraddizioni, dimenticanze, silenzi, chiedersi perché un tema venga trattato in un certo momento, interrogarsi sugli argomenti riuniti nei cinegiornali o i notiziari televisivi e sull’abbinamento di soggetti disparati nei rotocalchi [perché, in una medesima trasmissione di Tv7 i (buoni) calciatori dilettanti del Latina e i (cattivi) teppisti inglesi], mostrarsi attenti alle domande fatte nei reportage (inducono la reazione dell’intervistato?) e alla presentazione della risposta (integrale o solo in frammenti?). In altre parole: guardare solo lo schermo non basta, dal momento che le informazioni più importanti possono essere dietro.
Continua
Il convegno non mirava a ripercorrere il boom economico degli anni 50-60: si trattava di studiarne l’eco e le descrizioni nei mezzi audiovisivi e nella canzone. Per eterogenee che siano, le relazioni permettono di accennare ad alcune conclusioni.
I registi di cinegiornali e di documentari cinematografici o televisivi hanno compiuto efficacemente il lavoro per il quale erano pagati, le loro produzioni hanno, all’epoca, reso manifesti i notevoli progressi realizzati e, un mezzo-secolo dopo, continuano a dare un’immagine seducente del periodo. Analizzare altri film o altri programmi non aggiungerebbe gran che ai risultati già ottenuti, le conclusioni del lavoro sono chiare: intervento attivo dello Stato nella costruzione edilizia, urbanistica, modernizzazione del Mezzogiorno, espansione di una pubblicità sensibile alle attese degli spettatori, miglioramento dell’alimentazione, trionfo dei mezzi di trasporto meccanici, sviluppo del turismo e delle vacanze al mare.
A partire da tali costatazioni si può andare avanti, anche se moltissime indagini rimangono da fare. Primo punto da approfondire: qual è stato l’impatto dei film e programmi dedicati al boom? Scoprirlo non è facile, il fatto che una questione sia citata in cento o mille documenti non basta per decidere che interessava l’opinione pubblica, è necessario valutare le reazioni dei destinatari: per esempio quante persone hanno visto un film, dove è stato proiettato, per quanto tempo, s’incontrano negli archivi giudizi personali sull’opera?
Altro punto cruciale: le rappresentazioni. Come i registi procedevano per rendere visualmente attraenti gli oggetti o le realizzazioni dei quali trattavano? La domanda è fondamentale non solo per una migliore conoscenza del boom, ma anche per la ricostruzione della cultura visuale vigente in una certa epoca: attraverso cinema e televisione tutti gli esseri umani hanno scoperto, durante il Novecento, orizzonti precedentemente sconosciuti e, prima dell’uniformazione del visibile secondo i criteri americani, ogni paese ebbe un patrimonio d’immagini con i suoi paesaggi, i suoi edifici, i suoi costumi. Gli Italiani condividevano un repertorio d’immagini che distingueva il loro clima intellettuale da quello di altri popoli.
Film e trasmissioni pubblicitarie, cinegiornali, documentari, mostrano aspetti dell’ambito nel quale sono girati: comportamento della gente nei luoghi pubblici o nei negozi, abbigliamento, densità del traffico stradale, condizioni generali dell’habitat, aspetto delle periferie e delle campagne. Com’era l’Italia cinquant’anni fa?
Le domande sono infinite, le relazioni riunite qui sono soltanto l’inizio di una vastissima ricerca.
Pierre Sorlin
[1] Certi osano «analizzare» trasmissioni televisive che non hanno visto, basandosi su cronache giornalistiche. Tale procedimento contribuisce a squalificare l’uso di film come documenti storici.
[2] Per fare un esempio, il dialogo nel corso del quale i tre amici di C’eravamo tanto amati si lamentano di non avere cambiato l’Italia viene spesso citato come prova della delusione che segna gli anni ’70. Chi tiene conto della situazione dell’episodio nel film si rende conto che sono lacrime di coccodrillo, i tre sono perfettamente contenti della loro situazione ma, ritrovandosi dopo venti anni di separazione, spargono lacrime sulla loro giovinezza.
[3] L’auspicio di Sorlin sarà purtroppo, almeno nei tempi brevi, di difficile attuazione, dal momento che la legislazione italiana di fatto impedisce di utilizzare, se non per il solo uso didattico all’interno di strutture scolastiche e universitarie, stralci audiovisivi coperti dal diritto d’autore (Nota dei curatori).
[4] Parliamo qui di rappresentazioni, non di statistiche. Nel 1963 il 22% delle famiglie, approssimativamente il ceto in questione, aveva una lavatrice. Questa gente non amava evocare i beni strumentali, la discrezione di Carosello era adattata al suo pubblico principale.
[5] U. Alfassio-Grimaldi e I. Bertoni lo notavano (p. 47) in I giovani degli anni sessanta, inchiesta nelle medie e i licei tecnici di Pavia e Voghera (Bari, Laterza, 1964).
[6] 23 ottobre 1960. Evidentemente per molti lavoratori sistemati lontano dalla loro impresa, la macchina era una costosa necessità, ma di questo i media non parlavano.
[7] Fu censurata, insieme a allusioni omosessuali in L’antimiracolo di Elio Piccon.
[8] Episodio del film collettivo Rogopag, 1963.
[9] La permanenza di pratiche agricole antiche e di un folclore pagano-cristiano appare ugualmente, ma di maniera meno sistematizzata in Gela antica e nuova (1964) film prodotto dall’Eni.
[10] All’opposto di quello che alcuni relatori sembrano pensare, la Settimana Incom non difendeva la politica del Governo, era legata alla Confindustria, ostile all’intervento dello Stato nella direzione dell’economia. Erano le imprese private che avevano bisogno di lavoratori a tempo parziale.