Nell’estate del 1957 la RAI commissiona a due scrittori, uno trevigiano, Giuseppe Berto, l’altro originario del Molise, Giose Rimanelli, la scrittura dei soggetti e delle sceneggiature per una serie filmata di dieci trasmissioni televisive[1] che saranno poi realizzate sotto la regia di Virgilio Sabel[2]: nasce così Viaggio nel Sud (1958), apprezzato prototipo del neonato genere dell’inchiesta televisiva italiana[3], fortemente debitore nei confronti del modello cinematografico soprattutto nella sua matrice neorealista[4]. Andata in onda appena un anno dopo il Viaggio nella valle del Po’ di Mario Soldati, richiamando implicitamente il precedente radiofonico di Guido Piovene, la serie inaugura una stagione televisiva in cui il nuovo mezzo di comunicazione dimostra di essere in grado di leggere, praticamente in tempo reale, il senso e la problematicità dei cambiamenti in atto: «l’atmosfera di modernizzazione di cui la televisione si sentiva testimone ma anche “attore”, è sempre venata dalla preoccupazione per l’impatto talvolta devastante che il nuovo produce sulla società, per il prezzo che viene pagato, in squilibri, residui di arretratezza […][5]».
Nell’arco di un quinquennio, infatti, la televisione è già divenuta il mezzo di comunicazione nazionale più seguito con venti milioni di utenti; in un paese in gran parte analfabeta il suo «afflato educativo» conduce «il cittadino-spettatore verso un rinnovato processo di unificazione nazionale»[6]. Nonostante il visibile e l’udibile siano ristretti ai valori di uno stato affatto laico e di un’informazione austera e paternalistica – precisa ancora Marco Bertozzi nella sua Storia del documentario italiano – le inchieste giocano un ruolo importante nell’innovazione delle forme documentarie, a partire dall’adozione del 16mm e dalla dilatazione della durata temporale ben oltre i classici dieci minuti, e costituiscono una fonte preziosa in grado di restituirci lo spirito e le contraddizioni di un’epoca di profonde trasformazioni: anche in Viaggio nel Sud è il tempo a prendere il sopravvento riducendolo «ad atto mediatorio tra i desiderata dei suoi autori, quelli dei committenti e quelli della storia»[7]. Se il potere politico, saldamente gestito dalla DC, colse immediatamente nel nuovo potenziale sia i pericoli che l’efficacia dell’impatto, si comprende come fosse affidato alla televisione di Stato sostanzialmente il compito di fornire all’opinione pubblica i bilanci positivi dell’operato governativo, diffondendo una idea di nazione che ne riflettesse il programma e sposando la strategia comunicativa sul Meridione già adottata nei cortometraggi prodotti su commissione dal Centro Documentazione della Presidenza del Consiglio sin dalla fondazione della Cassa per il Mezzogiorno[8]. Una strategia comunicativa che mira a mettere in evidenza, anche in questo ciclo, la soluzione di continuità con i retaggi del passato, in nome di una monolitica fede positivista nel progresso scientifico-tecnologico, e a rafforzare coesione sociale e spirito d’identità nazionale.
Come sottolinea Rimanelli nella breve nota al programma d’introduzione custodito nel suo archivio privato, l’obiettivo è spiegare «come e perché il mezzogiorno è diverso dal resto dell’Italia»[9], illustrando i termini della questione meridionale nelle sue radici profonde e secolari, e dimostrare ad un pubblico sovente informato in modo approssimativo, non con discorsi astratti ma attraverso la realtà direttamente documentata, che il problema è in via di soluzione grazie alla «colossale opera di risanamento delle zone depresse»[10] iniziata dal Governo. L’inchiesta muove, pertanto, guerra
ai tanti luoghi comuni, purtroppo così duri a morire, che offuscano la visuale di tanti milioni di italiani quando rivolgono gli occhi al Sud […] sono pregiudizi inveterati ai quali sono malauguratamente attaccati anche molti meridionali, a cominciare dall’ingiustificato presupposto di un immobilismo economico e sociale del Mezzogiorno che non ammetterebbe altra soluzione che la evasione, rappresentata dall’emigrazione interna ed esterna […] ai pregiudizi e ai luoghi comuni […] Viaggio nel Sud contrappone i documenti di una realtà che non deve assolutamente essere considerata come estranea alla realtà di tutto il paese, ma che di essa è parte integrante ed essenziale[11].
Interlocutori prediletti sono, infatti, tanto i connazionali delle regioni più fortunate, invitati a viaggiare e conoscere le bellezze del Sud, dando così il proprio contributo al suo sviluppo; gli imprenditori e i commercianti, che devono comprendere l’utilità collettiva che questi territori diventino a loro volta un mercato dove vendere internamente i beni prodotti nell’intera penisola; gli operai del Nord, che riconosceranno nei colleghi meridionali (di cui si sottolinea continuamente l’attitudine al lavoro e l’altissima produttività una volta superato il gap iniziale) qualcosa di più di confratelli o colleghi; ma, altrettanto, i meridionali stessi, in cui Viaggio nel Sud vorrebbe contribuire a rafforzare un’intima fiducia nelle proprie forze e nelle proprie concrete possibilità, mostrando da un lato quanto il Meridione abbia saputo già fare per la propria rinascita, dall’alto quanto ancora bisogno ci sia dell’iniziativa individuale per portare a compimento il processo che lo Stato ha contribuito così fortemente ad avviare.
A tutti questi destinatari si rivolge spesso apertamente la calda voce fuori campo di Arnoldo Foà, che con il suo commento costante rappresenta un elemento portante del servizio, una presenza forte della parola che talora – come spesso accade nel linguaggio tele-cinematografico, nel solco, d’altronde, della tradizione del documentarismo di propaganda dal Luce alla Incom[12] – prevarica il visivo, esprimendo le tesi precostituite del discorso. La tecnica narrativa utilizzata dal regista, infatti, ricalca lo stile di Conoscerci, «programma di Amicizia e Verità realizzato Virgilio Sabel con la collaborazione del pubblico, perché anche coloro che sono lontani ci sembrino vicini di casa»[13] a cui pensa anche Rimanelli in fase di progettazione[14], e consiste, almeno nelle dichiarazioni d’intenti, «nel far parlare liberamente di sé e dei propri problemi personaggi veri, autentici, colti nel loro ambiente di lavoro e di vita senza preparazione e con l’immediatezza di un discorso che ha per secondo interlocutore lo spettatore stesso: al commento redazionale, […] spetta il compito di impostare gli argomenti, di inquadrarli, e di risalire alle conclusioni generali, evitando il pericolo di una frammentarietà che nuocerebbe fatalmente alla narrazione»[15].
In realtà, non di rado le interviste realizzate da Pino Locchi, presenza visiva costante nell’inquadratura o voce fuori campo che in questi frangenti si alterna a quella del narratore extradiegetico, servono soprattutto a confermare la linea espressa dal commento: l’indagine scopre quel che sin dall’inizio si era «deciso di dimostrare piuttosto che di mostrare»[16]. L’“immediatezza” è, dunque, in buona parte il risultato di un accurato lavoro di scelta, di tagli, di montaggio, a maggior ragione se si considera che in alcune sequenze si ricorre apertamente ad una forma di commistione dei generi, introducendo nel contesto documentario elementi di fiction per drammatizzare il racconto. È quanto accade precisamente nell’ottava puntata dedicata a Carpinone (Campobasso), trasmessa il 19 giugno 1958, in cui la sedicenne Maria interpreta se stessa per raccontare la storia di una giovane contadina che, liberata dalle incombenze del lavoro agricolo grazie alla formazione delle cooperative, può incrementare i propri guadagni concentrandosi sul tombolo, attività tipica dell’artigianato locale. Una vicenda biografica e familiare scelta proprio per la sua ordinaria rappresentatività.
Articolata in dieci trasmissioni della durata di quasi mezz’ora, andate in onda di giovedì sera, alle ore 22, tra il 24 aprile e il 3 luglio 1958 rispettando una cadenza per lo più settimanale, Viaggio nel Sud non segue, infatti, un itinerario geografico, ma dedica due puntate, quella introduttiva e quella conclusiva, a temi generali e le altre otto a contesti e problematiche particolari, scelti, come viene spesso ribadito nei titoli di coda, per essere analogicamente indicativi di situazioni simili, risalendo da realtà contingenti a dinamiche ben più ampie e complesse.
La puntata inaugurale, significativamente intitolata La questione meridionale, è tutta proiettata a chiarire lo spirito programmatico dell’intera opera, muovendo non a caso dall’intervista in interno a una donna originaria di Legnago, in provincia di Verona, ma stabilitasi a Policoro da due anni in quanto moglie di un tecnico di uno zuccherificio nato per la trasformazione della barbabietola coltivata in zona. Della popolazione locale la donna non può dir nulla perché non esiste nessuna forma di contatto: i due nuclei, quello meridionale e quello settentrionale, sono rimasti «piuttosto estranei». Questa spiacevole situazione, «caratteristica di un brutto costume italiano», è definita assurda nel commento che accompagna le immagini del paesaggio lucano, tra poveri paesini dell’entroterra e coste in via di trasformazione[17],
perché da una parte gli italiani contribuiscono coi soldi delle loro tasse ai miliardi che lo Stato spende per il Sud e, dall’altra parte, non si preoccupano di compiere quello sforzo umano di comprensione e di amore che ognuno deve applicare anche nelle più piccole iniziative individuali, per non parlare di un’impresa colossale come questa del livellamento del Sud col Nord. Ed invece, tolta la simpatia per il colore e le canzoni del Sud, che montagna di luoghi comuni, di frasi fatte, di preconcetti! Lo scopo di questa trasmissione è di andare contro tutto questo, contro l’indifferenza e l’ignoranza. Il Sud non è soltanto la terra dell’amore e del sole: è una terra di problemi!
A cominciare da quello dell’acqua, più volte ripreso nelle puntate successive e punto di partenza anche delle riflessioni letterarie che Rimanelli dedica al Sud nei suoi appunti privati, simbolo di una sofferenza atavica della popolazione meridionale, ma anche del cambiamento in atto in quegli anni con la costruzione di dighe e acquedotti[18]. Di sole, infatti c’è n’è anche troppo al Sud, senza un filo d’acqua per l’irrigazione, sintetizza lo speaker nel documentario: per doloroso contrasto, questa è la terra della penuria d’acqua, con la popolazione costretta a file di ore per riempire le otri alle poche fontanelle distanti anche chilometri, e delle inondazioni improvvise dei torrenti, o “fiumare”, che alle prime piogge si gonfiano spaventosamente, defluendo nel giro di pochi giorni direttamente a mare, senza che la loro portata possa essere imbrigliata in bacini e laghi artificiali e adeguatamente sfruttata[19]. Ma se il Sud non è alla pari delle altre regioni, le motivazioni vanno ricercate nella storia di un Meridione che pure un tempo era stato «ricco e civile quando il resto dell’Europa, compreso il settentrione d’Italia, era ancora immerso nella barbarie e nella preistoria». Interessante – anche per osservare come la televisione abbia interpretato e raccontato al grande pubblico la recente storia nazionale all’antivigilia del centenario dell’Unità – è la lunga parentesi storica (circa un terzo dei 25’09” dell’intera puntata) che si apre mentre sullo schermo cominciano a comparire le rovine dei templi, in una panoramica orizzontale da destra a sinistra. Ripercorrendo le vicende italiche dalla floridezza della Magna Grecia, i cui segni sono ancora visibili da Paestum a Metaponto, da Siracusa ad Agrigento e di cui è disseminata la letteratura classica, il documentario si ricollega al mito della ricchezza e della prosperità naturale del Sud, nato nel XII secolo per poi essere in vario modo ripreso e rinverdito nelle epoche successive[20]. Una natura ubertosa mortificata, però, da una storia sfortunata: fino a quando si mantenne l’Impero romano il Sud fu più progredito del resto della penisola, decreta con fermezza il commentatore; poi sopravvenne la decadenza del Medioevo con invasioni barbariche, guerre, devastazioni e terre abbandonate e questo finì per segnare una cesura netta, una tendenza che non sarebbe più stata invertita fino al secondo Novecento[21]. Gli abitanti si erano rifugiati, infatti, nei borghi sulle alture mentre le terre più fertili lungo le coste venivano lasciate alle paludi e alla malaria; lì, in paesi dove manca la piazza – simbolo della rinascita, delle libertà comunali, della vita pubblica – sarebbero rimasti «aggrappati» ai loro castelli, schiacciati dal peso delle disposizioni tributarie che fino all’Ottocento avrebbero contribuito a determinare e ad aggravare la tragica povertà delle masse contadine. Così viene presentata l’Italia meridionale conquistata dai Piemontesi e da Garibaldi, ritratto in una delle tradizionali mise iconografiche tra le camicie rosse su un cavallo bianco rampante mentre brandisce la spada per incitare i suoi alla battaglia. Il montaggio passa dal dipinto celebrativo della spedizione dei Mille al dettaglio di un articolo d’epoca sul varo del “Flavio Gioia” e di quadri raffiguranti i cantieri navali napoletani. Questi, come tutte le altre industrie floridissime presenti nella capitale borbonica – sostiene il narratore – si reggevano, tuttavia, fittiziamente, grazie ad alti dazi protezionistici che caddero con l’Unità e non furono in grado di reggere la competizione con le altre industrie del Nord[22]. Lo stesso potrebbe accadere all’Italia entrando nel mercato comune europeo senza un adeguamento delle produzioni e dei costi, è il monito. Ma se gli spettatori possono stare tranquilli perchè la questione negli anni Cinquanta viene analizzata scientificamente dai politici italiani ed europei, l’Italia di allora non era preparata e pensò che bastasse «un po’ di entusiasmo risorgimentale»: invece si arrivò ad un peggioramento delle condizioni, con imposizioni come la tassa sul macinato e il servizio militare obbligatorio che le popolazioni non comprendevano. Fatti questi che alimentarono il «brigantaggio politico» fino al piano di Cavour che, finalmente, avrebbe dato un forte segnale di speranza. Alla sua morte tutto sarebbe, invece, tornato come prima finché «tre uomini d’ingegno», i cui ritratti si susseguono sullo schermo, il napoletano Pasquale Villari, il toscano Leopoldo Franchetti e il lucano Giustino Fortunato avrebbero riportato la questione meridionale all’ordine del giorno. Dopo l’intervista al barbiere di quest’ultimo, un uomo del popolo al posto di un qualunque altro personaggio autorevole scelto per confermare il valore dell’impegno meridionalista dell’intellettuale, si passa a ricordare il viaggio del Presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli e a citare genericamente le leggi definite provvidenziali del 1904 e del 1906 che, tuttavia, al pari dell’interessamento appassionato di alcuni meridionalisti come Francesco Saverio Nitti, riuscirono a «sanare soltanto in superficie» mali troppo profondi e radicati. L’aumento demografico e la disoccupazione che ne derivò avrebbero poi dato luogo all’emigrazione[23] che sembrava l’unico sollievo possibile, come sottolinea il narratore, mentre scorrono sullo schermo le immagini di un bastimento di emigranti che parte salutato dallo sventolio di fazzoletti bianchi sulla banchina del porto. Le lacrime di una donna seduta sul ponte della nave diretta verso le Americhe col suo compagno che si porta le mani al volto e gli occhi tristi di un cane in gabbia trasmettono tutta la sofferenza dello sradicamento, mentre in sottofondo cominciano a udirsi le parole pronunciate in inglese da un pensionato americano che, dopo aver ricordato la permanenza a Detroit come operaio nell’industria automobilistica, canta orgogliosamente l’inno della Legione americana. La musica e la sfilata dei militari italiani che effettuano il saluto romano e s’imbarcano per l’Africa proietta, a seguire, lo spettatore nell’atmosfera degli anni Trenta, quando il Fascismo «preferì tentare le vie dell’impero come sbocco alla popolazione esuberante» per poi richiamare alla mente, sulle note della canzone Angelina, il più recente arrivo degli Americani, con le camionette e i carri armati che sfilano tra la folla in piazza San Pietro e Piazza Venezia. Mentre un gruppo di ragazzini corrono precedendo l’arrivo della corriera, che segna la fine dell’excursus storico richiamando le immagini iniziali, ritorna la voce narrante a chiarire come dopo la fine della seconda guerra mondiale «il ritorno al costume democratico e la moderna necessità di un equilibrio economico interno» avessero riportato la questione meridionale all’ordine del giorno in tutta la sua cruda evidenza grazie a studi, inchieste, commissioni governative. A titolo esemplificativo vengono inserite immagini di repertorio che danno forma concreta al quadro delineato pochi anni prima da Padre Zaccaria di Locri, sul versante ionico della Calabria, che descrive la miseria della popolazione che viveva in «topaie» sovraffollate sotto l’influenza di gruppi padronali e delle relative clientele, nonché la difficoltà logistica legata alla scarsa praticabilità delle strade interne. Le sequenze mostrano il prototipo di questi agglomerati di case arroccate pericolosamente su dirupi, trai cui vicoli bui e sudici si aggirano uomini «intristiti privi di lavoro», donne affaticate dai pesi che portano sulla testa e schiere di bambini dai grandi occhi curiosi e attenti: è San Luca, patria di Corrado Alvaro. Il montaggio alterna inquadrature di donne e uomini emaciati che condividono la miserie delle loro insalubri abitazioni con gli animali che allevano e bimbi nudi che giocano tra le macerie, immediatamente seguite da una cartina in cui le città dell’Italia meridionale e insulare diventano grossi punti luminosi, pulsanti e dinamici, e da riprese di uomini che incassano somme di denaro, mentre il sonoro fa riferimento ai sovvenzionamenti della Cassa per il Mezzogiorno, illustrando le finalità del piano concepito dal ministro Campilli[24] per finanziare opere atte a promuovere lo sviluppo industriale, attuare la riforma agraria e fondiaria e stimolare le capacità produttive della popolazione «colpevole di scarso spirito imprenditivo e associativo» per le ragioni sin qui esposte. E questo ultimo punto è di particolare interesse poiché scopo dell’inchiesta è mostrare come i Meridionali abbiano risposto alle sollecitazioni provenienti dal Governo, dai partiti, dai giornali e dalle imprese industriali: l’intervista al direttore piemontese della Mobiloil di Napoli, alternata alle riprese dall’alto dello stabilimento e all’immancabile Vesuvio sullo sfondo[25], non è che il primo esempio di una lunga serie di espedienti volti a dimostrare le sorprendenti capacità lavorative degli operai meridionali, che parlano lo stesso linguaggio specializzato – sia pur con accento diverso – e svolgono le stesse mansioni dei colleghi di Lambrate, Sanpierdarena o delle raffinerie di Piacenza a cui la voce di Arnoldo Foà si rivolge direttamente. Proprio il lavoro operaio è in grado di traghettare la società verso la modernità: man mano che, però, ci si allontana dalle ciminiere fumanti e dai nuovi quartieri delle grandi città, il male profondo del Sud continua a lanciare il suo «lungo grido di dolore» per l’arretratezza delle zone interne. Programmaticamente Viaggio nel Sud si soffermerà anche in queste aree ancora depresse, in cui la rinascita tarda ad affermarsi e a cui deve andare tutto l’affetto e lo «sforzo più ampio e volenteroso di comprensione dei problemi, della mentalità, del cuore dei nostri fratelli», annuncia lo speaker a corollario di una conversazione con un contadino siciliano che non potrà far studiare i suoi quattro figli. Se esistono ancora situazioni tanto inconcepibili tutti gli italiani devono sentirsi mortificati e colpevoli. Il Meridionale dovrà, invece, dal canto suo, trarre il massimo da quello che ha avuto, poco o tanto che sia; «deve cominciare a mettersi in luce lo sforzo del singolo, la piccola iniziativa privata», specie laddove la trasformazione avviata dallo Stato, e che nel giro di pochi anni cambierà definitivamente il volto di queste terre rendendole in tutto e per tutto simili alle regioni più opulente, riveste un carattere prevalentemente agricolo.
Il percorso ideale tra luci e ombre delineato in questa prima trasmissione si dipanerà efficacemente nelle otto puntate successive, che da una parte esalteranno i progressi compiuti soprattutto nei maggiori centri, dall’altro descriveranno quelle sacche di povertà ancora così diffuse cercando, però, di mettere in risalto i segnali di progresso culturale ed economico che pure si possono rintracciare andando oltre le apparenze innegabilmente desolanti.
Per fornire un esempio di cosa avrebbero potuto fare i latifondisti per evitare lo scorporo, dando così forma concreta all’idea originaria di Rimanelli[26], la seconda puntata, dedicata a Manfredonia, focalizza l’attenzione sull’esempio della masseria di Macchiarotonda, trasformata con il contributo statale da azienda basata su pastorizia transumante e coltivazione estensiva a moderna impresa agricola e zootecnica, in cui il lavoro – come spiega il dottor Fiorentini, agronomo e direttore del fondo seduto dietro la sua scrivania – non è più precario e stagionale ma garantito per tutto l’anno e organizzato in modo efficace ed efficiente.
Nella prima di ben tre puntate girate in Campania, Battipaglia, uscita distrutta dal secondo conflitto mondiale, è, invece, il simbolo di come a seguito delle mutate condizioni ambientali anche una comunità meridionale possa diventare attiva e operosa[27], rappresentando l’altra faccia di un Sud spesso ingiustamente accusato di inerzia e rassegnazione. Il documentario si apre, non a caso, con una panoramica dedicata alla spiaggia dove avvenne lo sbarco delle truppe americane nel ’43, filmate, nelle successive immagini di repertorio, sul sottofondo del rumore assordante delle cannonate: la presenza dei soldati, stanziatisi nella piana infestata dalle zanzare e autori di una parziale bonifica con l’uso del DDT, spinse la popolazione del piccolo borgo ferroviario a scendere dalle alture dove si era rifugiata già prima della guerra a causa delle condizioni malsane delle paludi circostanti e a dar vita a quello che nel giro di poco tempo divenne il maggior centro di borsa nera dell’Italia meridionale, dimostrando così spirito d’iniziativa. I guadagni del contrabbando sono stati utilizzati dai privati per la ricostruzione e, quindi, si sostiene, per il benessere dell’intera cittadina, divenuta prospera nel giro di dieci anni con la nascita di industrie conserviere, di zucchero e tabacco. Lo sbarco degli Alleati avrebbe, dunque, segnato una sorta di «risveglio psicologico» e una rinascita dovuta soprattutto all’ingegno, alla buona volontà e alla voglia di progredire della popolazione. L’iniziativa privata è motore anche di un processo altrettanto importante, quello legato all’istruzione di individui di tutte le età: non solo i bambini di Battipaglia che frequentano la neonata scuola ubicata in una bottega affittata dal sarto del paese al Comune o che giocano a fare le interviste come in televisione, ma anche e soprattutto quella dei contadini che a Bisaccia[28], in provincia di Avellino, frequentano il Centro di Cultura per la lotta contro l’analfabetismo fondato dal maestro Francesco Lattarulo. Persone umili, oltremodo desiderose di conoscere cose anche lontane dai loro bisogni immediati e al di fuori dell’angosciosa realtà quotidiana, ai quali gli spettatori sono addirittura invitati a destinare contributi di solidarietà. La Napoli industriale (IX puntata) con l’Istituto Sieroterapico, lo stabilimento siderurgico dell’Ilva di Bagnoli, i cantieri navali, le aziende sartoriali, l’industria petrolifera e la Società Meridionale di Elettricità; la contraddittoria Sicilia delle raffinerie di Ragusa e Augusta (V puntata), delle cave di estrazione della roccia asfaltica o dello stabilimento voluto da Angelo Moratti; il Metaponto (IV puntata) con le bonifiche, l’attuazione della riforma e le assegnazioni ai braccianti che seguono i consigli degli agronomi; la meccanizzazione e l’esperienza positiva delle cooperative agricole di Carpinone; l’arido Campidano di Cagliari e di Oristano (VI puntata) con lo sfruttamento per l’irrigazione delle acque del Tirso e la costruzione della diga del Flumendosa, che consentirà all’ingegno umano di avere ragione di una natura avversa e di fornire di acqua potabile la città di Cagliari, sono le prove evidenti dei risultati già raggiunti, del miglioramento del tenore di vita, delle linee di sviluppo future e di un progresso oramai inarrestabile. Oltre a ripercorrere le tappe salienti del viaggio compiuto, la Conclusione consegnerà agli spettatori il messaggio finale di un’inchiesta che intende contribuire alla saldatura tra il Nord all’avanguardia e il Sud, terra meravigliosa ricca di bellezze da conoscere e valorizzare: «il completo inserimento del Mezzogiorno nella vita della nazione avverrà quando le varie imprese agricole ed industriali, sorte per opera e con l’aiuto dello Stato, diventeranno autosufficienti ed autonome. […] Quando questo stadio sarà finalmente raggiunto, l’unificazione dell’Italia potrà considerarsi finalmente compiuta»[29].
La rapida carrellata appena delineata, ci consente, in conclusione, di osservare che, al di là dei limiti e dei pregi formali, degli intenti dichiarati o presunti, il viaggio-inchiesta qui esaminato, a partire dagli scritti preparatori che ne svelano la genesi, disegna un vivo affresco dell’Italia di quegli anni, mostrando – forse inconsapevolmente – gli aspetti chiaroscurali di un miracolo economico in piena realizzazione. Come sottolineò a sei anni di distanza Edoardo Bruno nel suo intervento alla I Tavola Rotonda sull’Inchiesta Filmata organizzata dal Centro Culturale Estense:
Quando nel 1958 la televisione iniziò la programmazione della serie intitolata Viaggio nel Sud di Virgilio Sabel, questo irrompere tra le pieghe – in un lavoro che si proponeva l’esaltazione delle opere e dei giorni – di una realtà italiana più dimessa, più amara, più disperata, la realtà dei contadini lucani, delle donne e degli uomini che non conoscevano l’altra parte della civiltà, costretti a umilianti lavori nelle pietraie, nelle terre aride e nere, nelle piccole fabbriche, fu un fatto estremamente positivo. Era la prima incrinatura di quel diaframma di conformismo che la Tv alimentava e alimenta con la sua produzione di routine[30].
Se è vero che non c’è spazio per gli aspetti negativi della modernità, per l’impatto per certi versi devastante su uomini e territorio, per il dazio pagato a uno sviluppo rapido e tumultuoso di un Paese che all’improvviso vede cambiare le proprie geografie, i propri valori e la propria identità, il proprio modo di vivere il presente e progettare il futuro[31], emerge, dunque, nonostante tutto, il volto autentico del Mezzogiorno, con le sue fragilità e le sue contraddizioni, l’umiltà e la semplicità della sua dolente umanità, le trasformazioni e le resistenze che i mutamenti in atto stanno generando nel contesto sociale. Basti pensare al diverso approccio generazionale al progresso tra i giovani, che ogni giorno compiono un passo ulteriore verso un benessere ignorato dai propri padri, e i più anziani, che rimpiangono tradizioni ormai svanite; o ancora all’emancipazione delle donne chiamate a portare attraverso il proprio lavoro un contributo fondamentale all’evoluzione del Sud[32], ma ancora schiacciate da inibizioni e consuetudini radicate nei secoli: impegnate a costruirsi la dote o ad aiutare le proprie famiglie non sentono, infatti, l’esigenza di un lavoro che possa assicurare loro l’indipendenza economica e si immaginano proiettate unicamente in una dimensione matrimoniale che consentirà loro di smettere di lavorare. Un documento storico – antropologico prezioso, il cui valore è comprovato anche dalla frequenza con cui la stessa Rai, anche attraverso il ruolo delle Teche[33], ne ripropone interi stralci[34], termini di riflessione e confronto tra passato e presente, tra promesse mancate e sogni realizzati.
Abstract
In the summer of 1957, RAI – Radiotelevisione italiana – the Italian national public broadcasting company – commissioned two writers, Giuseppe Berto and Giose Rimanelli (the first one from Treviso, in the North of Italy, the other born in Molise, a little southern country) to write the plot of a series of ten television episodes that would be directed by Virgilio Sabel: this was the origin of Viaggio nel Sud, a “prototype” of a newborn genre of Italian television inquiry, which was broadcast once a week from 24 April to 3 July 1958.
The documentary was produced just a year after Viaggio nella valle del Po’ by Mario Soldati and it inaugurated a television season in which the new media demonstrated to be able to read in real time the meaning and the troubles caused by the contemporary changes. As Rimanelli pointed out in the short note of the introduction program kept in his private archive, the aim of the investigation was to show viewers how and why the Southern Italy was different from others counties, trying to analyze problems, weak points and contradictions of the latest economic and social transformation.
This article means to study the topics of the documentary beginning from the preparatory writings that reveal its genesis and showing its value as an audiovisual document: it is precious not only from the historical-anthropological point of view, because of the large use of ordinary people’s interviews, but also to know and understand the reverse side of the sudden Italian economic development of that period.
Key words: documentary, RAI, Sabel, the economic miracle, the Southern question
Parole chiave: documentario, RAI, Sabel, miracolo economico, Questione Meridionale
[1] L’accordo intercorso nel luglio del 1957 tra la Direzione Generale della RAI e Rimanelli prevedeva la consegna degli argomenti della trasmissione, provvisoriamente intitolata Inchiesta del Sud, entro il 15 agosto dello stesso anno e la cessione dei relativi diritti di sfruttamento per una somma complessiva di trecentomila lire (ASC, Archivio privato Rimanelli, b. 33, f. 175). Gli argomenti, redatti in collaborazione con Berto e ovviamente soggetti a trasformazioni successive, furono elaborati dopo un iniziale e rapido sopralluogo; nelle avvertenze per il lettore Rimanelli precisa che le interviste trascritte avevano un carattere puramente indicativo e in parte erano state soltanto immaginate; nel periodo di ripresa tutto sarebbe stato approfondito, grazie a risposte molto più interessanti raccolte dalla viva voce degli intervistati durante una permanenza prevista in ogni località di una decina di giorni circa. Come auspicato, tuttavia, i copioni indicavano «a sufficienza l’inquadramento della materia» (ASC, Archivio privato Rimanelli, b. 33, f. 176).
[2] Tra gli iniziatori del documentarismo televisivo, assieme a Mario Soldati, Ugo Gregoretti e Ugo Zatterin, Sabel esordì nel cortometraggio con l’originale Una lezione di geometria (1948) in collaborazione con il poeta Sinisgalli, con cui realizzò anche Un millesimo di millimetro nel 1950; vinse il Nastro d’Argento nel 1951 con Le ricerche del metano e del petrolio; dello stesso anno anche Una lezione di acustica. Alla fine del decennio cominciò a lavorare in televisione facendosi notare, oltre che per Viaggio nel Sud, per la serie Storia della bomba atomica (6 puntate, 1962) e In Italia si chiama amore (1963) (A. Aprà, Primi approcci al documentario italiano, in AA. VV., A proposito del film documentario, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Annali I, Roma 1998, pp. 54-55). Dopo i citati film «scientifici» prodotti dalla Lux, si cimentò anche nel documentario industriale realizzando – come altri autorevoli cineasti quali Giorgio Ferroni, Michele Gadin, Nelo Risi – per Adriano Olivetti opere che «valicano lo scopo promozionale del film industriale per affermare una rinnovata consapevolezza dell’uomo» (M. Bertozzi, Storia del documentario italiano, Marsilio, Venezia 2008, pp. 122 e 139).
[3] A. Grasso, Storia della televisione italiana, Garzanti, Milano 2004, p. 65.
[4] P. Di Marco, Il viaggio televisivo di Mario Soldati, in A. Gimbo, T. Paolicelli e A. Ricci (a cura di), Viaggi, itinerari, flussi umani: Il Mondo attraverso narrazioni, rappresentazioni e popoli, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2014, p. 143.
[5] G. Simonelli, Ci salvi chi può: cronache della TV italiana dal 2000 a oggi, Effatà, Torino 2009, p. 82.
[6] M. Bertozzi, Storia del documentario italiano, cit., p. 182.
[7] Ivi, p. 131.
[8] M. A. Frabotta, La presenza del Sud nella cinematografia governativa degli anni Cinquanta, in P. Iaccio (a cura di ), Napoli e il cinema (1896 – 2000), «Nord e Sud», anno XLVII, luglio – agosto 2000, pp. 195 – 216; per una visione più generale del tema si veda Id., Il governo filma l’Italia, Bulzoni Editore, Roma 2002.
[9] ASC, Archivio privato Rimanelli, b. 33, f. 176.
[10] Ibidem.
[11] A.Z., «Viaggio nel Sud», in Radiocorriere, anno XXXV, n. 16 (1958), p. 5.
[12] G. Bernagozzi, Il cinema corto. Il documentario nella vita italiana dagli anni Quaranta agli anni Ottanta, La casa Usher, Firenze – Milano 1980, pp. 107-115.
[13] http://www.teche.rai.it/2015/01/conoscerci-1957/.
[14] ASC, Archivio privato Rimanelli, b. 33, f. 176.
[15] Zormil, «Viaggio nel Sud», in Radiocorriere, anno XXXV, n. 17 (1958), p. 25.
[16] G. Cesareo, La variabile tv, in AA. VV., A proposito del film documentario, cit. p. 128.
[17]Sulla rappresentazione della Lucania: G. Avagliano, La Lucania nel documentario cinematografico. Cultura popolare e trasformazioni sociali dal secondo dopoguerra al miracolo economico, tesi dottorale, Università degli Studi di Salerno; per il documentario specifico e le reazioni alla riforma agraria divise tra lo scetticismo degli anziani e l’entusiasmo dei più giovani, pp. 222-223.
[18] «L’Italia è una terra lunga. C’era un mappamondo in casa mia, da quando son nato. Mio padre tornava da fuori, […] si toglieva la giacca e le scarpe, si metteva a girare con un dito il mappamondo. “Portami da bere. Ho sete, sono sudato”, ordinava. L’acqua era da qualche parte, in una buca sul muro, dentro l’anfora di rame. Era sempre poca, l’acqua. Mia madre andava a prenderla due volte il giorno al pozzo artesiano, e faceva la coda per riempire, stava muta per due ore tre ore mezza giornata per riempire, e l’acqua era sempre poca, bevevamo acqua soltanto, perché quando ce n’è poca si ha sempre una sete più lunga […]». Questo l’incipit della prefazione, intitolata Dove manca l’acqua, al libro inedito Una tragedia meridionale che avrebbe dovuto raccogliere, nelle intenzioni dello scrittore molisano, gli articoli da lui dedicati ai viaggi compiuti nell’Italia del Sud anche per la realizzazione degli scritti preparatori del documentario RAI e pubblicata, come ricorda lui stesso, nel maggio 1959 sul «Giornale d’Italia» e, nel mese successivo, sul «Corriere mercantile»( ASC , Archivio privato Rimanelli, b. 33, f. 186).
[19] La descrizione riecheggia, non a caso, i ricordi che Rimanelli affida ad una lettera indirizzata al padre e riportata, insieme al canovaccio della puntata introduttiva di Viaggio nel Sud, nel testo della citata prefazione all’inedito: «[…] Ora ho fatto un viaggio nell’Italia che incomincia da Napoli, e ho percorso 3.000 chilometri, ho consumato 1.500 litri di benzina e un treno completo di gomme. […] Se sapessi quanta sete ho avuto! Non c’è acqua. In un mucchio di paesi non c’è ancora l’acqua, ma ho visto che stanno facendo delle dighe, e portano tubi, e per portare i tubi stanno costruendo anche le strade. […] Sai, hanno preso l’acqua del Biferno, proprio sotto casa nostra. Ti ricordi quando andavamo al Biferno a cogliere i fichi e tu dicevi: guarda quant’acqua che se ne va al mare? […]» (ASC , Archivio privato Rimanelli, b. 33, f. 177).
[20] Per una visione d’insieme sul tema, trattato nelle più illustri storie del Mezzogiorno (da Croce a Galasso), si veda C. Perrotta, L’Unità d’Italia e il mito del Sud prospero, in Id., C. Sunna (a cura di), L’arretratezza del Mezzogiorno. Le idee, l’economia, la storia, Bruno Mondadori editore, Milano – Torino 2012, pp. 1-21.
[21] Il testo della digressione storica coincide, nel trattamento di Rimanelli, con la dissertazione del professor Giuseppe Isnardi, piemontese vissuto per oltre quarant’anni nel Meridione e studioso delle problematiche del Sud a cui viene affidato il compito di spiegare la questione meridionale (ASC , Archivio privato Rimanelli, b. 33, f. 176).
[22] L’estensione della tariffa doganale piemontese nell’ottobre del 1860 all’ex Regno di Napoli causò effettivamente l’abbassamento di circa l’80% dei dazi protettivi esistenti con effetti traumatici sulla struttura industriale meridionale (S. Cutrone, L’unificazione nazionale distorta, in C. Perrotta, C. Sunna (a cura di), L’arretratezza del Mezzogiorno, cit. p. 101-107).
[23] Al tema si fa più volte riferimento nelle trasmissioni successive: l’impulso ad abbandonare tutto per fuggire la miseria è giustificato dalla desolazione e dall’immobilismo, ma il segnale che si vuole trasmettere è che questa non sia più l’unica via praticabile. In un momento storico in cui si sta compiendo uno sforzo enorme di trasformazione, val la pena di restare per sfruttare al meglio le risorse presenti sul territorio d’origine, dove, a differenza di quanto avveniva in precedenza, si decide di far ritorno dopo un periodo di sacrificio, che consente, comunque, di proiettarsi verso un futuro migliore. La testimonianza in tal senso di un anonimo emigrante australiano, rientrato a Carpinone (VIII puntata), profila, ad esempio, il prevalente carattere di temporaneità, secondo un modello rotatorio, che differenzierà i flussi degli anni Sessanta rispetto alle modalità della “grande migrazione”. Anche nella sensibilità delle classi dirigenti, d’altronde, si comincerà a delineare, di lì a poco, un nuovo orientamento verso l’espatrio, a lungo considerato male necessario ma vitale per la ripresa della vita economica del Paese: Salvetti P., La politica migratoria dello Stato italiano dall’Unità agli anni Settanta del XX secolo, in Casmirri S., (a cura di), L’emigrazione italiana in 150 anni di storia unitaria, Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale, Cassino 2013, pp. 20-27.
[24] La centralità del ruolo della Cassa per il Mezzogiorno è ribadita dalla scelta strategica di utilizzare queste stesse immagini per la sigla di chiusura di ogni puntata sulle note de La canzone del faro o Per sole cento lire – colonna sonora anche della sigla iniziale, cantata da Elio Mauro e scritta da Teo Usuelli e, pare, dallo stesso Sabel (F. Vallone, «Quel faro di Capo Vaticano», in Calabriaora, 10 marzo 2010, p. 39).
[25] P. Iaccio, Il documentario tra mito stereotipi e realtà, in Id. (a cura di), L’alba del cinema in Campania, Liguori Editore, Napoli 2010, pp. 3-98.
[26] Vale a dire « [….] rendere produttivo il latifondo e dare lavoro continuativo ai braccianti, trasformandoli in salariati regolari»(ASC, Archivio privato Rimanelli, b. 33, f. 183).
[27] ASC, Archivio privato Rimanelli, b. 33, f. 176.
[28] La settima trasmissione dell’inchiesta dedicata all’isolato paesino di ottomila abitanti situato sui monti che dall’Irpinia degradano verso il Tavoliere in una delle zone più depresse d’Italia, amplificando la consapevolezza della miseria e dell’arretratezza di quell’Alta Irpinia percorsa nel celebre viaggio elettorale da Francesco De Sanctis un secolo prima, suscitò un vivace dibattito in ambito locale e destò forte impressione nell’opinione pubblica nazionale, soprattutto per la scena della vecchietta vestita di nero e raggrinzita dagli anni e dagli stenti che candidamente confessava, in un dialetto strettissimo, il suo desiderio di poter mangiare «nu poco re carne» (Speranza P., «SUD: Quando la tv fece sosta a Bisaccia»,in L’Irpinia, 7 giugno 2003, p. 5).
[29] ASC, Archivio privato Rimanelli, b. 33, f. 183.
[30] P. Di Marco, Il viaggio televisivo di Mario Soldati, cit., p. 143.
[31] G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Donzelli editore, Roma 2005², p. VII.
[32] Lo sguardo sulle donne, tra i più ideologici che la TV mette in campo, rappresenta un utile specchio per cogliere le trasformazioni culturali del piccolo schermo legate alla società italiana del boom economico: V. Roghi, Da signore a donne: la rappresentazione dell’universo femminile nella Rai del boom 1957 – 1961, in P. Cavallo e P. Iaccio, Penso che un sogno così non ritorni mai più. L’Italia del miracolo tra storia, cinema e televisione, Liguori Editore, Napoli 2016, pp. 201-216.
[33] B. Scaramucci, Che cosa sono le Teche della Rai, in A. Grasso (a cura di) Fare storia con la televisione. L’immagine come fonte, evento, memoria, Vita e Pensiero, Milano 2006, pp. 123-127.
[34] Ad esempio all’interno di programmi quali La storia siamo noi, Telepatia o Fuoriorario.Cose (mai) viste.