Dal marketing della fame ai prodotti della memoria: il ruolo di Carosello.

  1. La memoria della fame

Agli albori del marketing televisivo, Carosello diviene immediatamente uno strumento importante che mette in comunicazione il sistema produttivo in rapido sviluppo e i bisogni (reali o latenti) dei consumatori italiani.

Dopo la Seconda guerra mondiale, l’immaginario della fame prende il centro della scena trasformandosi in uno straordinario volano che concorre al cambiamento delle abitudini di consumo alimentare; o meglio, al rafforzamento e al miglioramento della dieta degli italiani. Consumare di più, e soprattutto consumare in gran quantità quegli alimenti una volta riservati solo a particolari momenti di festa, diventa così la parola d’ordine che ispira il comportamento dei consumatori, anche dei ceti popolari meno abbienti che sino a quel momento avevano dovuto consumare con morigeratezza a causa delle loro modeste condizioni economiche.

Non solo. Il mito della modernità fa la propria irruzione anche nel consumo alimentare. Col tempo, forse con una lentezza maggiore di quanto non testimoni il trend macroeconomico, il consumatore italiano è sempre più attratto dai “nuovi” prodotti dell’industria agroalimentare. Prodotti nuovi, che rompono i legami con i cibi e i rituali gastronomici della tradizione e che attestano l’inevitabile affermazione di una modernità visibile sia nella diffusione di beni di consumo durevoli – anch’essi sostanzialmente “nuovissimi” – sia nella progressiva sostituzione degli alimenti diremmo oggi a “chilometro zero”, con quelli provenienti invece dal ciclo di produzione industriale.

In breve, però, il sistema produttivo inizia a realizzare il sempre più profondo spaesamento del consumatore, privato dei propri naturali punti di riferimento gastronomici. Si tratta di una “memoria recisa”, che finisce – insieme al crescere dei ritmi frenetici della vita urbana e dell’attività lavorativa – per riflettersi negativamente sulla sua identità, suscitando dubbi sui valori consumistici ed edonistici che accompagnano la diffusione del benessere materiale.

Già negli anni Settanta, però, quando gli effetti materiali del boom economico si sono diffusi nell’intero paese, il marketing dei prodotti alimentari cambia i propri codici comunicativi. Da una parte, con la proposizione di un passato rassicurante pronto a farsi cornice di cibi industriali presentati come preparazioni del passato, che generano nostalgia affettiva e colmano le instabilità identitarie. Preparazioni del passato, che, più di ogni altro elemento della tradizione, diventano fattori di ricostruzione di memoria[1]. Dall’altra, con l’introduzione nella fiction pubblicitaria del tema del Medioevo, che, pur nella sua evidentissima invenzione, diverrà un driver efficace per creare un efficace radicamento alla storia dei prodotti che vi sono associati. “Medievalizzazione” del marketing, dunque, come “efficace antidoto al lutto”[2] provocato dalla modernità, che ha disancorato prodotti e preparazioni alimentari dal contesto locale e contadino in cui si erano sviluppati, che, sino a pochi anni prima aveva invece caratterizzato la loro produzione e il loro consumo. Medioevo, che permette di elaborare il lutto e ritrovare identità. Strumento efficace, che punteggia il linguaggio del marketing, ma che diventa anche il motore che permette di “costruire” – (re)inventando tradizioni – un ramificato sistema di sagre e manifestazioni popolari in cui il cibo ha un ruolo centrale.

L’articolo analizza l’evoluzione del fenomeno, che si sovrappone alla ripresa economica postbellica e alla comparsa e allo sviluppo del mezzo televisivo, che assegna a Carosello un ruolo determinante. L’ambito cronologico dell’articolo termina nel 1973, con l’analisi della serie pubblicitaria del Parmigiano-Reggiano ambientata nei castelli medievali delle cinque province di produzione del formaggio[3].

 

  1. Un paese arretrato

Alla fine della Seconda guerra mondiale l’Italia è un paese ancora sostanzialmente arretrato sul piano socio-economico. La struttura industriale è concentrata nel Centro-Nord[4], mentre vaste aree del paese sono ancora prevalentemente agricole. La struttura sociale appare così ancora plasmata sulla tradizionale cultura contadina; circostanza che si riflette sui consumi, estremamente frugali e incentrati per lo più sui beni di prima necessità[5]. Lo stesso sistema distributivo è quanto mai frammentato, ancora arretrato rispetto al modello statunitense e dei paesi europei più avanzati[6]. Ritardi organizzativi che si sommano a quelli del sistema pubblicitario, non ancora investito dalle innovazioni del marketing che si diffonderanno solo negli anni successivi[7].

I ritardi del paese sono amplificati da un dopoguerra difficile, segnato dal razionamento annonario e dalle gravi distruzioni materiali provocate dai combattimenti e dai bombardamenti aerei che hanno lesionato le infrastrutture, gli edifici industriali e il patrimonio residenziale. L’Italia è un paese sporco, lacero e affamato, mentre i consumi alimentari – in molte regioni e per molti ceti sociali – sono ancora insufficienti.

Verso la metà degli anni Cinquanta alcune emergenze sono state superate, ma l’Italia ha ancora un basso tenore medio di vita: nel 1951 solo il 7% delle abitazioni possiede la combinazione di elettricità, acqua potabile e servizi igienici. Ma, soprattutto, continua a essere un paese rurale: nello stesso anno, il 42% della popolazione è occupato in agricoltura, con punte che nel Mezzogiorno toccano il 57%[8]. L’analfabetismo è una vera e propria emergenza nazionale: il 30% della popolazione non possiede nessun titolo di studio, il 59% dispone della sola licenza elementare, mentre solo il 6% ha conseguito il diploma di scuola media[9]. La scarsa modernità del paese è testimoniata dal radicamento di valori e comportamenti tradizionali, influenzati sia dalla Chiesa cattolica sia dai partiti politici di massa, che conquistano un ruolo centrale nell’Italia del dopoguerra[10] facendosi trasversalmente interpreti di valori “tradizionalisti”[11].

L’inizio delle trasmissioni televisive, nel gennaio 1954, offre un contributo importante alla modernizzazione del paese. Si tratta, infatti, di una svolta significativa, che celebra il battesimo di uno strumento mediatico che si introdurrà con autorevolezza nelle case delle famiglie italiane stravolgendo ritmi, abitudini e norme relazionali[12]. Accanto alla comparsa della TV registriamo un’innovazione altrettanto importante: l’inizio della messa in onda di Carosello, primo programma specifico di pubblicità televisiva (in Italia non vi è il divieto, come in altri paesi, di svolgere pubblicità commerciale nella televisione di Stato[13]), che si caratterizza per il format particolare e accattivante. Carosello ha una durata di una decina di minuti e viene trasmesso sull’unica rete pubblica al termine del Telegiornale serale delle 20:30. La sigla[14] (un blend di marcetta e tarantella, rielaborazione di un motivo classico della musica napoletana[15]) fa da cornice introduttiva a una serie di quattro-cinque brevi spettacoli (all’incirca due minuti), seguiti ciascuno da uno spot che pubblicizza il prodotto.

Il format – che appare di una lentezza esasperante all’occhio odierno, abituato a spot brevi e incalzanti! – separa nettamente la parte dello spettacolo dal messaggio pubblicitario. Nessun riferimento ai prodotti può essere infatti inserito all’interno dello spettacolo, che non possono così essere utilizzati per suscitare emozioni nel consumatore. Solo nel “codino” possono essere presentati, creando tuttavia una profonda cesura logica nella mente dei telespettatori, in pochi secondi proiettati dal ruolo di spettatori a quello di consumatori.

Carosello, tuttavia, è molto di più di un semplice strumento pubblicitario. Si potrebbe anzi dire che è un pionieristico strumento di marketing emozionale. Facendo leva sul sentimento di emulazione, esso propone al consumatore modelli di comportamento e di consumo intorno ai quali costruire la propria identità individuale e sociale[16]. Un’identità che prende quale punto di paragone la vita domestica della borghesia urbana, serena e benestante , pronta a sperimentare nuovi consumi per cementare la propria irenica felicità. Carosello appare dunque un’interfaccia tra produttore e consumatore, per orientare i consumi, ma soprattutto per educare gli italiani al sistema di consumi generato dal boom economico.

Per trasformare la frugalità del mondo contadino sono necessari strumenti efficaci, capaci di recidere i fili di consuetudini stratificate e ideare un “nuovo racconto” sociale intorno cui catalizzare le spinte al cambiamento. Per raggiungere questo obiettivo, la trasmissione propone modelli di vita cui gli italiani guardano con invidia e spirito di emulazione, sedotti[17] dal fascino di una vita urbana proposta come fattore di distinzione sociale[18], in cui si muovono famiglie felici, mogli con abiti eleganti e mani curate e bambini gioiosi che animano il ménage domestico.

Carosello assume perciò le sembianze di medium televisivo che ha l’ambizione di educare gli italiani al consumo portando nelle loro case la rappresentazione spettacolare del boom. Un vero e proprio reality per “alfabetizzare” i telespettatori al consumo di massa[19]. Reality di un’Italia arrembante, fondata su un sistema di credito al consumo che permette anche ai meno abbienti di acquistare i “beni della modernità”: televisori e frigoriferi che riempiono le case, mentre le strade si affollano di sciami di scooter e automobili[20].

 

  1. Il cibo della memoria: il consumo della tradizione

Molte volte il genere umano, più che prodotti alimentari, consuma simboli, racconti, finzioni. Ognuno di noi, vestendo i panni del consumatore, resta affascinato dal sistema di segni che circonda un determinato prodotto alimentare. Per questo motivo, addentando quel cibo o bevendo quella bevanda, siamo convinti di mordere la storia. Di entrare a far parte di un racconto di castelli medievali, in bianco e nero, gremito di cavalieri e stallieri; tornei, combattimenti e principesse.

Più spesso di quanto si immagini, si diventa così consumatori del passato. Si mangia tradizione consumando memoria. Quella memoria che, altre volte, fa irruzione nel presente prendendo le forme di quella “memoria inconsapevole” che vede nella madeleine di Proust (commentate da Walter Benjamin[21]) il proprio archetipo. Da questo punto di vista i prodotti tipici alimentari sono un osservatorio significativo, poiché, spesso, sono acquistati soprattutto per altri motivi: per soddisfare il desiderio di possedere e offrire ai propri ospiti prodotti fashion, alla moda, eleganti, capaci di dare distinzione.

Il concetto di tipicità fa la sua comparsa già in età preindustriale e, nel corso del tempo, l’acquisto di cibi con le “caratteristiche tipiche” di un terroir[22] diventa un comportamento che conferisce prestigio e distinzione. Sebbene la società, i sistemi di produzione e distribuzione siano profondamente cambiati, questo desiderio svolge ancora oggi un ruolo chiave nel comportamento del consumatore. I prodotti tipici, in altre parole, in quanto beni che conferiscono status, sono diventati veri e propri marker sociali, rappresentando la vera “frontiera” della distinzione sociale.

Essi sono ovviamente consumati per il loro gusto, ma sono anche il frutto di scelte di consumo basate più su motivazioni simboliche che su elementi razionali. In molti casi, i prodotti tipici evocano infatti un’identità culturale acquisibile attraverso il consumo. In altri, sono una componente della food fashion ispirata dai trend setter. In altri casi ancora, i prodotti tipici nella loro versione “industriale” (gli Avatar[23]) permettono alle classi sociali inferiori di imitare i modelli di consumo delle middle-upper classes, dando loro l’illusione di poter consumare beni che vanno al di là delle loro effettive capacità economiche. È questa tipologia di prodotto a tenere insieme la tipicità “autentica” con quella “percepita” permettendo all’industria di muoversi in un ambito produttivo altrimenti riservato alla piccola scala produttiva.

 

  1. Il mito della memoria: il fascino del vintage

Ma perché il consumatore è attratto dai prodotti associati alla tradizione, che non necessariamente sono scelti per motivi razionali? Una prima risposta sta nelle particolarità del genere umano, l’unico dotato di capacità simbolica, circostanza che permette di assegnare ai cibi attributi di gusto e di pregio. In tanti casi è dunque la cultura a discriminare il valore relativo di questo o quell’alimento, a determinare gusti e disgusti. In questo senso, il prodotto è sempre l’esito di un processo di attribuzione di significati, che coinvolge fattori razionali, emozionali e simbolici[24].

Spostandoci sul versante del marketing, dobbiamo considerare la qualità non solo come semplice somma di attributi intrinseci del prodotto, ma come risultante di un processo di costruzione di significati, i quali, fondendosi all’interno del prodotto tipico, diventano gli strumenti che danno capacità narrativa alla memoria[25].

La storia e la cultura di un territorio rappresentano, perciò, l’elemento cardine di valorizzazione della tipicità considerando peraltro che il calo di reputazione di un territorio si rifletterebbe negativamente sulle vendite del prodotto che vi ha associato il proprio nome[26]. La relazione tra reputazione del territorio e del prodotto è riscontrabile sin dall’età tardomedievale, attribuendo alla reputazione territoriale la qualità di bene collettivo dell’intero sistema produttivo locale. In termini economici, si tratta di una vera e propria economia esterna[27]. Ma il vero architrave della costruzione di senso che circonda la tipicità è rappresentato dalla presunzione che il prodotto tipico “appartenga” da sempre a un territorio, continuando a essere realizzato secondo consuetudini tramandate di generazione in generazione, utilizzando saperi, metodi e pratiche secolari.

Va tuttavia osservato che le caratteristiche culturali del cibo affondano le proprie radici in un contesto di pratiche, relazioni e significati sociali condivisi, sottoposti a continua trasformazione. La questione rinvia quindi al tema della memoria, termine per lo più associato alla tradizione. Nondimeno, come è stato argomentato, la tradizione non può essere considerata un corpus codificato, ma piuttosto un bacino di riferimento in movimento. Le identità alimentari possono infatti essere considerate un “prodotto della storia” solo parzialmente riconducibile a situazioni ambientali e geografiche[28].

 

  1. Costruire la tradizione: un percorso mitologico

Il prodotto tipico viene offerto al consumatore come prodotto della tradizione. Tutti i suoi elementi evocano la tradizione – le immagini, i colori, i simboli, il nome, la confezione, la pubblicità – associandosi ai luoghi magici dell’infanzia e a un tempo ancora più lontano. Un’età dell’oro punteggiata da una cultura contadina gioiosa e serena, posta a salvaguardia del rassicurante equilibrio tra uomo e natura; della naturale solidarietà comunitaria dei ceti subalterni.

Basterebbe questo per comprendere l’“attrazione fatale” del consumatore per i prodotti tipici. Prodotti ancorati al passato, molto spesso “modificati” dall’evoluzione tecnica, ma sempre percepiti come “fedeli” alla tradizione, proiettati nel presente con questo pedigree grazie alla comunicazione del marketing[29]. Da questo punto di vista la tradizione ha perciò un carattere auto-esplicativo: essa è tutto ciò che ha radici nel passato proponendosi dunque come baluardo di garanzia di un’autenticità che va ben oltre il prodotto: esserle fedele implica la conservazione, la difesa e la riproduzione di ciò che nel passato è stato fatto e sperimentato. Significa opporsi alle degenerazioni del presente – di qualsiasi presente – che si è invece allontanato, con il tradimento, dai valori positivi di un tempo[30].

Si tratta evidentemente di un’operazione mitologica. L’evoluzione sociale ed economica ha modificato in profondità ogni aspetto della vita umana. Sono cambiate le condizioni ambientali e produttive; le coltivazioni e le razze animali sono state ibridate e selezionate; le tecniche hanno subito cambiamenti profondi migliorando la qualità dei prodotti; i consumi e gli stili di vita sono molto diversi dal passato. Al tempo stesso, si è assistito al cambiamento radicale del gusto, circostanza che ha imposto il ripensamento degli equilibri gustativi di cibi e bevande. La miscela di elementi del passato, che rappresentano la tradizione dei prodotti tipici, nei fatti quindi non esiste più. Può solo essere evocata e utilizzata come ancoraggio simbolico.

Eppure, il prodotto tipico rinvia al mito di un’origine che rappresenta garanzia di qualità. In questo modo, esso assume la simbologia del luogo che lo ha originato, o nel quale il racconto mitologico fissa le sue origini. Luogo originario, cioè il terroir; termine che sintetizza una serie di attributi intangibili legati alla storia: saperi, tradizioni, abitudini, pratiche, che danno valore al prodotto[31]. L’ancoraggio a un territorio specifico è un elemento costitutivo dell’identità del prodotto tipico, che ha un’origine spaziale e trae larga parte delle sue qualità da una serie di saperi e pratiche tramandata da secoli, il cui perpetuarsi è garanzia di autenticità.

Il richiamo all’autenticità e ai valori della tradizione agisce ovviamente come protezione contro l’insicurezza (e l’anonimato) del cibo industriale, privo di un luogo originario e avvolto quindi nel “mistero della trasformazione”[32]. Il prodotto tipico introduce all’interno della produzione industriale moderna riferimenti a valori comunitari e di vicinanza alla natura; elementi che rassicurano i consumatori e ne orientano le scelte di consumo. Sulla coppia tradizione/memoria si costruisce la fortuna del prodotto tipico e s’innesta il robusto riferimento a una natura incontaminata che precede l’avvento dell’industria. In questo modo, si costruisce il racconto per i consumatori, persuasi che la tradizione garantisca autenticità e naturalezza; assolutamente certi che il prodotto tipico incarni tutte queste virtù.

La memoria diventa così una chiave che attualizza il passato: il tempo antico viene reso più vicino attraverso l’esercizio della memoria. Per essere efficaci servono però le immagini giuste per evocare il tempo lontano: un castello, antichi costumi, un’aia popolata da animali da cortile, il lavoro dei campi, la falciatura manuale del grano, un grande tavolo attorno cui pranzare in compagnia, una pietanza preparata secondo antichi “savoir-faire”. È questo ancoraggio al mito del passato che conferisce senso e valore al prodotto tipico, il quale è aggrappato a una tradizione inventata[33] che ne rafforza l’identità e permette di conquistare vantaggio competitivo sui mercati.

 

  1. La medievalizzazione del marketing

Il Parmigiano-Reggiano rappresenta un case-study significativo per misurare come – proprio quando gli effetti “consumistici” del boom economico diventano evidenti in quasi tutto il paese – si faccia strada la necessità di riallacciare simbolicamente i legami con un passato mitico, che viene abbinato a qualche elemento di veridicità. Il formaggio Parmigiano può vantare i propri “quarti di nobiltà” che affondano nella lunga tradizione di un formaggio apprezzato dall’aristocrazia europea già nel tardo Medioevo. È un formaggio invecchiato e quindi poteva sopportare i lunghi tempi di trasporto dell’età preindustriale, facendosi apprezzare per le sue qualità gustative anche da acquirenti molto distanti dai luoghi di produzione[34].

Nel corso di ’7 e ’800 il formaggio grana di Parma conosce numerose traversie anche a causa dell’aumentata concorrenza di altri prodotti simili: il granone di Lodi, il grana Milanese, Piacentino, ecc. Anzi, occorre sottolineare come per tutto il XIX secolo il formaggio grana disponibile sul mercato interno e internazionale (ne sono testimonianza i prodotti presentati alle Esposizioni Universali[35]) non provenga affatto dalle province parmensi e reggiane, bensì dalla Bassa Lombardia. È solo sul finire del XIX secolo (e ancor più all’inizio del XX) che i produttori di Reggio Emilia e Parma ricominciano a produrre formaggi di qualità, grazie all’utilizzo dei siero-innesti e di tecniche casearie innovative e tecnologicamente più avanzate[36].

I cambiamenti verificatisi dopo la Seconda guerra mondiale sono molto rilevanti e incidono sulle caratteristiche gustative del prodotto. In primo luogo, vi è la sostituzione delle razze bovine autoctone (la vacca rossa[37]) con la più produttiva vacca frisona, che produce però un latte di qualità differente, circostanza che si riflette sul parallelo mutamento del gusto del formaggio realizzato, diverso da quello della “tradizione”. L’enorme successo del prodotto sul mercato nazionale aveva però messo alla frusta il potenziale produttivo del sistema del Parmigiano, che, nel 1937, aveva raggiunto la sua attuale forma geografica (comprendente le province di Parma, Reggio Emilia, Modena e una parte di quelle di Mantova e Bologna), ma la cui capacità produttiva non era in grado di soddisfare il potenziale aumento di domanda del prodotto. La soluzione adottata dal Consorzio è di abolire la distinzione tra il formaggio prodotto con foraggi freschi (maggengo) e fienagioni secche (vernengo), permettendo di mettere entrambi in commercio con lo stesso nome. Soluzione che crea confusione tra i consumatori e finisce per omogeneizzare il gusto, ma che ha però l’innegabile vantaggio di concorrere alla standardizzazione del prodotto, facilitata anche dall’introduzione della dimensione standard della forma, che riduce le differenze di gusto tra i differenti prodotti. In questo modo – tra anni Sessanta e Settanta – il formaggio Parmigiano rischia di perdere il proprio vantaggio competitivo, rappresentato dal collegamento alla tradizione e a quel territorio che ne rappresenta l’ancoraggio simbolico. Insidiato da un lato da altri prodotti grana (tra i più celebri quelli che sarebbero stati riconosciuti come Grana Padano e Trentingrana); dall’altro dai prodotti caseari industriali, che affascinano il consumatore per il loro essere legati alla modernità.

Dopo un decennio in cui la pubblicità del prodotto non fa nessun richiamo esplicito al territorio di produzione, né utilizza con efficacia la “lunga storia” del prodotto, vera o inventata che sia[38], il Consorzio del Parmigiano-Reggiano imprime una svolta significativa alla propria comunicazione agli inizi degli anni Settanta. Nel 1971 viene varata la prima campagna incentrata in modo esplicito sulle “virtù” del territorio. È la comparsa del terroir nella pubblicità del prodotto. Si tratta di una discontinuità importante, determinata in primo luogo dalla necessità di accreditare la “reputazione” del prodotto in mercati in costante espansione, sempre più distanti da quello di produzione[39]. Un secondo fattore è rappresentato dal crescente interesse per la “cucina regionale”, che, nel corso degli anni Sessanta, si diffonde nel nostro paese combinandosi con l’aumento dei flussi turistici interni e della motorizzazione di massa. Un bacino di domanda in forte crescita che non può certo essere ignorato[40].

L’impianto comunicativo è semplice, ma al contempo sofisticato (Figura 1): la forma di Parmigiano-Reggiano, già tagliata per mostrare la grana sabbiosa della pasta del formaggio, è adagiata su una pergamena che riproduce la mappa della zona d’origine del prodotto. Pochi elementi, che conferiscono forza comunicativa alla pubblicità, trasmettendo al consumatore il senso di “tradizione” del prodotto e mostrando che non si tratta soltanto di un prodotto alimentare, ma di un’entità sulla quale convergono le virtù migliori di un territorio ricco e prosperoso.

 

Figura 1. Campagna pubblicitaria 1971.

Ancora più espliciti sono i legami con la storia e i territori contenuti nelle cinque pubblicità di Carosello del 1973, ambientate nelle cinque province che compongono il territorio del Consorzio di produzione. In questo caso il richiamo al terroir è esplicito. Terroir su cui converge il richiamo epico al Medioevo dei castelli, issue comunicativa di grande efficacia, in grado di provocare nel consumatore una profonda empatia col prodotto. Nondimeno, la scena incorpora elementi di assoluta contemporaneità, che rendono “moderno” l’impianto comunicativo, mettendolo in condizione di intercettare il desiderio di emulazione del consumatore/spettatore. Due elementi di questa contemporaneità spiccano su tutti gli altri: le automobili e l’abbigliamento.

La sceneggiatura è comune in tutta la serie degli spot: una coppia elegante, giovane ma non giovanissima, a bordo di un’automobile di fascia alta, è alla ricerca di un castello o una villa da visitare, in quello che sembra il pomeriggio di una normale giornata di festa. Si tratta di una coppia giovane, amante dell’arte e dell’architettura, preferite al tradizionale cinema o alla festa tra amici. Una volta arrivata, la coppia è accolta da uno degli attori italiani del teatro classico in quegli anni più famosi: Arnoldo Foà[41]. Avvolto in un mantello scuro (probabilmente nero, ma la televisione di Stato italiana, in questi anni, trasmette ancora in bianco e nero), Foà accoglie i visitatori nelle vesti di castellano ricevendo gli ospiti e dando loro informazioni sulla storia del casato e del castello.

Visitate le sale dell’edificio, e dopo un dettagliato resoconto della storia della famiglia (in cui spiccano sempre una storia d’amore e un fatto d’arme, che rappresentano i due topoi del racconto), lo sketch evolve – come in tutti gli spot di Carosello – verso la pubblicità del prodotto, di cui si esaltano le qualità gustative, ma soprattutto i suoi stretti legami col passato e in particolare con i lunghi secoli della sua tradizione produttiva.

In realtà, la vera forza motrice sul piano comunicativo è costituita dalla prima parte dello sketch, che immerge lo spettatore/consumatore nell’ovattata e nebbiosa atmosfera di un passato mitizzato, in cui la spada del cavaliere si sovrappone al telaio da ricamo della damigella, in impaziente attesa del ritorno del proprio amato davanti al grande ceppo del camino[42]. È quest’atmosfera densa di passato a creare col telespettatore quell’empatia destinata a trasformarsi in propensione all’acquisto. Per molti versi, con questa serie televisiva, il Parmigiano-Reggiano diviene un prodotto “made in history”, che vuole trarre vantaggio competitivo dallo stretto rapporto tra prodotto e passato mitizzato, mediato da ciò che potremmo definire il “racconto suasivo”.

Passato che è però strettamente coniugato a elementi di esplicita modernità. Si è detto del mantello scuro del castellano-Foà. Bisogna allora aggiungere però che, sotto il mantello aperto, si intravede benissimo una Serafino a collo alto aperto, com’erano tanto di moda nei primi anni Settanta, lanciate nel campo del fashion dall’omonimo film del 1968 diretto da Pietro Germi e interpretato da Adriano Celentano. Gli altri elementi ricorrenti dell’abbigliamento dei protagonisti riproducono perfettamente quelle che potrebbero essere le copertine patinate delle più importanti riviste di moda. Non manca quindi l’intero repertorio di trench, cappotti e cappottini della moda d’inizio decennio: montoni col pelo per lui (eleganti, ma sportivi); shearling stile hippie per lei. Ma nemmeno una gonna lunga “pied de poule” e una pelliccia corta per l’interprete femminile degli spot; né un cappotto scuro doppiopetto allacciato con cintura e controspalline o un trench Burberry con patta antipioggia e frangivento per lui. Berretto di tweed per lui; cuffia di lana per lei. Per entrambi, poi, pantaloni a zampa d’elefante, a siglare la vera essenza della moda di questo periodo[43].

L’aggancio con la modernità automobilistica è altrettanto netta e, insieme a quella dell’abbigliamento, è in grado di creare un efficacissimo effetto “trompe l’œil”, che si amalgama e s’impasta perfettamente con l’effetto Black & White dei castelli medievali. Nello sketch ambientato nel castello di Torrechiara (si comincia con la provincia di Parma, sancendo così una gerarchia delle province in cui il prodotto è realizzato, che vedrà comparire in seguito Reggio Emilia, Modena, Mantova e Bologna) il primo piano della camera è sul frontale del muso di una BMW 2002ti, elegante auto dalle elevate prestazioni sportive (2000 cc., doppio carburatore, 120 cv), dal design oggi perduto: 2 porte ma 3 volumi. Si tratta di un’automobile non per tutti: un po’ per il costo, un po’ per la concessione all’esterofilia che rompe il tradizionale provincialismo di acquistare autovetture italiane. Viaggiando verso Reggio Emilia, alla ricerca del Mauriziano, casa natale di Ludovico Ariosto, si ritorna in terra d’Emilia. Nella seconda puntata del viaggio nelle terre del Consorzio, i protagonisti sono alla guida di una FIAT 132, ammiraglia nostrana a 4 porte da poco immessa sul mercato (il primo modello è del 1972), che sostituisce la “gloriosa” 125 ed è prodotta con motori da 1600 e 1800 cc. guardando così al segmento alto del mercato automobilistico. È un auto di classe, destinata – insieme ad alcuni modelli dell’Alfa Romeo – a macchina di rappresentanza anche nella versione “auto blu”.

Con l’arrivo alla rocca di Vignola entra in scena uno dei modelli Fiat più amati tra anni Sessanta e Settanta. Parliamo della 124 Sport Coupé (nella pubblicità viene utilizzata la seconda serie), auto sportiva, intrigante e scattante, che si impone tra gli amanti di questo tipo di autoveicolo. Per arrivare a Gonzaga la coppia di protagonisti fa invece uso di un’automobile francese, una Simca berlina 4 porte 3 volumi (dal filmato non si riesce però a capire se si tratta della versione 1301 o 1501, dati relativi alla cilindrata). Berlina di grandi dimensioni (4 metri e mezzo), che si colloca all’epoca nel segmento medio-alto. Per la fine della serie in terra bolognese – con la visita a Monteveglio e all’omonima abbazia – torna in strada la Fiat 132, a testimoniare dell’ineludibile matrice italiana del Parmigiano, ma anche della volontà di associare il formaggio a uno dei brand più importanti e conosciuti del “made in Italy”.

In una fase di grande cambiamento, in cui si sta ormai perdendo cognizione delle tradizioni, e in cui anche le lucciole sono sempre più restie ad affollare le sere d’estate, questa miscela di “automobilismo medievale” appare senza dubbio di grande efficacia comunicativa e suasiva. Il messaggio lanciato al consumatore è chiarissimo: stai per acquistare un prodotto radicato nella storia millenaria del territorio in cui è lavorato, ma al tempo stesso ti si garantisce che le tecniche utilizzate sono state adattate ai ritrovati più avanzati e moderni della tecnologia. Inoltre, hai davanti a te un prodotto che non sfigurerebbe sulle copertine delle più importanti riviste di moda.

Tradizione millenaria, tecnologia avanzata, moda e distinzione. Una miscela unica, che alberga senza soluzione di continuità nel Parmigiano-Reggiano, che dunque non teme la concorrenza, anche se il suo prezzo è superiore ai prodotti concorrenti. Ma chi è disponibile a pagarlo (corrispondendo un premium price) acquista non solo gusto e qualità, ma anche – e forse soprattutto – storia, prestigio e distinzione.

 

Parole chiave: Prodotti tipici; Invenzione della tradizione; Marketing della memoria; Carosello; Parmigiano-Reggiano.

Keywords: Typical Products; The Invention of Tradition; The Marketing of Memory; Carosello; Parmigiano-Reggiano Cheese.

 

Abstract

After WWII Italy is still backward compared with other countries, both on the social and economic hand. The industry is spread only in the Centre-North, as it was during the first economic development in the XIX-XX century. Many areas of Italy were almost completely rural, as well as the social structure, still distinguished by peasant traditions and frugalities. All this obviously affected consumptions, that were mostly oriented to satisfy basic wants. The retail system was weak, because its fragmentation and its backwardness compared to the US system. Marketing and advertising models were backward too.

The first television broadcast was realized in January 1954 bringing an important innovation. The TV, in fact, became quickly influential and able to bias individual behaviours aa well as social rules. Moreover, the TV introduced another great innovation: Carosello, the first advert program, broadcasted every evening after the news at 8 pm on the only public TV channel. Carosello format, that merged entertainment and advert, teaching Italian people to the emulative consumption of industrial goods, was immediately successfully.

Electrical appliances, clothes, tyres and scooters became the object of desire of the Italian families that were impatient to leave the sad memory of war. But the industrial foodstuffs above all are able to conquer a particular place in the food customs of Italian families.

This paper analyses the evolution of this phenomenon that overlaps to the post-war economic recovery and to the TV spread that gives to Carosello an important role. The chronology of this paper ends in 1973, with the study of the advert series of the Parmigiano-Reggiano cheese, set in the medieval castles of the five provinces where the cheese is made.

[1] M. Niola, Si fa presto a dire cotto. Un antropologo in cucina, il Mulino, Bologna 2009; P. Grimaldi, Cibo e rito. Il gesto e la parola nell’alimentazione tradizionale, Sellerio, Palermo 2012.

[2] Grimaldi, Cibo e rito, cit., p. 28.

[3] Gli spot sono visibili all’ URL: http://www.parmigianoreggiano.it/comunicazione/campagne_ pubblicitarie/spot.aspx.  È da segnalare il refuso nell’indicazione della data, così come può essere desunto dai modelli di automobile utilizzati negli spot.

[4] V. Castronovo, Storia d’Italia, IV-I, Dall’Unità a oggi, La storia economica, Einaudi, Torino 1975; N. Crepax, Storia dell’industria in Italia. Uomini, imprese e prodotti, il Mulino, Bologna 2002; R. Petri, Storia economica d’Italia: dalla grande guerra al miracolo economico, 1918-1963, il Mulino, Bologna 2008.

[5] P. Quirino, I consumi in Italia dall’Unità ad oggi, in Storia dell’economia italiana, III, L’età contemporanea: un paese nuovo, a cura di R. Romano, Einaudi, Torino 1991, pp. 201-249.

[6] E. Scarpellini, Comprare all’americana. Le origini della rivoluzione commerciale in Italia, 1945-1971, il Mulino, Bologna 2001.

[7] S. De Iulio, C. Vinti, «The Americanization of Italian advertising during the 1950s and the 1960s: Mediations, conflicts, and appropriations», in Journal of Historical Research in Marketing, 2 (2009), pp. 270-294.

[8] Inchiesta sulla miseria in Italia. Materiali della Commissione parlamentare, a cura di P. Braghin, Einaudi, Torino 1978.

[9] P. Dorfles, Carosello, il Mulino, Bologna 1998, p. 37.

[10] G. De Luna, Partiti e società negli anni della Ricostruzione, Storia dell’Italia repubblicana, I, La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni Cinquanta, a cura di F. Barbagallo, Einaudi, Torino 1994, pp. 721-779.

[11] S. Bellassai, La morale comunista: pubblico e privato nella rappresentazione del PCI, 1947-1956, Carocci, Roma 2000; M. Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1946-1956), Feltrinelli, Milano 2007.

[12] F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Un secolo di costume, società e politica, Marsilio, Venezia 2003; A. Grasso, Storia della televisione italiana, Garzanti, Milano 2004.

[13] Dorfles, Carosello, cit., p. 14.

[14] Diverse versioni della sigla – che si modifica nel corso degli anni – sono visibili all’URL: http:// www.youtube. com/watch?v = teesLCwpbfo.

[15] L. Ballio, A. Zanacchi, Carosello story, Eri, Torino 1987, p. 14.

[16] F. Gallucci, Marketing emozionale e neuroscienze, Egea, Milano 2011, p. 2.

[17] J. Baudrillard, La società dei consumi (1974), trad. it., il Mulino, Bologna 1976.

[18] P. Bourdieu, La distinzione. Una critica sociale del gusto (1979), trad. it., il Mulino, Bologna 1983.

[19] R. Berman, Pubblicità e cambiamento sociale (1981), trad. it., Franco Angeli, Milano 1990.

[20] G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni Cinquanta e Sessanta, Donzelli, Roma 1996. Più in particolare, sulla diffusione degli elettrodomestici, si veda E. Asquer, La rivoluzione candida. Storia sociale della lavatrice (1945-1970), Carocci, Roma 2007.

[21] W. Benjamin, Per un ritratto di Proust, in Id., Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino 1973.

[22] Sul concetto di terroir si veda Madeleine Ferrière, Terroir: jalons pour l’histoire d’un mot, in Typicality in History. Tradition, Innovation, and Terroir/La typicité dans l’histoire. Tradition, innovation et terroir, eds./dir. G. Ceccarelli, A. Grandi, S. Magagnoli, Peter Lang, Bruxelles 2013.

[23] Sul concetto di Avatar e sulla loro funzione di agente “democratizzante” del lusso si vedano G. Ceccarelli, A. Grandi, S. Magagnoli, The Avatar: An Economic History Paradigm for Typical Products, in Typicality in History, cit., pp. 69-86; A. Grandi, S. Magagnoli, Contrefaçon ou démocratisation du luxe? Les Avatars du Vinaigre Balsamique de Modéne, in, Luxes et internationalisation (XVIe-XIXe siècles), dir. N. Sougy, Editions Alphil-Pressses Universitaires Suisses, Neuchâtel, 2013, pp. 231-247.

[24] S. Magagnoli, Eating tradition. Typical products, distinction and the myth of memory, in corso di stampa.

[25] M. Franchi, The Contents of Typical Food Products: Tradition, Myth, Memory. Some Notes on Nostalgia Marketing, in Typicality in History, cit., pp. 45-68.

[26] Lo ha dimostrato il caso della mozzarella di bufala nella vicenda dei rifiuti campani; cfr. M. Franchi, A. Gualtieri, C. Ziliani, «I comportamenti di consumo di fronte ai rischi alimentari: tra ansia e rimozione. Il caso della mozzarella di bufala campana», in Micro e Macro Marketing, 2 (2009), p. 219-241.

[27] S. Magagnoli, «Reputazione, skill, territorio», in Storia Economica, 2 (2011), pp. 247-274; Id., Les produits typiques: une construction urbaine? Réputation et terroir à partir d’une perspective italienne, in, Les produits de terroir. L’empreinte de la ville, dir. C. Marache, P. Meyzie, Presses Universitaires François-Rabelais de Tour et Presses Universitaires de Rennes, Tours-Rennes 2015, pp. 31-48.

[28] M. Montanari, Il cibo come cultura, Laterza, Roma-Bari 20077.

[29] S. Magagnoli, «L’invenzione “industriale” della tradizione: il cartello dell’Aceto balsamico tradizionale di Modena», in Food and History, 1 (2005), pp. 225-263.

[30] M. Franchi, The Contents of Typical Food Products, cit.

[31] Cfr. nota 22.

[32] Mancanza che viene talvolta superata facendo ricorso al “racconto mitologico”. Si pensi ad esempio al processo di invenzione del luogo originario del prodotto industriale compiuto da Barilla negli anni Settanta con l’introduzione della linea “Mulino bianco”, cui corrisponde la “materializzazione” di un luogo fisico: il Mulino delle Pile (poi diventato bianco) in Val d’Orcia, nei pressi dell’Abbazia di San Galgano.

[33] Nella costruzione di queste proposizioni, così come nella formulazione del modello dell’Avatar indicato in precedenza, è ovviamente esplicito il richiamo a E.J. Hobsbawm, L’invenzione della tradizione (1983), trad. it., Einaudi, Torino 1984.

[34] A. Grandi, G. Ceccarelli, S. Magagnoli, «The “taste” of typicality», in Food and History, 2 (2010), pp. 45-76.

[35] S. Magagnoli, «La globalizzazione del gusto. Esposizioni universali e prodotti alimentari», in Ricerche Storiche, 1-2 (2015), pp. 41-49.

[36] S. Magagnoli, «The Invention of Typicality: Parmigiano-Reggiano Cheese Between Tradition and Industry», in China-USA Business Review, 11 (2015), pp. 545-556.

[37] M. Paterlini, «Rosse e pezzate: la zootecnia dell’Emilia a fine Ottocento», in Storia e documenti, 3 (1990).

[38] L’unico riferimento è il motto utilizzato per oltre un decennio: “Da sette secoli un gran formaggio!”.

[39] E quali siano le difficoltà da affrontare sono analizzate da G. Antonelli, «Volumi di offerta e marketing. Il caso dei prodotti agro-alimentari tipici», in Economia agro-alimentare, 2 (2000).

[40] Tra i principali interpreti di quest’interesse vi è soprattutto il gastronomo-scrittore Luigi Veronelli che, proprio negli anni Sessanta, dà alle stampe un articolato piano di guide regionali all’interno della collana “Guide Veronelli all’Italia piacevole”.

[41] Una biografia del suo impegno teatrale sul sito www.arnoldofoa.it/.

[42] Il richiamo è ovviamente a Fabrizio De Andrè, Fila la lana, 1965.

[43] N. Cobb, «Bell-bottoms back, but the thrill is gone», in The Boston Globe, July 19th, 1993.

  • author's avatar

    By: Stefano Magagnoli

    Stefano Magagnoli è Professore Associato di Storia Economica all’Università di Parma e Chercheur associé del Centre d’Etudes des Mondes Moderne et Contemporaine dell’Università Montaigne-Bordeaux 3. Laureato in Storia contemporanea all’Università di Bologna, ha conseguito il PhD all’Università di Torino, è stato borsista della Fondazione «Luigi Einaudi» e ha svolto attività di specializzazione post dottorale all’Università di Modena e Reggio Emilia. È tra i fondatori di Food Lab, centro di ricerca sulla storia dell’alimentazione dell’Università di Parma e fa parte dell’équipe di ricerca del progetto TERESMA Produits des terroirs, espaces et marchés, hier et aujourd’hui (2016-2020) finanziato dalla Regione Aquitania e localizzato all’Università Montaigne-Bordeaux 3. I suoi studi sono incentrati sull’apporto istituzionale ai processi di sviluppo economico (con particolare riferimento all’attività delle istituzioni locali) e, nell’ultimo decennio, sulla Food History, con particolare riferimento ai temi della tipicità e delle sue forme di comunicazione nell’ambito degli strumenti di marketing.

    Tra le sue pubblicazioni: Typicality in History. Tradition, Innovation, and Terroir, Peter Lang 2013 (dir. con A. Grandi e G. Ceccarelli); Contrefaçon ou démocratisation du luxe? Les Avatars du Vinaigre Balsamique de Modéne (con A. Grandi), in Luxes et internationalisation (XVIe-XIXe siècles), dir. N. Sougy, Editions Alphil-Pressses Universitaires Suisses 2013 ; Les produits typiques: une construction urbaine? Réputation et terroir à partir d’une perspective italienne, in Les produits de terroir. L’empreinte de la ville, dir. C. Marache, P. Meyzie, Presses Universitaires François Rabelais et Presses Universitaires de Rennes 2015; “The Invention of Typicality: Parmigiano-Reggiano Cheese Between Tradition and Industry”, in China-USA Business Review, 11 (2015).

  • author's avatar

  • author's avatar

    See all this author’s posts

Print Friendly, PDF & Email