Presidiare il territorio. Le Camere del Lavoro: forme di azione e radicamento territoriale

Introduzione

In un seminario sulle Camere del Lavoro, svoltosi a Roma trent’anni fa, nel 1982, e concluso da Luciano Lama, i relatori Giuliano Procacci e Gaetano Arfè – due tra i più autorevoli storici dell’epoca – concordavano su due punti di partenza: sul carattere originario del capitalismo italiano, fondato sull’estrema frammentazione di un mercato del lavoro nazionale segnato da un’altissima disoccupazione; e sul carattere originale del sindacalismo italiano, che aveva risposto alla cronica mancanza di lavoro e alla eterogeneità dei mestieri attraverso l’anomalia delle Camere del Lavoro, i principali centri di solidarietà popolare all’interno di una società molto complessa e stratificata[1]. Come notava già allora un conservatore tra i più lucidi come Sidney Sonnino, il tentativo di riunificare i lavoratori di tutti i mestieri di ogni territorio conferiva ad esse “un carattere naturalmente più politico”, in quanto soggetti di rappresentanza e di tutela degli interessi generali del mondo del lavoro[2].

 

Tale anomalia risalta in modo ancora più evidente se confrontata con ciò che accadeva in alcuni tra i principali Paesi europei, dove non mancarono, specie nella fase delle origini, analoghe strutture orizzontali: le Bourses du travail francesi, ad esempio, presentavano alcune significative somiglianze con le Camere del Lavoro italiane, ma nel tempo esse persero lo slancio e le mansioni iniziali[3]; in Inghilterra e Germania, invece, i Trades Councils e le GewerkschaftsKartelle, che puntavano ad una rappresentanza “orizzontale” dei lavoratori, furono ridimensionati in un tempo ancora più breve, a causa della netta affermazione del sistema “verticale” delle Federazioni industriali[4].

In Europa soltanto le Maisons du peuple del Belgio mostrarono (e mantennero nel tempo) numerosi aspetti in comune con le strutture “gemelle” italiane, svolgendo attività sia di tutela individuale attraverso l’erogazione dei servizi, sia di rappresentanza collettiva attraverso la firma di accordi, sia di cooperazione[5]. Nel medesimo tempo, le Case del Popolo belghe fungevano anch’esse da spazio pubblico di “sociabilità” politica: da luoghi, cioè, di relazioni individuali e collettive; da centri di incontro, di confronto ed anche di divertimento; da laboratori di associazionismo egualitario, di alfabetizzazione e di educazione ai valori e alle pratiche del socialismo e della democrazia[6].

Negli ultimi trent’anni la storiografia del movimento operaio e sindacale ha compiuto molti passi in avanti e, nonostante alcuni fisiologici momenti di stasi, ha ottenuto risultati apprezzabili anche in tema di storia delle Camere del Lavoro, fino ai tempi più recenti[7]. Ovviamente, una storia ultracentenaria di tali realtà sindacali risulta un’impresa ardua che travalica i limiti piuttosto ristretti di un breve saggio, per cui sarò costretto a procedere in modo schematico; l’impresa è ardua soprattutto per l’eccezionale pluralismo che caratterizza l’esperienza di tante realtà così legate alla storia dei rispettivi territori di insediamento, ciascuno dotato di proprie specificità e peculiarità.

Il presente saggio si divide in due parti: nella prima, verranno ricostruite rapidamente le differenze e le analogie del periodo compreso tra le origini di fine Ottocento e gli anni settanta del Novecento; nella seconda, verrà dedicato uno spazio maggiore alle vicende degli ultimi quarant’anni.

Dalle origini agli anni settanta del Novecento

Fino all’avvento del fascismo al potere, le Camere del Lavoro si differenziarono tra loro prevalentemente per tre aspetti[8].

Il primo elemento riguardava l’orientamento politico dei gruppi dirigenti, per cui esistevano strutture saldamente nelle mani dei riformisti (fu il caso della Camera di Genova, diretta da Ludovico Calda), mentre altre erano risolutamente rivoluzionarie (il caso “tipico” fu quello della Camera del Lavoro di Parma, diretta da Alceste De Ambris)[9]. Altre strutture, come ad esempio quella milanese, alternarono stagioni riformiste e fasi rivoluzionarie; altre, come quelle dirette da Giuseppe Di Vittorio in Puglia (Minervino Murge, Cerignola, Bari) avevano un’impostazione rivoluzionaria, ma non riununciavano al dialogo serrato con i dirigenti riformisti in vista dell’obiettivo prioritario della riunificazione di tutti i lavoratori[10]. Tale panorama così frastagliato divenne, nel primo dopoguerra, ancora più complesso, quando alcune Camere del Lavoro (tra cui Livorno e Taranto) furono guidate dalla nuova componente dei comunisti[11].

Il secondo elemento di differenza riguardava il numero e la tipologia dei mestieri presenti nelle Camere del Lavoro: nelle grandi città – come Roma e Torino – la categoria più numerosa era quella dei tipografi, i cosiddetti “lavoratori del libro”, ma l’universo dei piccoli mestieri era molto esteso e rappresentò a lungo la maggioranza degli iscritti; invece, in altre realtà più piccole dominava spesso una categoria: ad esempio i metallurgici a Terni, i ferrovieri a Foggia, i panettieri a L’Aquila[12]. A volte questo aspetto accelerava la costituzione della Camera del Lavoro, come nel caso dei cappellai di Monza; altre volte la ritardava, come nel caso dei siderurgici a Piombino[13].

La terza e ultima differenza riguardava i rapporti con gli Enti Locali: se il Comune era ostile, come accadde a Bergamo, la Camera del Lavoro nasceva più tardi e più a fatica; se l’amministrazione locale era favorevole – si pensi allo straordinario laboratorio della Reggio Emilia di Camillo Prampolini – la Camera del Lavoro risentiva positivamente del contesto ambientale favorevole[14].

Nonostante tali differenze, le analogie tra le Camere del Lavoro erano molte e significative. Le prime strutture, ad esempio, nate negli anni novanta dell’Ottocento, erano quasi completamente dedite al collocamento dei lavoratori, mentre gli statuti rifiutavano qualsiasi forma di resistenza, prima fra tutte lo sciopero, per evitare sia la repressione da parte delle forze dell’ordine, sia la perdita del vitale sussidio erogato in loro favore da Comuni e Province. Tuttavia, dopo i fatti di Milano del maggio 1898, dopo la cosiddetta “crisi di fine secolo” e soprattutto dopo il primo sciopero generale cittadino, svoltosi a Genova nel dicembre 1900 proprio a difesa della locale Camera del Lavoro (oggetto per la terza volta in tre anni di un provvedimento prefettizio di chiusura), l’attività di resistenza divenne progressivamente patrimonio comune a tutto il mondo camerale, sia riformista che rivoluzionario, da Firenze a Napoli, da Venezia a Palermo[15]. Tale attività di resistenza si esplicò quasi ovunque in tre modi: 1) favorendo la tutela del singolo lavoratore attraverso l’offerta di specifici servizi e l’organizzazione di molteplici attività mutualistiche[16]; 2) promuovendo la rappresentanza collettiva attraverso azioni conflittuali e trattative contrattuali con le controparti pubbliche e private[17]; 3) proponendosi alle comunità locali come spazi pubblici di socializzazione[18].

Inoltre, ancora fino all’età giolittiana, la costituzione delle Camere del Lavoro avvenne attraverso un processo che è stato definito a “fisarmonica”[19], nel senso che tali strutture mantennero un elevato livello di instabilità, chiudendo e riaprendo con una certa frequenza; in effetti, la stabilità organizzativa si sarebbe affermata soltanto nel secondo dopoguerra, dopo la caduta del nazifascismo e l’affermazione della democrazia nel Paese.

Nonostante l’evidente volatilità delle Camere del Lavoro, queste, proprio per il loro ruolo politico di sindacato generale, che crebbe e si consolidò durante il cosiddetto “biennio rosso” 1919-20, divennero – ed è questa la terza e ultima analogia – il bersaglio privilegiato dello squadrismo fascista, cioè di un’inedita violenza politica che le vide quasi sempre soccombere, nonostante alcune eroiche resistenze, come quella organizzata da Di Vittorio nella “città vecchia” di Bari a difesa della locale struttura camerale[20].

Per questo motivo non deve sorprendere il fatto che, già durante la guerra partigiana del 1943-45, in alcuni territori operassero in forma clandestina strutture embrionali: come a Ravenna, dove una Camera del Lavoro risultava operativa già alcuni mesi prima della Liberazione[21]; oppure a Imola, dove negli stessi mesi era attivo un ufficio di collocamento clandestino; oppure a Biella, dove sempre in clandestinità furono firmati tra la fine del 1944 e i primi mesi del 1945 alcuni accordi territoriali con le controparti, passati poi alla storia con la definizione di “contratto della montagna”[22].

Così come non deve sorprendere il fatto che le Camere del Lavoro furono un pezzo fondamentale della Ricostruzione del Paese nella seconda metà degli anni quaranta: come a Genova, dove la locale Camera del Lavoro organizzò con le forze dell’ordine squadre annonarie “miste” per il controllo dei prezzi, e intervenne costantemente sui problemi sociali, occupandosi tra le altre cose di trasporti, alloggi e reduci; e dove il locale patronato della Cgil, l’Inca, già nel 1946, pochi mesi dopo la Liberazione, riuscì ad offrire un’ampia gamma di serviz,i per un totale di 13 mila pratiche evase, 6 mila vertenze concluse e 5 mila visite mediche effettuate[23].

Le Camere del Lavoro, in sintesi, rappresentarono il cuore del “sindacalismo del popolo lavoratore”, teorizzato e praticato dalla Cgil fino agli anni cinquanta e ben riassunto in questa citazione di Giuseppe Di Vittorio:

non esiste in alcun paese un tipo di organizzazione che possa definirsi almeno analogo a quello delle Camere del Lavoro italiane. […] La nostra Camera del Lavoro realizza la solidarietà vivente fra i lavoratori di tutte le categorie della stessa città, della stessa provincia e poi, irradiandosi fino alla Confederazione Generale Italiana del Lavoro, realizza la solidarietà di classe di tutto il proletariato italiano, di tutti i lavoratori della nostra società nazionale. […] [Essa] è stata in pari tempo la somma di tutti i sindacati e di tutti i lavoratori in essi organizzati, l’espressione dell’insieme del popolo lavoratore, l’organizzazione che non si è interessata dei compiti puramente sindacali (l’orario di lavoro, i salari, l’organizzazione della solidarietà da un sindacato all’altro, di tutti i sindacati a un sindacato, ecc.), ma è stata anche qualche cosa di più, un’espressione più viva, più diretta dei bisogni generali del popolo; per cui molto spesso le nostre Camere del Lavoro si sono occupate dei trasporti collettivi cittadini, degli ospedali, dei problemi degli affitti, delle imposte, delle condizioni di igiene in cui vivono i lavoratori in determinati quartieri, cioè di problemi sociali generali. In quasi tutto il nostro paese ogni volta che un lavoratore subisce un affronto, una ingiustizia, un atto di prepotenza da parte di autorità o dei padroni, va alla Camera del Lavoro: essa è vista come l’espressione della giustizia per il popolo”[24].

 

Ebbene, questo tipo di sindacato subì un drastico cambiamento proprio negli anni cinquanta, con il boom, il “miracolo economico” che trasformò l’Italia in una vera e propria potenza industriale di livello mondiale[25]; e, nei delicati equilibri interni alla Confederazione, presero il sopravvento le categorie industriali. Ciò si evince bene dai lavori della prima Conferenza d’organizzazione del dicembre 1954, che trattò in modo quasi esclusivo il tema delle Sezioni sindacali d’azienda, mentre le strutture orizzontali quasi scomparvero dal discorso pubblico della Cgil[26]. Furono le Federazioni nazionali, e non le Camere del Lavoro, a guidare, nella fase tanto rapida quanto breve del fordismo, dalla metà degli anni cinquanta alla metà degli anni settanta, la ripresa operaia e sindacale, fino al ’68, all’autunno caldo dei metalmeccanici del 1969 e fino alla cosiddetta “supplenza sindacale” dei primi anni settanta. Il sindacalismo industriale fu l’artefice del “sindacato dei Consigli”, quello dei delegati, dell’autonomia dai partiti, dell’unità federativa[27].

Gli ultimi quarant’anni

Dagli anni settanta, tuttavia, iniziò un’altra storia. Sui temi del reinsediamento sindacale nel territorio e del rinnovato protagonismo delle Camere del Lavoro, occorre tenere presenti tre passaggi precisi: uno di più lunga durata, uno di medio periodo e uno legato agli avvenimenti più recenti.

Il primo evento, di lunga durata, che estende i suoi effetti ancora oggi e condiziona il dibattito sul presente e sul futuro del sindacato, fu la grave crisi economica degli anni settanta, una vera e propria cesura dirompente dell’età contemporanea; come ha scritto lo storico americano Charles Maier, alla metà degli anni settanta scoppiò nel mondo occidentale una vera e propria “crisi di sistema”, che avviò il declino dell’età industriale[28]. Da allora la politica degli Stati nazionali non è stata più in grado di governare e controllare i processi di globalizzazione economica; oltre a ciò, è andato in crisi il sistema fordista della grande produzione standardizzata e dei consumi di massa. Il decentramento produttivo da un lato, la precarietà del lavoro dall’altro, hanno messo in grave pericolo il ruolo storico del sindacato.

Da questo punto di vista può essere considerata paradigmatica la storia della Camera del lavoro di Reggio Emilia nei “lunghi anni settanta”: analizzando i documenti, si resta molto colpiti dalla svolta repentina, che si consumò in quella realtà in pochi mesi, tra il 1974 e il 1975: prima della grave recessione economica, la scena sindacale era dominata dalle grandi vertenze contrattuali nazionali e da una miriade di vertenze aziendali, quasi tutte finalizzate al controllo operaio dell’ambiente e dell’organizzazione del lavoro in fabbrica; con la crisi, all’improvviso, dall’autunno del 1974, gli scioperi generali cittadini presero il sopravvento, quasi sempre proclamati in difesa dell’occupazione e del potere d’acquisto di salari, stipendi e pensioni[29]. In poco tempo, dunque, fallì il passaggio dai Consigli di fabbrica ai Consigli di zona, “dalla fabbrica alla società” – come recitava un famoso slogan dell’epoca –, e le Camere del Lavoro cominciarono a riguadagnare una centralità che sembrava ormai perduta[30].

Purtroppo, mancano ad oggi ricerche storiche di qualità per il periodo successivo, quello degli anni ottanta. Tuttavia, dai pochi studi a disposizione – a mio avviso il volume più importante è quello di Massimo Carrai sulla Camera del Lavoro di Empoli, l’unico che si spinge sino alla fine del secolo[31] – sembra che, a dispetto di un certo immobilismo dei gruppi dirigenti centrali, testimoniato anche dall’assenza di qualsiasi discorso sul decentramento nella II Conferenza d’organizzazione del dicembre 1983[32], le Camere del lavoro, seppure a fatica, con molte incertezze e difficoltà negli anni della “parabola del sindacato”[33], provano a smuovere le acque; esse lo fanno dotandosi di nuovi strumenti di analisi (periodici, centri ricerche, ecc), rilanciando il sistema dei servizi, aprendo numerosi sedi periferiche nel territorio, andando incontro alla nuova realtà degli immigrati, coordinandosi tra di loro (come accade alle strutture delle aree metropolitane), avviando un primo, ancorché insufficiente, ricambio generazionale[34].

Il secondo passaggio, quello di medio periodo, che può contribuire a spiegare il recente cammino di reinsediamento territoriale del sindacato, riguarda direttamente la Cgil. Il riferimento è agli eventi del 1989, tanto drammatici quanto dirompenti. Gli avvenimenti internazionali che condussero in poche settimane alla caduta del Muro di Berlino e in pochi mesi alla fine della guerra fredda, determinarono in Italia, sul piano politico-partitico, una reazione a catena che, a partire dalla cosiddetta “svolta della Bolognina”, portò al crollo della Prima Repubblica, alla fragorosa caduta della “Repubblica dei partiti”[35].

Sul piano sindacale, invece, tali accadimenti internazionali e nazionali, pur vissuti con grande travaglio, furono visti come un’occasione storica per una vera e propria “rifondazione” culturale e politica, che ebbe in Bruno Trentin il suo principale artefice[36]. Tra la Conferenza di programma di Chianciano dell’aprile 1989 e il Congresso nazionale di Rimini del 1991, la Cgil dette vita al cosiddetto “sindacato dei diritti, della solidarietà e del proogramma”; il “sindacato dei diritti” non era un semplice slogan, ma è stato senza dubbio il più serio tentativo realizzato in Italia negli ultimi trent’anni di autoriforma di un soggetto politico, dotato di un passato importante ma posto di fronte al grave rischio di un declino irreversibile.

“Ridiventare un sindacato generale”, disse testualmente Trentin nella relazione di Chianciano, significava ribadire e rafforzare il ruolo di “garante di una solidarietà fra diversi”, finalizzato alla promozione e allo sviluppo di “libertà eguali” e di “diritti universali”, al servizio dell’“autorealizzazione” della persona e dell’“autogoverno” dei lavoratori[37]. Si trattava, dunque, di un progetto politico ambizioso, che poteva realizzarsi soltanto rilanciando il ruolo politico delle Camere del Lavoro.

Nell’immediato, tuttavia, l’organizzazione reagì con lentezza. L’unica novità di rilievo fu il superamento, tra il 1990 e il 1991, delle storiche “componenti”, mentre dagli accordi interconfederali del 1992-93 con i Governi Amato e Ciampi e fino al patto di Natale del 1998 con il Governo D’Alema, la scena sindacale fu dominata dalla concertazione triangolare centralizzata. Le stesse Conferenze di organizzazione del 1989 e del 1993, la III e la IV, riuscirono solo in parte a tramutare l’intuizione di Trentin in proposte concrete di cambiamento[38].

Ma il percorso era ormai tracciato; lo conferma un convegno interessante del 1996, organizzato dall’Ufficio di programma della Cgil e dallo Spi, e concluso da Sergio Cofferati, intitolato proprio Per ripensare le Camere del Lavoro[39]. Le Camere del lavoro – era il messaggio politico e organizzativo che emergeva dai lavori del convegno – dovevano tornare a svolgere in ciascun territorio la funzione delicata di “una mediazione capace di intervenire nel conflitto latente tra gli interessi dei pochi e i diritti universali”[40]; ciò poteva avvenire nei tradizionali tre modi di azione sindacale e radicamento territoriale: 1) contrattando continuamente con le imprese e con gli Enti locali una consistente redistribuzione dei redditi e delle risorse, nonché un efficace decentramento del potere decisionale; 2) offrendo, non soltanto agli iscritti, ma a tutti i lavoratori, servizi di tutela individuale sempre più efficienti e orientati ai bisogni della persona; 3) promuovendo sociabilità, vale a dire partecipazione popolare, inclusione sociale, volontariato, voglia di stare insieme e anche di divertirsi.

Non si trattava, dunque, di inventare nulla di particolarmente nuovo; si trattava, semmai, di riscoprire, recuperare e aggiornare ciò che, come si è visto, accadeva già nel passato, anche negli anni più lontani.

Da questo punto di vista, basta sfogliare il numero speciale che “Rassegna sindacale” ha dedicato all’inizio del 2009 al tema del reinsediamento territoriale delle Camere del Lavoro e delle categorie, per cogliere tante analogie con il passato ma anche alcune recenti esperienze innovative, promosse nel solco della tradizione confederale[41].

Si va dalla contrattazione territoriale nella provincia autonoma di Trento in tema di asili nido ai tanti episodi di accordi siglati con i Comuni in materia di tasse e tariffe; dall’istituzione dello sportello Inca nella Fincantieri di Monfalcone (dove è presente la più grande comunità bengalese in Italia) agli “sportelli per la legalità” promossi a Reggio Calabria come centri di ascolto e di assistenza, anche psicologica, per chi è costretto a lottare quotidianamente contro gli abusi del potere criminale; dal laboratorio Toolbox Cgyl rivolto ai giovani di Bergamo (dove y sta per young) con il compito di sviluppare la contrattazione sociale territoriale, offrire servizi e diventare un luogo di aggregazione politica, alla realtà di Reset di Padova, che offre servizi, spazi di studio e luoghi di incontro agli studenti universitari. Esperienze in parte analoghe, rivolte a giovani, stanno crescendo anche a Cerignola; e in Basilicata dove, in collegamento con le Camere del Lavoro di Potenza e Matera, agisce il sindacato studentesco della Federazione universitari lucani (Ful).

Ed ancora si possono citare tanti altri esempi di reinsediamento in atto: le nuove Camere del Lavoro di sito all’aereoporto di Malpensa e all’Ortomercato di Milano, nonché quella in progettazione presso la Nuova Fiera del capoluogo lombardo, dove si terrà l’Expò 2015; il progetto per la costituzione della Camera del Lavoro dello Stretto, concepita per coordinare le attività dell’area metropolitana di Messina e Reggio Calabria; le sedi aperte a Castel Volturno e a Casal di Principe, veri e propri presidi di democrazia in un territorio violentato dalla criminalità organizzata della camorra; la sede del Centro intermodale “Quadrante Europa” di Verona, il più grande d’Europa, dove si incrociano i corridoi 1 e 5, punto di snodo decisivo dei traffici aerei, ferroviari e autostradali; la Camera del lavoro del mare aperta nel porto di Ancona; quella di Filt, Inca e Caaf nel porto di Voltri a Genova e quella di Filt, Filcams e Fiom nel porto di Livorno; l’azione svolta dai delegati “ai servizi” nel porto di La Spezia, dai delegati “di sito” nella centrale Enel di Torre Valdaliga a Civitavecchia e nella Unilever di Cisterna di Latina, e dai delegati “sociali” nel territorio di Savona; l’apertura della prima sede della Fillea all’estero, a Nova Gorica, dove è stata decisa la doppia iscrizione ai sindacati italiani e sloveno e dove è in atto un proficuo scambio di funzionari; le politiche messe in campo dal Dipartimento immigrazione della Camera del Lavoro di Reggio Emilia; l’esperienza de “Il cuore delle donne, il cuore della Cgil” a Reggio Calabria, con il coinvolgimento di giovani avvocatesse impegnate nell’assistenza legale alle donne in difficoltà; ed infine le sedi “mobili”, come quella della Fiom a Terni, ideata per intercettare i lavoratori metalmeccanici delle piccolissime imprese artigiane, ed il “tour dei call center”, organizzato dal Nidil di Catanzaro con l’utilizzo di un camper.

Tutte queste esperienze si sono sviluppate a ridosso della V e ultima Conferenza d’organizzazione, svoltasi nel maggio 2008, il terzo e ultimo evento che – dopo il terremoto economico degli anni settanta-ottanta e dopo l’autoriforma confederale del 1989-91 – ha alimentato il cammino di reinsediamento delle Camere del Lavoro nei territori; con la novità significativa rispetto al passato delle delibere attuative, votate dal Direttivo nel novembre 2008, che hanno accompagnato e favorito questi iniziali ma significativi cambiamenti che sono in cantiere[42].

Tali cambiamenti sono stati innescati e sono tuttora promossi dalle Camere del Lavoro per la necessità, avvertita in tanti territori e soprattutto in tante periferie, di “essere rieducati all’idea dei diritti, nel momento in cui si è perduta la  consapevolezza  di averli”. Così ha scritto qualche tempo fa Sara Fagone, responsabile della Camera del Lavoro del quartiere Librino, nella periferia sud-ovest di Catania, un vero e proprio laboratorio di democrazia partecipata e di cittadinanza attiva messo in piedi in un contesto ambientale molto difficile, dove in pochi anni si sono ottenuti risultati eccezionali di elementare riqualificazione civile e sociale di un territorio abbandonato alla mafia[43]. La citazione di questa esemplare esperienza è il modo migliore per chiudere queste brevi note storiche e per guardare con fiducia al futuro difficile e impegnativo che attende le Camere del Lavoro in Italia e in Europa.

 

 

 


[1]Giuseppe Sircana, Un sindacato a due gambe. Seminario sulle Camere del Lavoro, “Rassegna sindacale”, n. 40, 25 novembre 1982, p. 44.

[2] La famosa citazione di Sonnino, tratta da un suo articolo pubblicato sul n. 4 del 1901 di “Nuova Antologia”, è riportata da Giuliano Procacci nel volume La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX, Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 64.

[3] Sul caso francese si veda il recente dossier Retour sur les Bourses du Travail. Aux sources de l’histoire syndicale française, curato da David Hamelin e pubblicato da “Cahiers d’Histoire”, n. 116-117, luglio-dicembre 2011.

[4] Per un’analisi comparata, tanto precoce quanto puntuale, delle strutture sindacali di rappresentanza territoriale si veda lo studio di Renato Brocchi, L’organizzazione di resistenza in Italia, a cura di Valerio Strinati, Roma, Ediesse, 2005. Il volume uscì postumo nel 1907, un anno dopo la prematura morte del ventiquattrenne Segretario della Camera del Lavoro di Macerata.

[5] Sullo stretto legame tra mutualità, cooperazione e resistenza nell’esperienza belga risultano assai stimolanti le riflessioni di Pino Ferraris contenute nel saggio Politica e società nel movimento operaio e socialista, “Alternative per il socialismo”, n. 5, febbraio-marzo 2008, ora in Id., Ieri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente, Roma, Edizioni dell’asino, 2011.

[6] Maurizio Ridolfi, Il circolo virtuoso. Sociabilità democratica, associazionismo e rappresentanza politica nell’Ottocento, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 1990. Sul concetto di “sociabilità” si vedano gli studi di Maurice Agulhon, a partire dal “classico” La Repubblica nel villaggio. Una comunità francese tra Rivoluzione e Seconda Repubblica, Bologna, Il Mulino, 1991.

[7] Tra i volumi più significativi sul piano scientifico occorre citare: Aa.Vv., Un territorio e la grande storia del ‘900: il conflitto, il sindacato e Reggio Emilia, 2 voll., Roma, Ediesse, 2002; Luigi Arbizzani, Il sindacato nel bolognese. Le Camere del Lavoro di Bologna dal 1893 al 1960, Roma, Ediesse, 1988; Adriano Ballone, Claudio Dellavalle, Mario Grandinetti (a cura di), Il tempo della lotta e dell’organizzazione. Linee di storia della Camera del Lavoro di Torino, Milano, Feltrinelli, 1992; Gloria Chianese, Sindacato e Mezzogiorno: la Camera del Lavoro di Napoli nel dopoguerra (1943-1947). Storia e documenti, Napoli, Guida, 1987; Zeffiro Ciuffoletti, Mario G. Rossi, Angelo Varni (a cura di), La Camera del Lavoro di Firenze: dalla Liberazione agli anni settanta, Napoli, ESI, 1991; Alessandro Del Conte, Luigi Falossi, Luigi Tomassini (a cura di), Le Camere del Lavoro in Toscana. Storie immagini insedamenti, Roma, Ediesse, 2010; Gigliola Dinucci (a cura di), La Camera del Lavoro di Pisa: 1896-1980. Storia di un caso, Pisa, ETS, 2006; Luigi Ganapini (a cura di), Un secolo di sindacato: la Camera del Lavoro a Modena nel Novecento, Roma, Ediesse, 2001; Ivano Granata, Roberto Romano, Storia della Camera del Lavoro di Milano, 4 voll., Milano, Franco Angeli, 2006; Claudio Natoli, Giannarita Mele, Storia della Camera del Lavoro di Cagliari nel Novecento, Roma, Carocci, 2007; Jorge Torre Santos, Il sindacato unitario. La Camera del Lavoro di Milano nel periodo dell’unità sindacale (1945-48), Milano, Guerini e Associati, 2005.

[8] Cfr. Isabella Milanese (a cura di), Le Camere del lavoro italiane: esperienze storiche a confronto, Ravenna, Longo, 2001.

[9] Cfr. Gaetano Perillo, Camillo Gibelli, Storia della Camera del Lavoro di Genova: dalle origini alla seconda guerra mondiale, Roma, Editrice sindacale italiana, 1980; Valerio Cervetti (a cura di), Nel segno di Garibaldi: cent’anni di Camera del Lavoro a Parma, Parma, PPS, 1993.

[10] Francesco Giasi, Fabrizio Loreto, Maria Luisa Righi (a cura di), Sotto stretta sorveglianza. Di Vittorio nel Casellario politico centrale (1911-1943), “Annali della Fondazione Giuseppe Di Vittorio”, 2008-2009, Roma, Ediesse, 2010. Cfr. Fabrizio Loreto, Giuseppe Di Vittorio e le Camere del Lavoro, in Aa.Vv., Giuseppe Di Vittorio. A 50 anni dalla sua scomparsa nuovi studi e interpretazioni, “Annali della Fondazione Giuseppe Di Vittorio”, 2007, Roma, Ediesse, 2008, pp. 89-114.

[11] Fabio Bertini, Ivan Tognarini, Angelo Varni (a cura di), Le voci del lavoro: 90 anni di organizzazione e di lotta della Camera del Lavoro di Livorno, Napoli, ESI, 1990; Massimo Di Cesare, Roberto Nistri (a cura di), Un cammino lungo cent’anni. La Camera del lavoro di Taranto, Roma, Ediesse, 2006.

[12] La Camera del Lavoro di Terni: 100 anni di storia, Terni, 2001; Franco Mercurio (a cura di), 26 ottobre 1902: la Camera del lavoro di Foggia. 100 anni, Claudio Grenzi Editore, 2005; Borghesi Andrea, Loreto Fabrizio (a cura di), Cento anni di sindacato all’Aquila e provincia. 1907-2007, Roma, Ediesse, 2010.

[13] Maurizio Antonioli, La Camera del Lavoro di Monza dalla costituzione (1893) alla prima guerra mondiale, in Id., Il sindacalismo italiano. Dalle origini al fascismo. Studi e ricerche, Pisa, BFS, 1997, pp. 67-114; Paolo Favilli, Capitalismo e classe operaia a Piombino, 1861-1918, Roma, Editori Riuniti, 1974.

[14] Sul caso di Bergamo e, più in generale, della Lombardia si veda il contributo di Maurizio Antonioli, Le Camere del Lavoro in Lombardia tra Otto e Novecento. Un quadro comparativo, in Le Camere del lavoro italiane: esperienze storiche a confronto, cit., pp. 159-190; sul caso reggiano si veda Antonio Canovi, Le forme della mutualità. Alle origini del “metodo” reggiano: la cooperazione, l’organizzazione camerale, il municipio socialista, in Aa.Vv., Un territorio e la grande storia del ‘900: il conflitto, il sindacato e Reggio Emilia, vol. I, Dalle origini del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici all’avvento e consolidamento del fascismo, Roma, Ediesse, 2002, pp. 39-61. Nel 1901 erano venti le Camere del Lavoro che ricevevano un sussidio comunale: Alessandria, Bologna, Cremona, Grosseto, Lodi, Livorno, Milano, Messina, Mantova, Monza, Palermo, Parma, Piacenza, Padova, Roma, Ravenna, La Spezia, Sampierdarena, Sesto Fiorentino e Sestri Ponente: cfr. Idomeno Barbadoro, Il sindacato in Italia, vol. I, Dalle origini al 1908, Milano, Teti editore, 1979, p. 210.

[15] Cfr. Adolfo Pepe, Il valore del lavoro nella società italiana. Viaggio nei centenari della CGIL, Roma, Ediesse, 2003.

[16] Nel volume già citato di Renato Brocchi si documenta che le 93 Camere del Lavoro operative in Italia all’atto di nascita dell Cgdl (1906) svolgevano i seguenti servizi: collocamento, istruzione professionale, riabilitazione dei carcerati, informazioni sul mercato del lavoro, promozione e applicazione della legislazione sociale, erogazione del sussidio di disoccupazione e del viatico, consulenza legale, assistenza medica, educazione alla solidarietà e al mutualismo.

[17]Ad esempio, Barbadoro riferisce che già nel 1897 la Camera del Lavoro di Milano aveva cheisto al Comune “la refezione scolastica, la presenza di delegati dei lavoratori nelle commissioni di vigilanza sull’igiene e la riduzione delle tariffe tranviarie per i prestatori d’opera” (Il sindacato in Italia, cit., p. 207); un altro significativo esempio proveniva da Genova dove, in un memoriale rivendicativo presentato nel 1905 dalla locale Camera del Lavoro al Comune, le rivendicazioni erano le seguenti: “istruzione pubblica; assistenza sanitaria, vigilanza igienica e sugli alimenti, acqua potabile; dormitori pubblici e case d’alloggio, bagni e docce; case operaie; case per marinai; corse operaie sui trams; locale per la Camera del Lavoro; sussidio e aiuti alla federazione delle cooperative”: cfr. Il Memoriale dei lavoratori genovesi al Municipio, “Lavoro”, 18 febbraio 1905.

[18] Per quanto riguarda il tempo libero dei lavoratori e l’organizzazione di attività ricreative, sociali e culturali, basti segnalare che all’inizio del secolo la Camera del lavoro di Reggio Emilia aveva una banda musicale, a Bologna la Camera del lavoro ospitava un teatrino, mentre a Macerata funzionava al suo interno un ristorante gestito da una cooperativa: cfr. Renato Brocchi, op. cit., p. 421.

[19] Simone Neri Serneri, Il localismo come vincolo e come risorsa. Note sul caso toscano, in Le Camere del lavoro italiane: esperienze storiche a confronto, cit., p. 197.

[20] Sull’episodio nel capoluogo pugliese si veda Giuseppe Di Vittorio, La gloriosa resistenza di Bari contro il fascismo, “La Voce dei lavoratori”, numero unico a cura dell’Ufficio stampa della Camera del lavoro di Bari, agosto 1952.

[21]Roberto Balzani, La Camera del Lavoro di Ravenna. Una storia lunga un secolo, in Le Camere del lavoro italiane: esperienze storiche a confronto, cit., pp. 37-49.

[22] Cfr. Aa.Vv., L’altra storia: sindacato e lotte nel Biellese, 1901-1986, Roma, Ediesse, 1987.

[23] Cfr. Paolo Arvati, Paride Rugafiori, Storia della Camera del Lavoro di Genova, vol. II, Dalla Resistenza al luglio ’60, Roma, Editrice sindacale italiana, 1981.

[24] Giuseppe Di Vittorio, Le origini del nostro movimento sindacale e la funzione della Camera del Lavoro di Milano, in Di Vittorio: l’uomo, il dirigente, cit., vol. II (1944-1951), Roma, Editrice Sindacale Italiana, 1969, pp. 573-574.

[25] Guido Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Roma, Donzelli, 1996

[26] Cfr. Cfr. Rafforzare l’organizzazione e l’influenza della Cgil, atti del Convegno nazionale d’organizzazione, Roma, La Stampa moderna, 1955. Cfr. Giovanni Chiappani, Come definire i compiti delle Camere del Lavoro? L’esperienza che si sta facendo a Cremona, “Rassegna sindacale”, n. 9, 13 aprile 1963, p. 11; Categorie e Confederazioni: una strategia unitaria. Intervista con Vittorio Foa, ivi, n. 96, 9 ottobre 1966, pp. 1-2.

[27] Fabrizio Loreto, L’unità sindacale (1968-1972). Culture organizzative e rivendicative a confronto, Roma, Ediesse, 2009.

[28] Charles S. Maier, Due grandi crisi del XX secolo. Alcuni cenni su anni Trenta e Settanta, in Luca Baldissara (a cura di), Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, Roma, Carocci, 2001, pp. 37-55.

[29] Fabrizio Loreto, Sindacato, conflitto e democrazia, in Luca Baldissara (a cura di), Tempi di conflitti, tempi di crisi. Contesti e pratiche del conflitto sociale a Reggio Emilia nei“lunghi anni Settanta”, Napoli-Roma, l’ancora del mediterraneo, 2008, pp. 229-307.

[30] Tale svolta sindacale, avvenuta alla metà degli anni settanta, appare confermata anche da altri studi, come quello di Neglie sul “caso” di Ancona: cfr. Pietro Neglie, Le stagioni del sindacato: storia della Camera del Lavoro di Ancona (1944-1978), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000, pp. 224-249.

[31] Massimo Carrai, Ad Empoli da cent’anni. La Camera del Lavoro di Empoli,1901-2001, Roma, Ediesse, 2002.

[32] I lavori della II Conferenza d’organizzazione, di fatto oscurati dalla parallela discussione sulla scala mobile, sono consultabili nel supplemento di “Rassegna sindacale”, n. 47, 16 dicembre 1983.

[33] Cfr. Aris Accornero, La parabola del sindacato. Ascesa e declino di una cultura, Bologna, Il Mulino, 1992.

[34] Donatella Turtura, Un sindacato nuovo nelle grandi città, “Rassegna sindacale”, n. 13-14, 18-25 aprile 1986. Cfr. Angelo De Battista, Per il lavoro e la libertà. Un secolo di storia sindacale a Lecco e nel territorio, vol. III, Dalla riorganizzazione in fabbrica alla centralità del territorio: interviste ai segretari della Camera del Lavoro di Lecco, 1945-2001, Lecco, 2001; Amerigo Manesso, Luisa Tosi, Dai primi passi alla città dei servizi: un secolo della Cgil a Treviso attraverso la storia delle sedi, Treviso, Istresco, 2009.

[35] Cfr. Paul Ginsborg, L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato. 1980-1996, Torino, Einaudi, 1998. Sulle vicende di quegli anni interne alla sinistra comunista, che determinarono la fine del Pci, la nascita del Pds e la scissione di Rifondazione comunista, si veda il volume di Iginio Ariemma, La casa brucia. I democratici di sinistra dal Pci ai giorni nostri, Venezia, Marsilio, 2000.

[36]Adolfo Pepe, I lunghi anni ottanta (1980-1993), in Lorenzo Bertucelli, Adolfo Pepe, Maria Luisa Righi, Il sindacato nella società industriale, Roma, Ediesse, 2008, pp. 319-358.

[37] Bruno Trentin, Per una nuova solidrietà riscoprire i diritti, ripensare il sindacato, in Id., Lavoro e libertà. Scritti scelti e un dialogo inedito con Vittorio Foa e Andrea Ranieri, a cura di Michele Magno, Roma, Ediesse, 2008, pp. 219-252. Le citazioni sono a p. 228. Cfr. Giuseppe Bortone, Le città da capire. Nei prossimi giorni le assise di alcune tra le più importanti Camere del Lavoro. Gli equuilibri politici e l’insediamento sociale, “Rassegna sindacale”, n. 31-32, 9-16 settembre 1991, pp. 16-18.

[38] Cfr. Il documento conclusivo della Conferenza nazionale di organizzazione, “Nuova rassegna sindacale”, n. 44, 4 dicembre 1989, p. 61; per i lavori della IV Conferenza d’organizzazione del 1993 si veda il supplemento di “Nuova rassegna sindacale”, n. 41, 29 novembre 1993.

[39] Aa.Vv., Per ripensare le Camere del Lavoro: l’emancipazione civica nell’esperienza camerale, Roma, Ediesse, 1996.

[40] La citazione è tratta dall’intervento di Trentin (Le Camere del Lavoro di fronte a nuove forme di mediazione sociale e di contrattazione territoriale, p. 63). Cfr. Vincenzo Scudiere, La centralità delle Camere del Lavoro, “Rassegna sindacale”, n. 1, 11 gennaio 2000, p. 1.

[41] Speciale reinsediamento, “Rassegna sindacale”, n. 1, 8-14 gennaio 2009; Enrico Galantini, Ripartiamo dal basso. Intervista a Panini, ivi, pp. 1 e 17.

[42] I nostri valori al lavoro. Le scelte della Conferenza nazionale di organizzazione e le delibere di attuazione del Comitato Direttivo della Cgil, Roma, Ediesse, 2009. Cfr. Cesare Melloni, Il nostro contributo per riprogettare il paese, “Rassegna sindacale”, n. 6, 14-20 febbraio 2008, p. 6; Enrico Panini, Le Camere del Lavoro del XXI secolo, ivi, n. 29, 28 luglio-3 agosto 2011, p. 3; Id., L’importante ruolo e le iniziative delle Camere del Lavoro, ivi, n. 35, 6-12 ottobre 2011, p. 3; Id., Le Camere del Lavoro, ivi, n. 43, 1-7 dicembre 2011, p. 3; Id., Camere del Lavoro sempre più “accoglienti”, ivi, n. 46, 22-28 dicembre 2011, p. 3.

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    By: Fabrizio Loreto

    Fabrizio Loreto è ricercatore della Fondazione Giuseppe Di Vittorio. Studioso del movimento sindacale, ha pubblicato saggi e monografie sul movimento operaio nell’Italia del Novecento. Tra le sue pubblicazioni L’ “anima bella” del sindacato. Storia della sinistra sindacale (1960 – 1980), Ediesse, 2005; L’Unità sindacale (1968-1972). Culture organizzative e rivendicative a confronto, Ediesse, 2009. Per la stessa casa editrice, ha curato i volumi Agostino Novella. Il dirigente dei momenti difficili (2006); Giuseppe Di Vittorio. “Il lavoro salverà l’Italia”. Antologia di scritti, 1944 – 1950 (2007). Con Francesco Giasi e Maria Luisa Righi ha recentemente curato il volume Sotto stretta sorveglianza. Di Vittorio nel casellario politico centrale (1911 – 1943), Ediesse, 2010.

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