L’Europa “a scatola chiusa”. L’Italia dall’Atto unico a Maastricht

 

Negli anni compresi tra l’entrata in vigore dell’Atto unico europeo (1987) e l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht (1993), l’unificazione sovranazionale conosce un cambio di paradigma, che la letteratura – soprattutto politologica, ma non solo – ha rappresentato con il passaggio allo stadio della europeizzazione[1]. Sebbene il suo significato non sia affatto univoco, e benché raramente la sua elaborazione sia stata affiancata dall’analisi dello sviluppo della realtà fattuale, il concetto di europeizzazione può essere utile anche allo storico giacché lo aiuta a segnalare alcune cruciali conseguenze della istituzione del mercato interno e poi della nascita dell’Unione europea. Mi riferisco al consolidamento delle istituzioni, dei processi decisionali, delle politiche sovranazionali e al corrispettivo, assai considerevole, incremento della capacità della Comunità/Unione europea di incidere sui sistemi istituzionali, politici ed economici dei suoi Stati membri. Che il processo in atto si configurasse come una grande trasformazione, peraltro amplificata da altri eventi epocali, su tutti, va da sé, la fine della guerra fredda – che peraltro si intersecò inevitabilmente con gli sviluppi dell’integrazione europea – apparve, o avrebbe dovuto apparire, chiaro anche ai contemporanei[2], per quanto possa essere sempre complesso interpretare gli avvenimenti quando questi sono in corso.

Le due forme verbali che ho usato per indicare la consapevolezza, oppure ‒ attraverso il condizionale controfattuale ‒ la mancata o insufficiente consapevolezza, tanto del profondo cambiamento vissuto dal processo di unificazione sovranazionale quanto dell’impatto che questo era destinato ad avere all’interno degli Stati nazionali, introducono alla questione che vorrei affrontare in questo intervento, vale a dire la capacità di tematizzare adeguatamente la partecipazione del paese alla nuova fase dell’integrazione europea, così da elevarla – attraverso un appropriato esame delle conseguenze di quella scelta – alla dignità, che certamente le spettava, di motivo determinante non solo della politica internazionale, ma anche interna. La risposta a tale questione, qui posta evidentemente in modo generale, può essere fornita seguendo una molteplicità di linee di ricerca e adottando una pluralità di prospettive analitiche; ma volendo rimanere fedele al tema della “consapevolezza”, una delle strade che si possono forse più utilmente percorrere è quella che conduce alla verifica dell’attitudine della classe dirigente, e in particolare della classe politica, a motivare la propria scelta a favore dell’Atto unico e di Maastricht con criteri di giudizio aggiornati e coerenti con il passaggio all’europeizzazione, e che fossero pertanto adatti a “riorientare” il tradizionale europeismo italiano ‒ anche attraverso l’uso di tutte le risorse (in primo luogo quelle cognitive, ossia quelle rappresentate da quanti disponevano della conoscenza, magari conseguita attraverso l’esperienza, dell’Eurosfera, delle sue regole e prassi, dei suoi meccanismi, e così via) utili a formulare una valutazione quanto più avveduta possibile. Ebbene, si può anticipare che tanto per l’Atto unico quanto per Maastricht è invece necessario parlare di “Europa a scatola chiusa”, ovvero dell’adesione a un nuovo stadio dell’integrazione europea attraverso un processo di valutazione e una partecipazione critica sostanzialmente insufficienti. Questa sorta di “europeismo per inerzia” ha espresso in primo luogo una delle strutture cognitive e operative della strategia politica comunitaria – e più in generale dell’intera politica estera – dell’Italia: il valore della “presenza”, vale a dire la necessità primaria di inserirsi nelle forme organizzative sovranazionali (e internazionali)[3], giacché la partecipazione ad esse avrebbe fornito e fornirebbe di per sé le risorse, politiche ma anche di altro genere (ad esempio quelle connesse al “rango internazionale”) considerate indispensabili per colmare il divario tra l’Italia e gli altri paesi membri. Il punto è che questa priorità, in più di una circostanza, da un lato ha fatto passare in secondo piano l’esame ponderato delle molteplici conseguenze derivanti dall’adesione alle diverse fasi dell’integrazione europea (oltretutto indebolendo, almeno in certi casi, la nostra capacità negoziale)[4]; dall’altro lato, il suo conseguimento ha sovente esaurito l’impegno delle nostre autorità pubbliche, come mostra la loro scarsa attenzione nel predisporre l’adattamento dei nostri ordinamenti interni alle regole imposte dalla “presenza”[5]. Questo limite deve essere tenuto ben presente, sia perché poco conciliabile con una adeguata preparazione all’impatto interno (prima ricordato) della europeizzazione, e poi per collocare nella sua giusta dimensione il contributo dato dall’Italia alla costruzione di questa fase all’integrazione europea. Si può discutere se l’impegno profuso dal presidente del Consiglio Bettino Craxi e dal ministro degli Esteri Giulio Andreotti al Consiglio europeo di Milano del giugno del 1985 per avviare il processo di riforma dei trattati (superando l’ostilità di Gran Bretagna, Danimarca e Grecia) sia stato sopravvalutato da una parte della storiografia[6]; è invece un fatto che nello stesso periodo di tempo in cui dava quella dimostrazione di “eurofilia”, il nostro paese subiva numerose procedure di infrazione per mancato recepimento della normativa comunitaria e si collocava nelle posizioni di retroguardia per quanto concerneva l’uso dei diversi fondi messi a disposizione da Bruxelles (da quello sociale a quello per lo sviluppo regionale fino ai finanziamenti previsti nell’ambito della Politica agricola comune)[7]. Per passare alla fase ad quem di questo intervento, è sicuramente corretto presentare alcuni dei nostri politici e, con ancor maggior giustificazione, alcuni dei nostri tecnocrati quali co-architetti dell’Unione economica e monetaria[8]; ma sembra difficile contestare la formula riassuntiva con la quale, nel loro ponderoso volume The Road to Maastricht, Kenneth Dyson e Kevin Featherstone hanno riassunto gli obiettivi del governo italiano nella fase preparatoria a Maastricht: “Negoziare la disciplina esterna, evitare l’esclusione”. La priorità, appunto, fu l’inclusione[9].

È ad ogni modo necessario precisare che il giudizio negativo sulla scarsa tematizzazione della nostra adesione all’Atto unico e a Maastricht non comporta affatto una critica alla scelta in sé. Del resto è opinabile persino che l’opzione alternativa fosse reale, ovvero se restare “fuori dall’Europa”, come si usava ‒ e si usa tutt’ora ‒ dire, costituisse un’ipotesi realmente praticabile: “The support of the political parties and the public for full Italian participation in the EC also shaped the negotiating context. It made entry into EMU imperative; anything else would be punished domestically as failure”[10].

Va da sé che quell’“imperativo”, condiviso e promosso anche da attori diversi da quelli governativi, condizionava pesantemente la nostra attività negoziale:

[…] it provided a legitimacy for accepting a tough EMU deal. Indeed, the domestic scope for ratification seemed to be widely set. It was unclear what likely EMU package would not be ratifiable. Italian negotiators thus had much leeway, but by the same logic they were denied the bargaining power of insisting on a particular deal in case anything else would not be accepted at home[11].

Le citazioni ci ricordano la connessione tra il doppio circuito in cui si impose l’“imperativo”: quello governativo, all’interno del quale la “logica stessa” dell’obbligo (per riprendere l’espressione dei due autori) circoscrisse il potere negoziale dei nostri rappresentanti; e il circuito parlamentare, responsabile della ratifica, dove il dibattito dovette modellarsi sull’assenza di una reale alternativa all’approvazione del trattato e sulla non emendabilità di quest’ultimo. La trasmissione nei due sensi (dal parlamento al governo e viceversa) dell’“imperativo” è una costante, non l’unica come vedremo, del nostro modo di concepire la partecipazione alla Comunità, e certamente rappresenta una causa oltreché un effetto dell’“Europa a scatola chiusa”. Il 10 settembre del 1992, così si espresse Piero Barucci, ministro del Tesoro, durante un’audizione in seno alla Commissione speciale per le politiche comunitarie:

Mi è stato posto con fermezza un problema molto sentito a livello europeo, ossia quello dell’autonomia della politica monetaria. L’onorevole Giovanardi mi ha chiesto se tale autonomia deve essere o meno sottoposta al giudizio politico. Rispondo dicendo che è politica economica in primo luogo quella che permette la stabilità del potere di acquisto della moneta: questo è il punto su cui non si può discutere. Pertanto una seria politica economica deve in primo luogo prendere atto che questo dato non è discutibile[12].

Una conclusione praticamente sovrapponibile a quella pronunciata quaranta anni prima da un deputato democristiano a sostegno della ratifica del Trattato di Parigi istitutivo della CECA: “La discussione c’è stata; lunga, attenta, laboriosa, durante le trattative. In quella sede era doveroso discutere a fondo, sia per superare le varie difficoltà, sia per difendere gli interessi dell’Italia. Ma ora, a che discutere a lungo? Il Trattato non può essere emendato: prendere o lasciare bisogna: ratificare o non ratificare”[13].

Nondimeno, proprio l’esiguità del perimetro di azione ‒ perimetro che è stato (ed è) altresì un vincolo (la cui origine e il cui sviluppo sono capitoli non secondari del nostro europeismo) –, in quanto riduceva sensibilmente i margini decisionali, avrebbe dovuto suscitare una maggiore responsabilità nella lettura e nella comprensione del nuovo significato che andava assumendo l’integrazione europea e, in ragione di ciò, favorire una diversa focalizzazione della discussione, con un passaggio più deciso dalla preoccupazione di garantire la “membership” all’analisi più puntuale di ciò che quest’ultima richiedeva e degli effetti che era destinata a provocare nelle varie pieghe del tessuto nazionale.

Se questo passaggio non avvenne (o si verificò solo molto parzialmente) fu appunto perché prevalse un europeismo inerziale, la cui espressione può essere individuata nella continuità, rispetto al passato, della forma – per così dire – assunta dal dibattito parlamentare e nell’uso di strumenti critici non aggiornati rispetto alle nuove sfide dell’europeizzazione.

Riguardo alla forma: i dibattiti alla Camera e al Senato sull’Atto unico e sul Trattato di Maastricht furono scarsamente partecipati (come si deduce dagli interventi dei deputati e dei senatori presenti)[14], poco attenti (come mostrano i frequenti richiami della presidenza dei due rami del Parlamento ai deputati e ai senatori)[15], poco informati (solo un nucleo assai ristretto di deputati e di senatori mostrava familiarità con il peraltro complesso sistema comunitario)[16] e connotati dall’“urgenza”, e pertanto alquanto compressi nel tempo, con inevitabili effetti sulla qualità e sulla profondità dell’analisi. L’urgenza, in particolare, ha caratterizzato quasi tutti i lavori parlamentari sulle (più o meno) grandi svolte dell’integrazione europea e segna una ulteriore linea di continuità di per sé significativa riguardo alla mancata percezione del sovrappiù di attenzione che avrebbe dovuto accompagnare le rilevanti novità introdotte dall’Atto unico e da Maastricht. Variamente giustificata, la strozzatura del dibattito in realtà è sempre stata coerente con tre obiettivi: evitare battute d’arresto del processo di integrazione, considerato una priorità della nostra politica estera; dare mostra ai partners comunitari di essere “europei zelanti” (questo è molto chiaro ai tempi di Maastricht); togliere spazio al Parlamento italiano sui temi comunitari (basti pensare all’ampio uso di leggi delega per l’applicazione dei trattati, a partire da quello della Comunità europea del carbone e dell’acciaio).

Veniamo poi ai contenuti: nella discussione sulla ratifica del Trattato di Maastricht svoltasi alla Camera alla fine dell’ottobre del 1992, il ministro degli Esteri Emilio Colombo poté riassumere la batteria degli argomenti avanzati dai parlamentari critici verso il trattato (ma non necessariamente contrari alla sua ratifica) con una coppia di temi[17]. Il primo era la conformità del Trattato alla Costituzione. Anche in questo caso, non esattamente una novità: lo stesso genere di obiezione è rinvenibile negli atti parlamentari ai tempi della ratifica della CECA, poi del Mercato comune e di Euratom e persino della riforma parziale dei trattati di Roma approvata nell’aprile del 1970 per consentire l’estensione dei poteri del Parlamento europeo sul bilancio della Comunità. Il secondo era la tradizionale dichiarazione di insoddisfazione per il mancato approdo a forme più avanzate di unificazione, ovvero a una federazione europea (o a qualcosa che almeno le assomigliasse). Che un trattato immodificabile dal parlamento potesse essere esaminato da deputati e senatori prevalentemente attraverso il confronto con un modello ideale di Europa dice abbastanza riguardo alla tendenza a privilegiare la testimonianza (o la retorica, come risultò chiaro soprattutto nella discussione che accompagnò l’Atto unico, che fu intrisa di motivi ipocritamente “spinelliani”) rispetto all’analisi accurata dei suoi contenuti tecnici e all’indicazione delle misure necessarie per prepararsi alla sua impegnativa applicazione. D’altro canto, l’Indagine conoscitiva sui problemi connessi all’attuazione del Trattato di Maastricht promossa dalla Commissione speciale per le politiche comunitarie e dalla Commissione affari esteri fu giustificata con la constatazione che alla vigilia della ratifica parlamentare non risultava esserci stata in ambito governativo alcuna verifica puntuale dell’impatto interno atteso dal trattato; né si prevedeva che tale sforzo potesse essere compiuto dal parlamento “visti i tempi accelerati con cui si intendeva pervenire alla sua approvazione definitiva”[18].

L’Indagine conoscitiva dette indicazioni abbastanza parziali, in ragione del numero limitato di soggetti auditi, ma nondimeno è per noi utile perché mostra – tra l’altro – che l’europeismo concepito quale “imperativo” non era prerogativa esclusiva del governo e del parlamento. A quella formula parevano ispirarsi, ad esempio, i tre principali sindacati. In effetti, i loro rappresentanti avanzarono critiche assai severe sul Trattato, rilevando come Maastricht potesse creare per l’Italia ulteriori vincoli alle possibilità di sviluppo, che sarebbero state subordinate a scelte effettuate altrove; mettendo in guardia contro i rischi di soffocamento dello Stato sociale; denunciando la trasformazione della stabilità dei prezzi da mezzo a obiettivo, a danno di variabili quali l’occupazione o il sostegno alle aree territoriali deboli. Nonostante tutto ciò, essi trassero la conclusione – che lasciò meravigliato qualche membro della Commissione – che occorresse comunque la ratifica urgente del trattato stesso[19], fatta salva l’esigenza di una sua successiva riforma da apportare attraverso una conferenza intergovernativa[20].

La tendenza ad adagiarsi sull’europeismo inerziale fu una delle ragioni che impedirono alla classe politica (legittimamente distratta, va ricordato, anche da altri eventi di rilievo, nazionali ed internazionali, che avvenivano contemporaneamente) di comprendere il cambio di paradigma vissuto dall’integrazione europea e la corrispettiva necessità di modificare il contenuto dell’azione politica. Questa peculiare declinazione dell’europeismo contribuì ad aprire una nuova dialettica tra la tecnocrazia e la politica. In questo senso è indicativo il confronto tra due posizioni espresse, nello stesso periodo di tempo, da due autorevoli esponenti rispettivamente del mondo politico e di quello tecnocratico. Giulio Andreotti, nel settembre del 1990 (quando già si profilava il vincolo europeo), affermava di fronte alla Direzione nazionale della Democrazia cristiana: “Dobbiamo scrollarci di dosso la vecchia abitudine di credere che con il debito pubblico si risolvono i problemi”[21]. Era un monito che avrebbe potuto essere rivolto a un intero ceto politico, il cui comportamento – come ha scritto Antonio Varsori – “soprattutto in sede parlamentare e nelle pratiche di ogni giorno smentiva la possibilità di trarre le ovvie conclusioni da quanto pattuito con il nuovo accordo europeo”[22]. Il mese seguente, dalle pagine del “Corriere della sera”, Mario Monti osservava che i nuovi e più rigidi obblighi europei avrebbero contribuito a rendere maggiormente stringenti i vincoli sull’azione della politica interna: il “lungimirante europeismo” di uomini di governo, “correttamente fondat[o] sul primato della Politica”, indirizzava il paese verso un corso “probabilmente non conciliabile con una gestione dell’economia e delle istituzioni basata sul primato della politica, nell’accezione minuscola e quotidiana del termine”[23]. La tecnocrazia colse precocemente questa contraddizione, anzi in qualche modo la preparò, facendo leva sulla “competenza tecnica” utilizzata da Carli (e dalla Banca d’Italia) durante il negoziato sul Trattato di Maastricht per predisporre il “vincolo esterno” indispensabile per obbligare le autorità italiane ad una gestione della finanza pubblica che fosse consona a una società industriale inserita nel mercato internazionale[24].

Atto unico e trattato di Maastricht, tuttavia, comprovano la necessità di distinguere i riflessi prodotti dall’integrazione sovranazionale sul piano interno dall’uso consapevole del vincolo europeo da parte delle classi dirigenti del nostro paese[25]. Ci può infatti chiedere se il vincolo europeo (ovvero il prodotto di quell’“europeismo lungimirante” di cui parlava Mario Monti, che favorì l’ingresso della lira nella banda stretta del sistema monetario europeo, la liberalizzazione del movimento dei capitali, la firma del Trattato di Maastricht) fosse compatibile con l’europeismo inerziale con cui quel vincolo venne accolto dalla nostra classe politica, ovvero con un atteggiamento affatto incline alla predisposizione degli “ordinamenti” ‒ per usare un’espressione di Guido Carli[26] ‒ necessari a una salda e coerente partecipazione a una fase qualitativamente diversa del processo di integrazione. Ben presto gli stessi tecnocrati (insieme ai tecnici)[27] si resero conto dell’aporia. A partire dalla fine del 1991, in vista della firma del Trattato fissata per il febbraio dell’anno successivo, tecnocrati e tecnici iniziarono a esprimere un allarme crescente (con toni e argomenti inusitatamente aspri, almeno in alcuni casi)[28] verso la classe politica, la quale pareva aver immediatamente “tradito i patti di Maastricht”[29]. A questa sorta di intemerata parteciparono Carlo Azeglio Ciampi, Guido Carli, Paolo Sylos Labini, Roberto Mazzotta, Renato Ruggiero, Andrea Monorchio e altri ancora[30]. Alcuni di loro misero in luce il paradosso rappresentato dall’assenza di un reale dibattito su Maastricht nella campagna elettorale precedente alle elezioni nazionali del 5 e 6 aprile del 1992[31]:

Abbiamo il diritto di sapere, come cittadini italiani e come elettori, in quale modo, in quali tempi e con quali mezzi ognuna delle grandi forze politiche intenda operare per soddisfare gli impegni di Maastricht. Non meno importante è sapere come i partiti politici intendono ripartire il costo dell’operazione […]. Soltanto in Italia, tra le grandi democrazie industriali dell’Europa e fuori dall’Europa, è consentito ai grandi leaders politici in campagna elettorale di non spiegare come raggiungeranno gli obiettivi che essi proclamano.

La “scatola chiusa”, insomma, pareva dover valere anche per gli elettori[32]. Dalla denuncia dell’inanità, o del “tradimento”, della “politica” (con la “p” minuscola), al tentativo di supplire alle sue insufficienze il passo fu breve. Se ne fecero carico Mario Monti e Luigi Spaventa, i quali il 27 febbraio del 1992 pubblicarono su “la Repubblica” e sul “Corriere della sera”[33] un vero e proprio programma politico (sebbene gli autori negassero che di questo si trattasse) espressamente volto a recepire il modello di costituzione economica stabilito nel Trattato di Maastricht. Come si rinviene frequentemente nelle argomentazioni di Monti (e di altri esponenti della tecnocrazia) la sfiducia verso la politica prendeva forma nell’invito a estenderne l’orizzonte temporale[34], ovvero nella sollecitazione a proiettare gli obiettivi dell’agire politico sulle generazioni future, acquisendo la consapevolezza che “la scelta è fra l’onere che siamo disposti a sopportare noi, oggi, e quello che altrimenti dovranno presto sopportare i nostri figli”[35], e nella corrispettiva, spesso esplicita, sollecitazione a temperare il contrasto dialettico e il rapporto maggioranza-opposizione in vista di un obiettivo superiore, considerato – appunto – categorico. Tanto per il contenuto quanto per il tono (in alcuni passaggi persino ultimativo) quell’intervento rappresenta bene l’apertura di un nuovo capitolo nella dialettica tra i tecnici e i tecnocrati, da un lato, e la politica, dall’altro, capitolo che si svilupperà anche con la partecipazione dei primi al governo del paese, e le cui pagine iniziali si trovano anche (sebbene non esclusivamente; è inutile qui ricordare il crollo del sistema politico-partitico della “Prima repubblica”) in un processo decisionale superficiale – l’europeismo inerziale – al quale ho fatto riferimento, che a mio avviso contribuisce altresì a spiegare sia la fase ascendente che quella discendente del rapporto tra l’Italia e l’Unione nella attuale fase della “europeizzazione”.

 

 

 

[1] Si veda, per tutti, L’europeizzazione dell’Italia: l’impatto dell’Unione Europea sulle istituzioni e le politiche italiane, a cura di S. Fabbrini, Laterza, Roma-Bari 2003.

[2] Si veda la lucida analisi formulata da Paolo Barile poco prima che il Parlamento italiano ratificasse il trattato di Maastricht: La Costituzione dopo Maastricht, in “la Repubblica”, 13 settembre 1992.

[3] Si veda B. Bagnato, Prove di Ostpolitik: politica ed economia nella strategia italiana verso l’Unione Sovietica 1958-1963, Olschki, Firenze 2003, pp. 452-453.

[4] In alcuni casi, appunto, e quindi non sempre: cfr. D. Pasquinucci, Gli stereotipi e la storia. L’Italia nelle Comunità europee, in Spagna e Italia nel processo d’integrazione europea (1950-1992), a cura di M.E. Cavallaro e G. Levi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013.

[5] Cfr. D. Pasquinucci, Le radici storiche dell’euroscetticismo italiano, in Contro l’Europa? I diversi scetticismi verso l’integrazione europea, a cura di D. Pasquinucci e L. Verzichelli, Il Mulino, Bologna 2016.

[6] Cfr. P. Craveri, L’arte del non governo. L’inesorabile declino della Repubblica italiana, Marsilio, Venezia, 2016, p. 411, che parla di “successo italiano e personale di Craxi” e A. Varsori, La Cenerentola d’Europa? L’Italia e l’integrazione europea dal 1947 a oggi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, p. 352, secondo cui l’azione di Craxi e Andreotti riguardava “una questione procedurale, per quanto dal forte contenuto politico” le cui conseguenze, concretizzatesi con l’Atto unico, non vennero interamente comprese dalla classe dirigente italiana.

[7] A. Varsori, La Cenerentola d’Europa?, cit., p. 355; L. Mechi, Abilità diplomatica, insuccessi economici, progressi amministrativi. Appunti per una storia dell’Italia e I fondi strutturali, in L’Italia nella costruzione europea. Un bilancio storico (1957-2007), a cura di P. Craveri e A. Varsori, FrancoAngeli, Milano 2009; M. Neri Gualdesi, L’Italia e la CE. La partecipazione italiana alla politica di integrazione europea 1980-1991, ETS, Pisa, 1992, pp. 93-123. Si vedano anche i dati riportati in P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente. famiglia, società civile, Stato (1980-1996), Einaudi, Torino 1998, pp. 455-456; Ginsborg sottolinea le responsabilità della pubblica amministrazione nonché le forti resistenze politiche all’uso dei fondi comunitari.

[8] Cfr. ad esempio U. Gentiloni Silveri, Contro scettici e disfattisti: gli anni di Ciampi 1992-2006, Laterza, Roma-Bari 2013.

[9] K. Dyson, K. Featherstone, The Road to Maastricht. Negotiating Economic and Monetary Union, Oxford University Press, Oxford 1999, p. 509.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem.

[12] Atti parlamentari, Camera dei Deputati, XI legislatura, Indagini conoscitive e documentazioni legislative, Commissione speciale per le politiche comunitarie, Indagine conoscitiva sui problemi connessi all’attuazione del Trattato di Maastricht, Servizio commissioni parlamentari, Roma, 1994, p. 17.

[13] Si tratta di Vinicio Ziino, intervenuto al Senato l’11 marzo del 1952.

[14] Così Guido Carli in un’intervista al GR1 riportata su “La Stampa”, 3 marzo 1992: “Quando ho riferito in commissione sul Trattato di Maastricht alla riunione hanno partecipato solo il presidente e un membro della commissione”.

[15] A mero titolo di esempio: secondo la cronaca de “La Stampa”, all’avvio del dibattito parlamentare sulla ratifica del Trattato di Maastricht non erano presenti “più di venti deputati. I banchi si sono riempiti al momento delle votazioni. Ma anche quando l’aula era piena i parlamentari erano distratti. E il brusio era a tratti così forte che il Ministro degli Esteri si è lamentato. Il Presidente della Camera, Giorgio Napolitano, è intervenuto più volte per richiamare i deputati. Si è continuato di questo passo finché Pannella ha chiesto la parola per annunciare il tentativo di perquisizione dell’Ufficio del ministro De Lorenzo. ‘Esprimo il mio profondo turbamento – ha detto – per la cascata di forzature da parte della magistratura, che sono uguali nella loro gravità al delitto di omissione compiuto in tutti questi anni dalla classe politica’. I deputati hanno applaudito l’intervento di Pannella in segno di solidarietà verso de Lorenzo. E da quel momento l’interesse per il Trattato, già scarso, è svanito”: Maastricht. L’Italia ha aderito, in “La Stampa”, 30 ottobre 1992.

[16] Una causa della scarsa informazione sui temi europei dei deputati nazionali era rappresentata dai pochi contatti che essi avevano con la rappresentanza italiana al Parlamento europeo. Su questo aspetto si rimanda all’intervento di Ortensio Zecchino nell’incontro organizzato dall’europarlamentare Paolo Barbi tra i membri del Gruppo popolare al PE e i democristiani dei parlamenti nazionali della Comunità europea, in Archivio del gruppo PPE al Parlamento europeo®, Fondo “Groups organs”, A.1. Group’s meeting minutes, Groupe du Parti populaire européen (Groupe Démocrate-Chrétien), Réunion du Groupe à Luxembourg en présence d’experts des parlements nationaux, le mercredi matin 30 juin 1982, Bruxelles, le 12 juillet 1982, p. 8.

[17] Vedi l’intervento di Emilio Colombo in Atti parlamentari, Camera dei Deputati, XI Legislatura, Discussioni, Seduta del 29 ottobre 1992.

[18] Atti parlamentari, Camera dei Deputati, XI legislatura, Indagini conoscitive e documentazioni legislative, Commissione speciale per le politiche comunitarie, Indagine conoscitiva sui problemi connessi all’attuazione del Trattato di Maastricht, cit., p. 247.

[19] D’altro canto, il segretario della CGIL Bruno Trentin esprimeva una posizione convintamente europeista; più in generale quella confederazione aveva sviluppato un’efficace tensione unitaria con la Cisl e la Uil sui temi europei ed internazionali: si veda, a questo proposito, F. Loreto, La Cgil di fronte all’Atto unico europeo e al Trattato di Maastricht, in Integrazione europea e trasformazioni socio-economiche. Dagli anni Settante a oggi, a cura di L. Mechi e D. Pasquinucci, FrancoAngeli, Milano 2017.

[20] Atti parlamentari, Camera dei Deputati, XI legislatura, Indagini conoscitive e documentazioni legislative, Commissione speciale per le politiche comunitarie, Indagine conoscitiva sui problemi connessi all’attuazione del Trattato di Maastricht, cit.

[21] Cit. in A. Varsori, L’Italia e la fine della guerra fredda. La politica estera dei governi Andreotti (1989-1992), Il Mulino, Bologna 2013, p. 203.

[22] Ivi, p. 219. Sul comportamento dei partiti politici, per nulla inclini a una diversa conduzione del bilancio pubblico in vista dei vincoli imposti da Maastricht, si rimanda alla bella introduzione di P. Craveri a Guido Carli senatore e ministro del Tesoro 1983-1992, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

[23] L’articolo sul “Corriere della sera” è riassunto in M. Monti, Intervista sull’Italia in Europa, a cura di F. Rampini, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 172.

[24] Guido Carli senatore e ministro del Tesoro 1983-1992, a cura di Piero Craveri, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. XLII.

[25] R. Gualtieri, L’Europa come vincolo esterno, in L’Italia nella costruzione europea. Un bilancio storico (1957-2007), cit., p. 315.

[26] G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 5.

[27] Sulla differenza tra tecnici e tecnocrati, si veda la voce “Tecnocrazia” ad opera di Domenico Fisichella nel Dizionario di politica curato da Norberto Bobbio, Nicola Matteucci, Gianfranco Pasquino.

[28] Vedi ad esempio l’intervista a Paolo Sylos Labini, “L’Europa s’allontana”, in “La Stampa”, 29 aprile 1992.

[29] Così Andrea Monorchio, ragioniere generale dello Stato, in “Italia cicala, hai scordato l’Europa”, “La Stampa”, 14 febbraio 1992.

[30] È importante puntualizzare che gran parte delle personalità citate espressero le loro critiche prima dell’aprile del 1992, ovvero prima che “Tangentopoli” dispiegasse i suoi effetti, paralizzando la classe politica.

[31] R. Ruggiero, Europa chiacchiere a vuoto, in “La Stampa”, 6 marzo del 1992.

[32] Un gruppo di studiosi presentò un documento intitolato “Un impegno per l’Europa”, nel quale si chiedeva di inserire i temi europei nel dibattito elettorale così da sensibilizzare l’opinione pubblica sull’Unione economica e monetaria. Tra i firmatari Salvatore Veca, Giuseppe De Rita, Carlo Rubbia, Saverio Vertone e Giulio Tremonti.

[33] Lo scritto di Monti e Spaventa comparve sotto i titoli, rispettivamente, Quanto costerà entrare in Europa in “la Repubblica” e Appello ai partiti scegliete l’Europa nel “Corriere della sera”.

[34] Cfr. M. Monti, Intervista sull’Italia in Europa, cit., passim.

[35] M. Monti, L. Spaventa, Quanto costerà entrare in Europa, cit.

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    By: Daniele Pasquinucci

    Daniele Pasquinucci è professore ordinario di Storia delle relazioni internazionali e Cattedra Jean Monnet in Storia dell’integrazione europea nel Dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive dell’Università degli Studi di Siena. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Uniti dal voto? Storia delle elezioni europee 1948-2009 (Milano 2013), I confini e l’identità. Il Parlamento Europeo e gli allargamenti della CEE 1961-1986 (Pavia, 2013).

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