Note e discussioni sul convegno “Antropologia e Storia: un rapporto problematico”, tenutosi nel Dipartimento di “Storia, Culture e Religioni” dell’Università “La Sapienza” di Roma il 10 maggio 2012.
Orizzonti confusi
Nel 1950 Sir Edward E. Evans-Pritchard (1902-1973), uno dei massimi esponenti dell’antropologia sociale britannica, teneva ad Oxford una conferenza in onore dell’antropologo inglese Robert R. Marett (1866-1943) in cui affrontava il tema della connessione fra storia ed antropologia sociale[ii]. Così la racconta lo stesso Evans-Pritchard, nel 1962:
Nel 1950 tenni ad Oxford una conferenza in onore di Marett e in quell’occasione affermai che a mio avviso l’antropologia sociale doveva essere considerata più strettamente connessa ad alcuni tipi di storia che alle scienze naturali. Non voglio dire di aver sollevato un coro di proteste, ma è certo che, come dimostrarono le critiche mossemi in quell’occasione, ero andato a urtare contro i peggiori aspetti del pregiudizio antistorico[iii].
Cosa intendesse l’antropologo inglese parlando dei “peggiori aspetti del pregiudizio antistorico” è esattamente il nucleo di un dibattito che ha recentemente avuto luogo a Roma, a distanza di cinquanta anni dalla pubblicazione delle righe citate sopra: il 10 maggio 2012 storici ed antropologi, provenienti dalle maggiori università italiane e francesi, si sono incontrati a Roma in sede di convegno e si sono confrontati sul tema delle possibili convergenze (e delle inevitabili divergenze) delle due discipline. Già il titolo dell’incontro, Antropologia e Storia: un rapporto problematico, potrebbe sembrare un manifesto programmatico d’intenti, anche se al di là delle divergenze epistemologiche e disciplinari, storici e antropologi si sono di fatto trovati ancora una volta a discutere sull’annosa e quanto mai fluttuante questione del rapporto fra le due prospettive, ripercorrendo le tappe di un dibattito che affonda le sue radici nella nascita della stessa etnografia. Ciò che vorremo qui presentare è una problematizzazione dei temi che tali interventi hanno introdotto, ognuno a partire dalla propria specificità disciplinare e di ricerca. In altre parole, cercheremo di proporre anziché un unico commento, un “contrappunto” a due voci: le voci delle due discipline, in primo luogo, ma anche le due voci degli autori che, partiti entrambi da una comune formazione antropologica, si sono ben presto avventurati nella “selva oscura” dei territori di confine dell’interdisciplinarietà: l’antropologia storica, la storia culturale, l’antropologia della letteratura, la scrittura e la memoria.
Note e discussioni, dunque, per definire meglio l’andamento dialogico della riflessione, ma anche perché il convegno romano ha di fatto riportato all’attenzione alcuni dei temi ricorrenti della complessa relazione fra le diverse scienze umane, ricordando a storici, antropologi, etnologi e “annalisti” le radici comuni e i percorsi che hanno portato alla nascita dell’antropologia e dell’etnografia come discipline diverse dalla storia, che pure le aveva partorite.
Sempre Evans-Pritchard, nel testo già citato, continuava la sua riflessione affermando che “la storia non è una successione di avvenimenti, bensì è il nesso che li lega gli uni agli altri”[iv] e che di fatto storia e antropologia sono legate dal filo indissolubile della comparazione[v], attraverso la quale è ipotizzabile stabilire continuità, discontinuità, tipologie, categorie e strutture che a prima vista possono sembrare distanti, separate dal tempo o dallo spazio. Poiché l’antropologo, continua lo studioso inglese, si basa sull’osservazione diretta solo “in veste di etnografo” mentre per la sua riflessione sulla natura della cultura umana deve necessariamente vestire i panni dello storico ed usare i suoi metodi e i suoi strumenti d’indagine. Persino Lévi Strauss, il padre dello strutturalismo francese, esortava les ethnologues a non allontanarsi troppo dalla storia, ad avventurarsi in archivio, perché chi ignora la storia si condanna di fatto all’ignoranza del presente[vi].
Sia Evans-Pritchard che Lévi-Strauss furono grandi etnografi, prima di essere grandi antropologi ed entrambi poterono osservare i frutti della Nouvelle Histoire svilupparsi e crescere nella nuova generazione degli annalistes. Allo stesso tempo, tuttavia, l’antropologia sembrava discostarsi sempre di più dalla storia, alla ricerca di un’alterità distante ed “esotica”, ricusando la diacronicità della storia in favore di una sincronia radicale, nel cosiddetto “presente etnografico”, rinchiudendosi in quella che Fabio Dei, in sede di convegno, ha definito “la mistica della partecipazione”.
Lo storico si dedica dunque all’archivio secondo una concezione del tempo diacronica, “aperta da due lati”, un tempo flessibile, elastico e che può spaziare dall’infinitamente piccolo della microstoria all’infinitamente grande della storia événementielle, un orizzonte temporale così ampio da poter comprendere ogni punto di vista; l’antropologo invece, sul campo lontano da casa, in un eterno presente, raccogliendo indizi a partire dall’osservazione diretta insegue la sincronia assoluta (il tempo centrato sul ricercatore, il tempo dell’osservazione) che lo storico non potrà mai sperimentare. Così numerose le dicotomie – orale/scritto, presente/passato, sincronia/diacronia per citare le più evidenti – che verrebbe da chiedersi il perché di una simile rigidità, di una così netta opposizione, il perché del “pregiudizio antistorico” di cui parlava Evans-Pritchard. D’altra parte gli storici fanno notare, con cognizione di causa, che gli antropologi (o etnologi che dir si voglia) non fanno altro che registrare dati effimeri, costruendo interpretazioni senza fondamenta, di non contestualizzare il loro campo nel più ampio continuum del tempo che lo ha plasmato.
Gli antropologi introducono la frammentazione, l’infinitamente piccolo,il molteplice e l’irriducibile nella riflessione sull’uomo e, mentre gli storici si rivolgevano al sociale e al culturale per liberare la disciplina dall’approccio evenemenziale, gli antropologi portavano avanti molteplici riflessioni teoriche[vii], relativizzando, decostruendo, interpretando,tendendo all’universale.
Questi spunti sono emersi con forza dal convegno romano, attraversando come un fil rouge tutti gli interventi e affrontando stessi temi, diversi punti di vista, nuove prospettive, come quella di Pier Paolo Viazzo[viii] che ha presentato un’interessante interpretazione delle divergenze fra le due discipline basata sulla diversa natura del “dato” e del concetto stesso di “tempo”. Eppure Viazzo parla di “antropologia storica” come una prospettiva disciplinare che, forse in sordina, ha accompagnato i percorsi paralleli delle due antenate fin dagli inizi.
Nuova storia, nuova antropologia, nuove prospettive empiriche e nuovi punti di partenza teorici.
Sta di fatto che la storia e l’antropologia hanno ancora molto in comune e, come è emerso dal convegno, sono ancora molto distanti. Se è vero, come affermava Marc Bloch, che lo storico insegue l’umano “come l’orco della fiaba”[ix] allora l’antropologia, il cui stesso nome ricorda proprio l’umanità, cosa insegue esattamente? Non sono forse due punti di vista della stessa “materia”, della stessa sostanza: l’uomo?
Questa domanda è una domanda che non ha di fatto ancora trovato una risposta definitiva, una domanda che l’incontro romano ha riportato alla luce, riaprendo il dibattito, ancora una volta. E ogni riflessione porta con sé la differenza e la sua orbita di oralità, scrittura, sincronia, diacronia, tempo, osservazione, fonte. Forse è vero, come ha affermato Viazzo, che nell’ “economia” delle scienze umane gli storici si pongono come “produttori” di sapere (attraverso riferimenti a dati immutabili e dunque “cumulabili”) là dove gli antropologi invece sono più che altro “consumatori” di dati storici, producendo invece una forma di sapere magari effimero, certamente interpretativo, sicuramente non cumulabile ma “partecipato”. Lo storico e l’antropologo devono fare ricorso a due diversi tipi di immaginazione: l’uno a partire dai dati, frammentari, differenti per tipologia e punto di vista, deve ricostruire l’insieme, immaginandolo ex-novo; l’altro invece è immerso nel contesto, ha tutti i dati di cui ha bisogno, ma deve poter immaginare per mettersi “nei panni dell’altro” e portare avanti un’osservazione partecipante.
Queste divergenze che oggi vengono poste a definire specificità e confini disciplinari sembrano paradossali se si riflette ‑ proprio in prospettiva storica ‑ sull’origine più arcaica di entrambe le discipline ovvero l’insaziabile curiosità di un grande viaggiatore, che decise di mettere per iscritto ciò che aveva visto e indagato “affinché le azioni degli uomini non vadano perdute con il tempo”[x]: Erodoto di Alicarnasso.
Alla fine del V sec. a.C., Erodoto scriveva infatti le sue Storie, spinto dal desiderio di conoscere gli usi, i costumi e le grandi imprese dei popoli lontani, ὁι βάρβαροι[xi]. Le celebri Storie, infatti, non sono altro che l’insieme delle cronache dei viaggi e delle ricerche di Erodoto stesso,che scrisse la sua opera sulla base del principio αυ̉̉τόπτης ε̉λθών (“sono andato e ho visto con i miei occhi”), cioè basandosi non sulla ricostruzione delle fonti ma sulla testimonianza diretta, in altre parole sull’osservazione partecipante.
Nella lingua greca antica, infatti, è insito il legame fra “aver visto” e “sapere”: la forma verbale οι̉̃δα (“so”), è uno dei perfetti (tempo che indica un’azione compiuta, conclusa nel passato) del verbo pluritematico ὁράω (vedere) perciò: “ho visto, quindi so”. Inoltre, οι̉̃δα ha una sfumatura di significato diversa da quella del verbo γιγνώσκω (“conosco, prendo conoscenza, ri-conosco”) poiché significa “conoscere per esperienza diretta”; lo stesso termine storia viene dal greco ἱστορία – stessa radice indoeuropea di οι̉̃δα – che significa letteralmente “indagine, ricerca”, ed è solo nel IV secolo a.C. che il termine “storia” inizia a definirsi nella sua accezione moderna, cioè come ricostruzione del passato.
L’interesse per la diversità e la pratica della ricerca diretta, basata sull’esperienza, ha dunque origini molto antiche nel pensiero occidentale e non è prerogativa esclusiva delle scienze antropologiche. Al contrario, la stessa storia – proprio nella figura di Erodoto di Alicarnasso – trova i natali nel viaggio, nell’osservazione diretta (in greco ὄψις , derivazione dello stesso verbo ὁράω, vedere), nel riportare racconti, informazioni (ἀκοή, quello che viene ascoltato, perché narrato da altri), in un’insaziabile curiosità e soprattutto nel desiderio di un resoconto, una narrazione in prosa, delle proprie ricerche (ἱστορίης ἀπόδεξις).
La storia così nasce come resoconto di un’osservazione diretta e in prima persona: Erodoto rivendicava la posizione critica dello ἵστωρ, come colui che ricerca, che conosce, che vede con i suoi occhi e distingue il vero e il verosimile dal falso, quindi che è in grado di selezionare le informazioni e le fonti veridiche attraverso l’esercizio del ragionamento (γνώμη).
Molti secoli più tardi, con la nascita dell’antropologia un simile punto di vista acquisisce lo status di “scienza”, separandosi dalla storia che pure la aveva partorita. L’antropologo divenne lo scienziato dell’ “altro”, opponendosi allo storico per fonti, metodo e teoria, forse dimenticando che il primo a costruire discorsi (λόγοι) sui popoli lontani (ἔθνοι) non furono gli etno-logi, ma bensì il padre della storiografia. Il cerchio si chiude, si torna alla storia. Ed ecco che proprio come introdotto dalla varietà degli interventi del convegno, le carte si confondono, i punti di vista si congiungono in un orizzonte più ampio che, come tutti gli orizzonti, si allontana più ci si avvicina ad esso
Cos’è che dunque unisce antropologia e storia? Quali sono i temi fondamentali sui cui discutere? A partire dalle suggestioni dell’incontro romano, ne abbiamo identificati due. Il tempo, le storie.
Il tempo, l’altrove
Figlia e vittima dell’evoluzionismo, l’antropologia ha sempre avuto un cattivo rapporto col tempo e con la Storia: il suo oggetto di studio, per decenni, è stato la cultura dei “popoli senza storia”. Lontani nello spazio, i “primitivi” erano considerati anche lontani nel tempo, anzi nella scala temporale che conduceva, progressivamente, fino alla borghesia europea del XIX secolo. Gli uomini e le donne che gli etnologi e gli esploratori andavano a trovare sugli altipiani del’Africa centrale, nei deserti australiani o sulle isole del Pacifico, vivevano schiacciati, nei resoconti etnografici, in una contemporaneità che negava qualsiasi profondità storica alla loro cultura e allo stesso tempo erano costretti dentro un passato “osservabile in diretta”. Se, come abbiamo detto, lo storico accede all’alterità temporale attraverso le fonti, l’antropologo, andando lontano, fa esperienza di un tempo che si muove a ritroso o, comunque, di un tempo fermo nel presente. Johannes Fabian, famoso studioso olandese, ha sottolineato proprio la costruzione retorica, tipica dell’etnografia “classica”, per la quale etnografo ed “etnografato” si incontrano in una contemporaneità radicale, in cui ogni azione è registrata da verbi al presente: “i Trobriandesi fanno”, “i Bororo pensano”[xii]. Fabian afferma che esistono due strategie discorsive di cui le scuole antropologiche si sono avvalse per costruire il proprio “altro”, e queste strategie usano differentemente la nozione del tempo: “one is to circunvent the question of coevalness trough the uses of cultural realtivity; the other preempts that question whith the help of a radically taxonomic approach”[xiii]. Riassumendo e semplificando, le scuole britannica e americana hanno impiegato il primo metodo, mentre allo strutturalismo Fabian imputa l’uso del secondo. Il tempo relativizzato prevede la relazione allocronica tra etnografo e oggetto, in cui due storie restano separate da un muro temporale.
The sort of cultural relativism which guided American anthropologists involved in the study of culture at a distance seems to put to a test our global thesis that anthropology has been constructing its object, the Other, by employing various devices of temporal distancing, negating the coeval existence of the object and subject of its discourse.[xiv]
Diversamente il tempo cancellato simula un eterno presente, appiattendo l’ascissa diacronica saussurriana sulla variabile sincronica dello spazio. Il tempo è una forza trascurabile.
For a radical structural anthropology, Time (as Physical Time?) is a mere prerequisite of sign systems; its real existence, if any, must be sought where Lévi-Strauss likes to locate the “real”: in the neutral organization of the human brain being part of nature. Structuralism […] naturalize Time by removing it from the sphere of conscious cultural production[xv]
D’altra parte, come sostiene James Clifford, l’ “autorità etnografica”[xvi] dell’antropologo si basa tutta sul suo “essere stato là”, sul suo viaggio iniziatico e sulla mistica del campo come “osservazione partecipante”, cioè osservazione diretta di una realtà che si dispiega tutta sotto i suoi occhi. In questo senso l’incontro etnografico avviene in uno spazio determinato accuratamente, ma al di fuori del tempo. La storiografia classica, viceversa, percorre l’ascissa diacronica, impossibilitata com’è a stabilire un qualsiasi contatto diretto con il suo oggetto di studio. Essa, semplicemente, non può osservare il suo oggetto nella contemporaneità. Così, dentro i paradigmi forti della modernità, la storiografia viaggia nel tempo, l’antropologia nello spazio, la prima ha a che fare con un altrove cronologico, la seconda con un altrove culturale e geografico. Ma è possibile ancora mantenere questa divisione di ruoli tra le due discipline? Se, con Marc Augé, accettiamo di vivere nella “surmodernità”, non possiamo non considerare una evidente “accelerazione della Storia” e un altrettanto tangibile “restringimento dello spazio”[xvii]: i “primitivi” prendono l’aereo dai loro “altrove” e vengono a lavorare nelle città d’Europa, disegnando nuovi scenari complessi da comprendere e da interpretare, ma anche da gestire in termini socio-culturali e politici. D’altra parte gli eventi storici hanno, oggi, una portata molto più contemporanea, nel senso che il mutamento politico e sociale si manifesta in tempi infinitamente più brevi rispetto al passato e le comunicazioni influenzano, a livello globale, la trasmissione delle idee e delle informazioni. Insomma gli storici hanno a che fare, necessariamente, con le alterità culturali che si vengono ad insinuare nel panorama europeo e che, evidentemente, determineranno nuovi sviluppi sociali e culturali, ma anche demografici, economici e politici.
Gli antropologi devono entrare negli archivi, perché, se vogliono tenere il passo di una complessità sempre più rapida, non possono più utilizzare modelli statici di interpretazione, ma devono collocare la loro osservazione all’interno di una dinamica serrata. Di fatto, le due discipline si trovano a condividere lo stesso, sfuggevole, oggetto di studio.
Se gli antropologi, tradizionalmente, si sono fatti storici dei popoli senza storia[xviii], cercando di ricostruire un passato a partire da una attualità decadente, per cui, come afferma Daniel Fabre[xix], l’incontro etnografico è sempre incontro con gli ultimi di una cultura che va incontro al cambiamento – o persino alla morte – forse è utile recuperare il punto di vista eterodosso e fertile di Ernesto De Martino, che, per tutta la vita si sforzò di fondare una etnologia storicista. Studiare gli uomini fuori dal tempo significa studiarli come si fa con gli animali, con gli insetti: è necessario, per tanto, riconoscere la reale contemporaneità tra l’etnografo e il suo informatore, il loro destino comune, al di là delle differenze. È qui, probabilmente, che si apre lo spazio per una disciplina umanistica nuova, uno studio più generale dell’uomo, per cui l’etnologo e lo storico si ritrovano, necessariamente, a fare i conti con gli stessi soggetti: comprendere l’attualità non può prescindere dalla consapevolezza della stratificazione storico-culturale che l’ha costruita così come la si osserva. Dinanzi alla sfida di “due umanità”, che “stanno l’una di fronte all’altra nello scandalo dell’incomprensione reciproca, nell’estrema indigenza di memorie comuni”, l’incontro etnografico deve imporsi come “duplice tematizzazione della storia propria e della storia aliena […] condotta nel proposito di raggiungere quel fondo universalmente umano in cui il proprio e l’alieno sono sorpresi come due possibilità storiche di essere uomo”[xx]. Si tratta, di fatto, di un incontro di temporalità, che inaugura, però una Storia nuova, nella quale dialogano le storie.
Storia, storie, discorsi
In sintesi, forse fin troppo estrema, qual è l’oggetto delle due discipline? O, per dirla con Ricoeur, qual è il loro referente? L’antropologia, nel travagliato processo di autonomizzazione del suo “campo” (secondo la definizione di “campo” elaborata da Pierre Bourdieu[xxi]) e del suo metodo di lettura, ha dovuto differenziarsi da due tradizioni distinte, ma entrambe antichissime e forti: la letteratura e la storiografia. Entrambe, da sempre, si fondano sulla “presenza dell’assente, paradosso comune all’immaginazione dell’irreale e alla memoria dell’anteriore”[xxii]. Così l’esigenza degli antropologi era quella di concentrarsi sul presente e di farlo in maniera scientifica, basandosi sull’osservazione diretta dei dati. La rivoluzione epistemologica dell’interpretativismo, però, ci ha convinto che il tentativo è riuscito soltanto in parte. Sul campo, l’etnografo raccoglie storie e quando torna a casa racconta storie intorno al campo. L’antropologo ha a che fare con rappresentazioni del mondo, ma che cos’è una rappresentazione: “è la stessa cosa riproposta ancora una volta? Oppure è cosa completamente diversa […]? È una ricostruzione?”[xxiii]. Il problema riguarda, da vicino, anche lo storico, se solo si pensa al contributo di Ginzburg [xxiv]o pure alle conclusioni più estreme di White[xxv], che ha accettato, ormai da anni, la “testimonianza” come fonte. Nella aporia circa i rapporti tra il fatto e la rappresentazione, “la testimonianza introduce una dimensione di linguaggio, […] la parola del testimone che riferisce ciò che ha visto e chiede di essere creduto”[xxvi]. Sia gli storici che gli antropologi hanno a che fare con racconti di fatti. Il che non riduce il fatto all’imponderabile, ma ci avverte che esiste un livello retorico e narrativo di quella realtà da considerare. Essere consapevoli che non si può attingere direttamente a quello che è accaduto nel passato, come non si può comprendere in maniera assoluta e totale una cultura, ci rende capaci di maneggiare e controllare il livello di costruzione del nostro comune oggetto di studio: le storie che gli uomini e le donne (si) raccontano sul mondo e sul proprio essere nel mondo.
Non solo: storici e antropologi, si sa, scrivono. In qualche modo, cioè, a loro volta producono delle narrazioni, che parafrasando Clifford Geertz[xxvii], possiamo considerare delle narrazioni di secondo grado le quali, inoltre, utilizzano la tecnologia della scrittura, le sue regole. Sia l’etnografia che la storiografia si possono considerare due forme di “scrittura dell’altro”, in un senso comprensibile con l’aiuto di De Certeau. Per il gesuita, che riflette sulla storiografia, ma con argomenti che possiamo accettare completamente anche per l’etnografia, i testi prodotti dagli storici (come quelli degli etnografi) “hanno la duplice caratteristica di unire una semantizzazione (l’edificazione di un sistema di senso) a una selezione (questo smistamento ha il suo principio nel luogo in cui un presente si separa da un passato), e di organizzare una intellegibilità con una normatività”[xxviii]. Si tratta di un sistema narrativo “misto” che, grazie alla scrittura, narrativizza gli eventi, cioè li dispone su un sintagma cronologico ma allo stesso tempo li inserisce in una struttura di senso preordinata. Una narrazione interpretativa, che rende comprensibili i fatti riconducendoli ad una regola. In questo senso, la scrittura costruisce un “sapere dell’altro”, dell’altro compreso dentro al proprio discorso, un discorso dotato del “potere di dire quello che l’altro significa senza saperlo”[xxix].
Il quadro rappresentato finora mostra una convergenza forte tra le due discipline, che pure restano, giustamente, distinte. Si tratta forse, in conclusione, di ponderare le loro specificità. Se, decostruendo, possiamo sorprendere, oggi, numerose analogie tra l’oggetto e persino il metodo della storia e quello dell’antropologia, è necessario sottolineare che esse si sono costituite, nei secoli, come “unità discorsive” distinte. “Un’unità discorsiva”, nelle parole di Carla Pasquinelli che spiega il pensiero di Michel Foucault, “è formata da un oggetto, alcuni concetti e un metodo, che costituiscono un insieme coerente cui si dà il nome di disciplina nel momento in cui viene riconosciuta e istituzionalizzata come un nuovo campo di sapere, da insegnare nelle scuole o nelle università”. Ma come si forma una nuova unità discorsiva? Come nasce una disciplina? “Le discipline non creano i loro campi di significato, esse legittimano soltanto una particolare organizzazione di significati. Filtrano e ordinano (e in questo senso disciplinano) discorsi che spesso le anticipano”.
Al pari delle altre discipline, l’antropologia ha ereditato una serie eterogenea di discorsi che precedevano la sua formalizzazione. Dove per discorso si intendono quelle pratiche discorsive che emergono all’improvviso e si materializzano all’interno del tessuto sociale a partire da esperienze quotidiane regolate da procedure di controllo, di appropriazione, di mediazione e di esclusione. E che, una volta costituite, diventano molto potenti, poiché i discorsi sono fatti di parole. E le parole rappresentano il mondo, cosicché noi vediamo quello che le parole descrivono[xxx].
Se si guarda all’ “archeologia del sapere”[xxxi], dunque, non si può non riconoscere l’inevitabilità di una macro-distinzione tra una disciplina che si occupa del passato e una disciplina che si occupa di quella cosa difficilmente definibile che è la “cultura”. Nel tempo si sono elaborati strumenti analitici ed interpretativi diversi, ma soprattutto si sono creati due linguaggi specialistici; il riferimento qui è a Wittgenstein, per il quale mondo e linguaggio arrivano a coincidere[xxxii], non è una questione di fonti differenti, né di diverso spessore teorico: storia e antropologia parlano due lingue diverse, quindi rappresentano diversamente la medesima realtà che entrambi osservano. Un saggio di storia e un saggio di antropologia possono avere molto in comune, possono perfino citare le stesse fonti, mobilitare le stesse testimonianze (si pensi solo al lavoro di Contini[xxxiii] e di Clemente e Dei[xxxiv] su Civitella in Val di Chiana), ma restano riconoscibili per la loro “struttura compositiva”, come la chiama Fabio Dei[xxxv] intendendo la “cornice di senso di un testo, al cui livello si definiscono i rapporti tra autore, lettore e oggetto o materia narrativa”: si tratta, dunque di due “generi” diversi, di fronte al quale anche il lettore si aspetta di trovare informazioni, interpretazioni, stili diversi, proprio per vai delle diverse tradizioni disciplinari a cui essi fanno riferimento. Potrebbe sembrare una conclusione tautologica, ma nella fluidità post-moderna ristabilire i confini può essere un vantaggio: non perché le discipline debbano chiudersi nelle loro sicurezze, anzi è auspicabile che si aprano e che dialoghino il più possibile per aiutarsi vicendevolmente a capire la realtà sfuggente che abbiamo tutti sotto gli occhi. Capire da dove si parte e con quale bagaglio è sempre, tuttavia, un buon inizio.
[i] Abbiamo scelto di costruire le nostre “note” come un dialogo fra le nostre due “voci”. Oltre al lavoro congiunto di dialogo e di contenuto, nella stesura del testo il primo paragrafo (Orizzonti confusi) è a cura di Caterina Giannottu, mentre la seconda parte ( Il tempo, l’altrove e Storia, storie, discorsi) è a cura di Francesco Della Costa.
[ii]La diffusione e la critica legata all’intervento di Evans-Pritchard che la conferenza è ormai nota alla disciplina come “The Marett Lecture”.
[iii] Edward E. Evans-Pritchard, Introduzione all’antropologia sociale, Bari, Laterza, 1972, p. 163.
[iv] Edward E. Evans-Pritchard, Introduzione all’antropologia sociale, cit., p. 167.
[v] Sebbene secondo Evans-Pritchard l’antropologia sociale si fondi sull’osservazione partecipante, egli riconosce che nell’intraprendere studi comparativi, l’antropologo debba basarsi sui documenti “non diversamente da uno storico”. Introduzione all’antropologia sociale, cit., p. 170.
[vi] C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1966, pp.16-17.
[vii] l’afflato positivistico della teorizzazione a cui gli storici sembrano essere immuni, forse per una tradizione di studi più lunga o forse perché effettivamente assorbita da altri problemi, o forse perché consapevoli di essere una “scienza dell’umano” hanno gestito in modo più consapevole e più moderato il desiderio di “universalizzare”.
[viii] Pier Paolo Viazzo, antropologo, è docente presso l’Università di Torino ed è autore di un interessante rilettura della storia degli studi antropologici in chiave storica. La posizione di Viazzo è infatti sostenere la specificità dell’antropologia storica, come percorso di interpretazione del passato e come disciplina sviluppatasi in concomitanza con l’antropologia sociale e l’etnografia. A questo proposito cfr. Pier Paolo Viazzo, Introduzione all’antropologia storica, Roma-Bari, Laterza, 2004.
[ix] Marc Bloch, Apologia della storia o il mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1966, p. 41.
[x] Erodoto di Alicarnasso, Storie, a cura di Aristide Colonna e Fiorenza Bevilacqua, Torino, UTET, 2006, vol. I, p. 59.
[xi] Tutte le traduzioni dei termini greci sono tratte dal Vocabolario greco –italiano a cura di Lorenzo Rocci.
[xii] Johannes Fabian, Time and the Other. How Anthropology makes its object, Columbia University Press, New York, 1983.
[xiii]Johannes Fabian, Time and the Other,cit., p.38.
[xiv]Johannes Fabian, Time and the Other,cit., p. 50.
[xv]Johannes Fabian, Time and the Other,cit., p.57.
[xvi]James Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel XX secolo, Torino, Bollati Boringhieri,
2004
[xvii] Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p.49
[xviii] Marc Augé, Rovine e macerie, cit., p. 14.
[xix] Daniel Fabre, Chinoiserie des Lumières. Variations sur l’individu-monde, in « L’Homme », 185-186, 2008, pp. 269-300.
[xx] Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini, Torino, Einaudi, 2002, p. 391.
[xxi] Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Milano, Il Saggiatore, 2005.
[xxii] Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Il Mulino, Bologna, 2004, p.9.
[xxiii] Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, cit. p. 13.
[xxiv] Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Feltrinelli, Milano, 2006.
[xxv] Hayden White, Metahistory. The Historical Imagination of Nineteenth-Century Europe, The Johns Hopkins University Press, Baltimore and London, 1975.
[xxvi] Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. , cit., pp.14-15
[xxvii] Clifford Geertz, Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 24.
[xxviii] Michel De Certeau, La scrittura dell’altro, Milano, Raffaello Cortina, 2005, p. 104.
[xxix] Michel De Certeau, La scrittura dell’altro, cit. p. 105.
[xxx]Carla Pasquinelli e Miguel Mellino, Cultura. Introduzione all’antropologia, Roma, Carocci,2010, p.21.
[xxxi] Michel Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, Milano, BUR,206.
[xxxii] Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Torino, Einaudi, 1998, prop. 5.6, p.88.
[xxxiii] Giovanni Contini, La memoria divisa, Milano, Rizzoli, 1997.
[xxxiv] Pietro Clemente e Fabio Dei, Poetiche e politiche del ricordo. Memoria pubblica delle stragoi nazifasciste in Toscana, Roma, Carocci, 2005.
[xxxv]Fabio Dei, La libertà di inventare i fatti: antropologia, storia, letteratura, “Il gallo silvestre”, 13 (2000), pp. 180-196.