Roy Jenkins, un inglese alla presidenza della Commissione nell’Europa della crisi tra allargamento e rilancio dell’UEM

 

  1. Introduzione*

La Presidenza della Commissione europea di Roy Jenkins, negli anni che vanno dal 1977 al 1980, si colloca al centro di un tornante della storia europea, oltre che della vita politica britannica.

La Comunità e le sue istituzioni, strette tra la necessità di superare la crisi economica e monetaria mondiale avviatasi nei primi anni settanta – con cui giungevano al termine i “Trenta gloriosi” ‒ e la lunga fase di stallo che ne era seguita, individuavano quale terreno per la ripresa la definizione di nuove politiche e programmi[1].

Ugualmente la Gran Bretagna dopo l’adesione alla Comunità economica europea (1973), ribadita dai risultati del referendum popolare del 1975[2], scontava le difficoltà legate a una difficile ripresa sul piano economico rispetto ai suoi vicini europei. Il nuovo governo laburista guidato da James Callaghan, succeduto al conservatore Heath nelle elezioni del 1975, si trovava così costretto a individuare nuove ricette per far uscire il paese da una situazione contrassegnata dalla stagnazione, dal disavanzo della bilancia dei pagamenti e da un altissimo tasso di disoccupazione; infatti, dopo la crisi della sterlina e il ricorso al prestito del Fondo monetario internazionale, avviava nel 1977 una serie di importanti tagli alla spesa pubblica e a politiche deflazionistiche che aprivano le porte all’“inverno del malcontento” e ponevano fine alla pace sociale degli anni precedenti. Il biennio 1978-’79, come noto, fu caratterizzato dal protagonismo sindacale del Trades union congress (Tuc) e delle grandi categorie, che ottennero una grandissima adesione agli scioperi e fecero piombare il Paese nel caos. Inoltre, la stagnazione economica e l’alto tasso di disoccupazione, che attanagliava la Gran Bretagna dal 1973, indussero entrambi gli schieramenti alla necessità di un reale ripensamento delle proprie strategie, dettato dall’esaurirsi del “riformismo keynesiano”, che avrebbe condotto verso una crescente polarizzazione dello schema politico e al venir meno della consensus politics degli anni postbellici[3].

All’interno di questo scenario si colloca l’ascesa politica di Roy Jenkins alla direzione della Commissione europea. Sin dagli anni cinquanta esponente di primo piano della fazione europeista del Labour Party, la sua elezione a Bruxelles, anche da un punto di vista simbolico, rappresentava il dato politicamente più innovativo non solo per la Comunità ‒ ossia il passaggio da sei a nove stati membri ‒, ma anche per la stessa Gran Bretagna rispetto al risultato del recente referendum che ne aveva sancito la riconversione post-imperiale. Tuttavia, se per Jenkins il ruolo svolto dapprima per l’ingresso del Paese nella Cee e poi nel referendum del 1975 a favore della sua permanenza rappresentarono il trampolino verso la presidenza della Commissione, per la Gran Bretagna apparve evidente sin dall’inizio il ruolo di awkner o reluctant partner che rivestiva rispetto all’Europa comunitaria, che troverà uno sbocco decisivo nel referendum del 2016 sulla Brexit[4].

In particolare, successivamente all’ingresso né l’approccio pragmatico all’Europa di Wilson, né l’atteggiamento di Callaghan permisero al Labour di capitalizzare i risultati del referendum e collegare la Gran Bretagna al rilancio del processo di integrazione avviato da Schmidt e Giscard d’Estaing. Ugualmente la scelta di Callaghan di disancorare la Gran Bretagna dal Sistema monetario europeo non le permise di giocare un ruolo attivo nella Comunità, mentre fu proprio l’inglese Roy Jenkins a rivestire un ruolo da protagonista nell’iniziativa nella prima fase della sua presidenza della Commissione europea[5].

Nel complesso tornante degli anni settanta fu proprio il nuovo Presidente della Commissione a riprendere il dibattito sull’Unione economica e monetaria (Uem) a livello comunitario collocandolo significativamente tra “Le sfide attuali e le possibilità future dell’Europa”[6]. Sin dall’inizio egli collegò però la questione dell’Uem a quella dell’allargamento della Comunità nell’area del Mediterraneo, con l’inserimento dei Paesi appena usciti dalla dittatura quali Grecia, Spagna e Portogallo, individuandoli quali elementi determinanti per un rilancio dell’Europa. Su questa strategia riuscì a far convergere i principali leader europei[7], mentre tentava di ridisegnare un nuovo ruolo da protagonista per la Commissione, dopo la presidenza dal carattere fortemente istituzionale incarnata dal francese François-Xavier Ortoli, che avrebbe trovato piena espressione nella successiva presidenza di Jacques Delors[8].

 

  1. Da Londra a Bruxelles

L’approdo di Roy Jenkins a Bruxelles, se letto attraverso uno sguardo di lungo periodo, rinvia al dibattito che sin dalla costituzione delle prime strutture comunitarie ha diviso il partito laburista britannico sulla scelta di aderirvi o meno, ma più in particolare al ruolo che il Labour ha attribuito sin dal secondo dopoguerra ai processi di integrazione economica e militare dei paesi europei occidentali.

Deputato laburista sin dal 1948 e figura del primo piano del Partito, Jenkins nel corso della sua carriera politica ha ricoperto diverse cariche ministeriali ed è stato vicepresidente del Partito dal 1970 al 1972 durante la presidenza di Harold Wilson, il primo laburista che ha scelto di intraprendere la via dell’Europa. Da questo punto di vista sicuramente la sua esperienza, come sottolineato da Ludlow, ha influenzato le modalità di gestione di un ruolo, quale quello di presidente della Commissione, che sino ad allora era stato prevalentemente tecnico[9]. Tuttavia, il percorso che ha delineato negli anni della sua presidenza, finalizzato a dare nuovo slancio all’Europa comunitaria in anni caratterizzati da una crescente stagnazione economica accompagnata da fenomeni di recessione, e le scelte di natura politica che ha compiuto difficilmente possono definirsi in continuità con la sua precedente esperienza, nonostante l’attenzione che ha sempre rivolto ai temi dell’integrazione e il suo atteggiamento “naturalmente” europeo[10].

Sin dagli anni sessanta, di fronte a un partito che si divideva trasversalmente in occasione della prima richiesta di adesione della Gran Bretagna alla Comunità economica europea, Jenkins si schierò per l’entrata e, insieme a Neild, fu tra i più strenui sostenitori della linea pro-market. Il suo europeismo si caratterizzava per un approccio pragmatico che trovava espressione nella scelta di un aperto sostegno all’Europa, che poggiava sull’analisi dei benefici che l’entrata avrebbe apportato alla Gran Bretagna e alla sua economia, oltre che al Commonwealth, stante la maggiore influenza che avrebbe acquisito nella Comunità. In questo quadro un ruolo importante era giocato dai rapporti e dalle relazioni interne all’Alleanza atlantica che ne sarebbero usciti rafforzati. Da qui discendeva la forte critica alla fazione anti-market del Partito, accusata di essere legata a un “approccio molto conservatore e nazionalistico che si arrende[va] alla sovranità nazionale”. Infatti, per la frangia anti-europeista del Labour ‒ a cui aderivano la corrente di centro-destra, associata a personalità come Douglas Jay e Peter Shore, e la maggioranza della Left, tra cui figuravano sia leader sindacali come John Foot che esponenti di primo piano del laburismo come Barbara Castle, Harold Wilson e Anthony Crossman ‒ la difesa della sovranità nazionale britannica era garanzia essenziale per il mantenimento del suo status internazionale. In questo campo, pertanto, trovavano espressione posizioni sostanzialmente eterogenee: dagli anti-atlantisti, ai ‘Commonwealth idealists’, ai sostenitori di un’economia di stampo dirigista, ma anche quanti erano diffidenti nei confronti di un’organizzazione essenzialmente cattolica e conservatrice, dominata da De Gaulle e Adenauer, e temevano la messa in discussione di elementi qualificanti del programma laburista quali il servizio sociale britannico, la programmazione industriale e regionale.

Dunque, come sottolineato da Ludlow, se ci si limita a un’analisi degli anni che vanno dal 1957 al 1975 l’idea che Jenkins aveva dell’Europa era legata ai risvolti che la Comunità avrebbe avuto sulla Gran Bretagna e sul suo futuro come potenza globale, distante da questo punto di vista dagli ideali dei federalisti continentali[11]. Nei suoi scritti e discorsi, infatti, costante era il richiamo alle nuove possibilità che si sarebbero aperte al Paese nel caso di adesione alla Cee, così come lo stretto connubio tra appartenenza alla Comunità e l’adozione di politiche progressiste nei paesi continentali rappresentava il filo rosso delle sue riflessioni sull’Europa. Inoltre, come ribadì nel 1971 in occasione del dibattito interno al Partito sulla votazione dell’adesione alla Cee nei termini negoziati dai Tory, l’ingresso nel mercato europeo avrebbe stimolato l’ormai fiacca economia britannica. A ciò si sarebbero sommati i benefici effetti politici e psicologici derivanti dal ruolo di contraltare che la Gran Bretagna avrebbe acquisito negli equilibri europei rispetto a Germania e Francia, oltre che sul piano globale laddove un’Europa unita poteva rappresentare a livello commerciale un contrappeso agli Usa e all’Urss e una fonte di aiuto per i Paesi in via di sviluppo. A riguardo, in un articolo pubblicato sul “The Times” nel maggio 1971, sosteneva che

good transitional terms are necessary. So are honourable arrangements for those overseas who are economically dependent upon us. But necessary too is a full appreciation of the wider issues involved and a clear appraisal of the opportunities before us. What this country needs is a little more realistic self-confidence. Without it we face a future of narrowing horizons. With it we can find a new role as rewarding as any in our history[12].

E, come avrà modo di ribadire successivamente, “if Britain reject Europe, she would not have ‘rugged independence’, but merely greater dependence on the Usa”[13].

In questa fase, dunque, Jenkins più che postulare o elaborare un progetto di sviluppo politico della Comunità e delle sue istituzioni, vi individuava uno strumento di stabilizzazione del blocco continentale occidentale[14]. Ben rappresentato nella Labour Committee for Europe ‒ un’organizzazione prevalentemente dominata dall’ala socialdemocratica del Partito laburista ‒, l’europeismo di Jenkins era minoritario nel Partito. Infatti, per lungo tempo il Labour ha subordinato il suo sostegno all’ingresso in Europa alle condizioni fissate dal segretario generale Hugh Gaitskell (Gaitskell conditions) assegnando la priorità al mantenimento della sovranità nazionale e al rapporto con il Commonwealth[15], tanto che ancora nelle elezioni del 1964, in cui si fece strada la nuova leadership di Wilson, nel suo manifesto elettorale continuava a definirsi “the Commonwealth party”[16]. D’altronde, sin dal dopoguerra, i laburisti avevano mostrato una forte reticenza nei confronti dei primi processi di integrazione delle economie europee occidentali. Una posizione che si era tradotta nella scelta del governo Attlee di favorire, in continuità con la teoria dei “tre cerchi” di Churchill, i rapporti con il Commonwealth e la special relationship con gli Stati Uniti rispetto a quelli con l’Europa[17]. Tuttavia, una reale cesura con i progetti europeo-continentali si sarebbe avuta nei primi anni cinquanta con la scelta di non aderire alla Ceca e alle istituzioni nate con i Trattati di Roma (1957). Infatti, il carattere sovranazionale di tali organismi, che strideva fortemente con la tradizionale politica insulare britannica e gli stretti legami con il Commonwealth, si confrontava all’interno del movimento laburista con il dogma connaturato nella sua leadership della “diversità” rispetto ai colleghi continentali. Inoltre, il tradizionale British socialist exceptionalism trovava conferma in questa fase nel successo ottenuto dal governo laburista con l’avvio delle prime riforme finalizzate alla nazionalizzazione di importanti settori, quali l’energia elettrica, la sanità, le ferrovie e le miniere, a cui si associava una nuova concezione del welfare state[18]. Contestualmente cresceva tra le sue fila la diffidenza nei confronti dell’Europa di Schuman, Adenauer e De Gasperi, percepita sempre più come un progetto di stampo conservatore e cattolico. A ciò, tra l’altro, si sommava un senso di superiorità frutto di un retaggio del passato imperiale ‒ ma che a loro tale ancora non appariva ‒ che si traduceva nella “resistenza” ad accettare di veder confinata la Gran Bretagna entro la cornice europea, per utilizzare un’espressione di Bevin. Pertanto, come ha ben sottolineato Milward, mentre i Sei cercavano di sviluppare un mercato comune, la Gran Bretagna tentava ancora di ritornare ai vecchi fasti attraverso il mantenimento della convertibilità della sterlina con il dollaro americano[19].

Questa linea prevalse per tutti gli anni sessanta, tanto che la prima domanda di adesione britannica alla Cee, portata avanti dal 1961 dal primo ministro conservatore Harold Macmillan trovò una forte opposizione nel partito laburista. Lo stesso Wilson, giunto alla guida del Partito nel 1963, ne evidenziò l’incompatibilità con gli ideali laburisti di difesa delle nazionalizzazioni e definì la Comunità nel suo complesso antiplanning e in contraddizione con le politiche di investimento e di localizzazione degli incentivi per l’industria, parte integrante del suo programma. Inoltre, egli riteneva che l’adesione alla Cee avrebbe indebolito il rapporto speciale tra gli Usa e l’Inghilterra, favorendo la Comunità quale principale interlocutore per gli americani nell’ambito dei negoziati per il Gatt[20]. Tuttavia, a partire dal 1967, a fronte del mutare delle condizioni politiche interne ed esterne ‒ in primis le pessime performance dell’Efta ‒, Wilson fu costretto a rivedere la sua posizione e fu proprio il governo da lui presieduto che formulò la seconda domanda di adesione, destinata a infrangersi contro il nuovo veto gaullista. Il cambio di rotta avviato da Wilson venne suggellato dall’avvicendarsi di diverse personalità pro-market nel Gabinetto, in primis lo stesso Roy Jenkins e Anthony Crosland (oltre a Gunter, Hughes, Lord Lonfor e Stewart), che andavano a sostituire nomi notoriamente ostili all’ingresso nella Comunità, come Frank Cousin e Gordon Walker[21]. Ma il seppur timido consenso raggiunto nel Partito sulla domanda di adesione alla Comunità avanzata da Wilson ‒ che come è stato sottolineato era frutto della presa d’atto dell’assenza di una soluzione nazionale ai problemi britannici ‒ venne meno nel momento in cui la sfida europea fu raccolta e portata avanti dai conservatori giunti al governo con Heath nei primi anni settanta[22].

Infatti, la riapertura dei negoziati per l’adesione alla Cee coincideva per il nuovo governo con la scelta di ridisegnare le proprie politiche nazionali, in sintonia con quelle comunitarie, per rispondere ai mutamenti in atto nello scenario continentale e globale. Una valutazione non condivisa dal movimento laburista nel quale tornò a prevalere una spinta fortemente anti-comunitaria in continuità con la tradizionale insularità della sinistra britannica[23]. In particolare, risultò maggioritaria la linea anti-conservativa della Left, che condusse a quella che è stata definita una domestization della questione europea, a sua volta strettamente associata alle riforme dal carattere anti-sindacale promosse dal governo, come nel caso dell’Industrial Relation Act (1971). Un atteggiamento, tra l’altro, ben sintetizzato dallo slogan coniato dagli attivisti contro l’entrata: “If the Tories are in favour of it, if Ted Heath is in favour of it, I am against it”[24].

D’altronde, per molti degli esponenti della sinistra laburista l’adesione alla Comunità significava prender parte a un “club di capitalisti” in cui non era possibile difendere gli interessi della classe lavoratrice. In primo luogo, con l’adozione della Politica agricola comune a loro giudizio si sarebbero abbandonati “120 year old policy of cheap food for this country”[25]. Questo, in una fase di debolezza economica, avrebbe aggiunto un enorme peso alla bilancia dei pagamenti e di conseguenza a una crescita dei prezzi alimentari. In secondo luogo, nel rifiuto dell’Europa un ruolo non marginale aveva la libertà di movimento dei capitali prevista dai Trattati di Roma, che avrebbe potuto limitare la possibilità del governo di utilizzare gli aiuti di Stato per l’industria poiché avrebbe alterato la competizione. Inoltre, l’adesione a un’organizzazione sovrannazionale avrebbe costretto i futuri governi britannici ad adottare politiche economiche, come l’Iva, distanti dai loro programmi. Infine, continuava a rimanere centrale la questione della sovranità del Parlamento inglese, che non doveva essere soggetto alle condizioni economiche imposte dall’ingresso nella Comunità europea, così come alle limitazioni alla sovranità introdotte dalla legge comunitaria.

Queste considerazioni si scontravano con quelle dei sostenitori dell’entrata britannica che ripresero e diedero nuovo vigore nel corso della loro battaglia all’interno del partito agli argomenti che avevano spinto Wilson a chiedere l’adesione: l’assenza di una alternativa all’ingresso nella Cee; l’impossibilità di costruire il socialismo in un solo paese in mancanza di un’economia solida, come aveva dimostrato il fallimento del Piano nazionale; il venir meno della centralità del Commonwealth nella politica britannica. Inoltre, veniva richiamata l’esperienza maturata dai colleghi socialisti continentali, i quali, posti dinnanzi agli effetti positivi che la stabilità economica aveva assicurato alla classe lavoratrice, avevano abbandonato l’iniziale reticenza nei confronti del mercato comune[26].

Nel Congresso laburista del 1971 prevalse, tuttavia, la risoluzione contraria all’entrata nella Comunità nei termini negoziati dai Tory a cui si affiancava la richiesta di elezioni generali.

In questa fase, coerentemente con la linea europeista da sempre seguita, emerse con forza la personalità di Roy Jenkins. L’allora vicesegretario del Labour si pose, infatti, alla guida dei 69 laburisti che decisero di sostenere il governo conservatore nel voto alla Camera dei Comuni sui termini del negoziato svoltosi nell’ottobre, sfidando così – per la prima volta dal 1940 – la disciplina del Partito. Tale scelta permise a Heath di raggiungere la maggioranza necessaria (112 voti) per l’ingresso della Gran Bretagna nella Cee nel gennaio 1973. Per Jenkins, invece, questo passaggio rappresentò una rottura significativa con la maggioranza del Partito, con Wilson, ma soprattutto rispetto al percorso sin lì compiuto. Sintomatici a riguardo furono i passaggi successivi. Jenkins fu sostituito dal nuovo governo Wilson nella guida del Ministero degli esteri con Callaghan, che avrebbe rinegoziato i termini dell’entrata; nel frattempo, aveva rassegnato le dimissioni da leader dei deputati del “governo ombra” in seguito alla decisione da parte del Nec di sostenere una risoluzione che sottoponeva a referendum l’entrata in Europa. Coerentemente con la sua storia, infatti, Jenkins volle prendere le distanze dal Nec, denunciando apertamente che “the official majority position of the party, which was only one of opposition to the terms of entry to the Eec has increasingly become one of opposition in principle”[27].

In seguito, nella campagna referendaria del 1975, successiva alla rinegoziazione dei termini dell’entrata portata avanti dal governo laburista, Jenkins si pose alla guida del fronte pro-Europe che risultò maggioritario nel Paese. Il referendum confermò attraverso il voto popolare l’adesione della Gran Bretagna alla Cee, ma ciò non fu sufficiente a imprimere una svolta in senso europeista all’interno del partito laburista, che si ebbe solo a partire nella seconda metà degli anni ottanta con la svolta impressa da Kinnock e poi consolidata dalla leadership di Smith[28].

In effetti, da questo punto di vista, il voto popolare non fece emergere discontinuità rispetto al passato, anche se costituì un momento di chiarificazione per i laburisti fortemente divisi sul tema[29]. Se esemplificativa a proposito apparve la scelta di Wilson di mantenere una posizione defilata durante la campagna ‒ nonostante il sostegno del suo governo allo “Yes Vote” ‒, la vittoria del fronte del sì, guidato all’interno del Labour da Jenkins, contribuì alla marginalizzazione della Left di Benn[30].

Il nodo su cui si consumò la battaglia fu la questione della sovranità nazionale, il cui mantenimento divenne il cavallo di battaglia del fronte anti-comunitario, mentre avevano perso progressivamente ragion d’essere, o comunque rimasero marginali, molte delle questioni che avevano dominato il dibattito negli anni sessanta, come nel caso del rapporto con il Commonwealth, dato che molti paesi avevano aderito nel frattempo alla Convenzione di Lomè.

Per la Left, d’altronde, il referendum assunse sin dall’inizio il significato di una chiara scelta politica: “whether Britain wants to be a self-governing parliamentary democracy or wants to be a minority province of a West European bureaucratic federation”[31]. Una posizione condivisa dalla stessa maggioranza del Partito che si espresse per il ritiro dalla CEE, poiché riteneva insoddisfacenti i termini ri-negoziati e inaccettabili le procedure decisionali comunitarie che ledevano la sovranità nazionale e l’autonomia del Parlamento[32]. Lo stesso sindacato si schierò contro l’entrata e impostò la campagna sui nefasti effetti che avrebbe avuto sui lavoratori. Per il TUC

the Common Agricultural Policy is unsuitable and damaging for Britain; – the Eec principles on industrial development are unhelpful to British industry and British workers; – the burdens of Eec membership are unfairly loaded against this country; – the right of a British government to pursue independent progressive policies has been transferred to bodies remote from democratic system[33].

Ma quest’ultima apparve sin dall’inizio una battaglia di retroguardia poiché le conseguenze della crisi petrolifera del 1973 e la fine del sistema di Bretton Woods, che posero definitivamente fine al “Trentennio glorioso”, resero ancor più evidente la debolezza delle ricette economiche nazionali nel fronteggiare la crisi. Inoltre, il rialzo dei prezzi alimentari a livello mondiale annullò le differenze tra la Gran Bretagna e i paesi della Cee, facendo così venir meno uno dei cavalli di battaglia del fronte del no. Di grande efficacia si dimostrò così la scelta del fronte del sì di puntare l’attenzione sul “bread and butter issue”, più vicina anche dal punto di vista comunicativo al sentire comune, decisiva nel contrasto agli argomenti degli euro-dissidenti. Inoltre, rispetto al fronte del no prevalsero le capacità organizzative, politiche e mediatiche dei pro-Europe raccolti attorno a Britain in Europe (BIE), guidata da Jenkins per i laburisti e da Heath per i conservatori. L’organizzazione, infatti, raggruppava uno schieramento eterogeneo, che includeva anche i liberali, e fu favorita dall’esperienza maturata da molti dei suoi membri nell’European Movement Committee, oltre che dal sostegno dell’European League for Economic Cooperation, un gruppo europeo in cui sedevano esperti di questioni economiche, che aveva una presenza diffusa nei principali paesi europei sin dal 1946[34]. Alla campagna per il sì nel versante laburista un contributo importante venne anche dai sindacalisti che confluirono nella Trade Union Alliance for Europe, guidata dall’ex-segretario generale del TUC, Victor Feather, e amministrata da David Warburton dei Municipal Workers. Essa, infatti, aderiva alla Labour Committee for Europe che diresse la campagna “Labour Campaign for Britain in Europe” sotto la presidenza di Shirley Williams, con il sostegno di numerosi parlamentari laburisti e leader sindacali.

L’imponente mobilitazione che si registrò nel corso della campagna referendaria, sia nel partito che nel sindacato, non poteva non avere ripercussioni sul movimento laburista. Pertanto, accanto alla già ricordata emarginazione della Left, si assistette alla fine del boicottaggio delle istituzioni comunitarie su entrambi i fronti[35]. Tuttavia, anche dopo il referendum, il tema dell’Europa continuò a mantenere il suo “potenziale divisivo”[36], tanto che nel 1981, quando il partito guidato da Foot (1980-’83) tornò a fare dell’uscita dall’Europa parte integrante del suo programma elettorale, sarà proprio Roy Jenkins a guidare la scissione della corrente europeista, dando vita alla (breve) esperienza del Social Democratic Party. Ma siamo già in un’altra fase e su questa scelta influirà non solo la coerenza di Roy Jenkins con il suo percorso politico, ma anche il prestigio acquisito grazie all’esperienza maturata nella direzione della Commissione europea. Jenkins svolse, infatti, un ruolo da protagonista nell’Europa comunitaria della seconda metà degli anni settanta legando la sua figura, in particolare, alla ripresa del dibattito sul Sistema monetario europeo, poi ripreso e portato a compimento dal cancelliere tedesco Helmut Schmidt e dal presidente francese Valéry Giscard d’Estaing[37].

 

  1. Alla presidenza della Commissione europea (1977-1981)

Il dibattito sull’Unione economica e monetaria, letta quale elemento determinante per avviare il rilancio dell’Europa, prese corpo nel complesso tornante degli anni settanta. La fine del sistema di Bretton Woods e il primo shock petrolifero (1973) inaugurarono una nuova stagione contrassegnata dal punto di vista economico da fenomeni di recessione e stagnazione, mentre si affermavano i nuovi processi di globalizzazione e deregolamentazione nel mercato economico e finanziario. A livello geopolitico contestualmente si assisteva alla definizione di nuovi equilibri tra il Nord e il Sud del mondo (si pensi anche solo al nuovo ruolo giocato dai paesi produttori di petrolio), mentre emergevano nuovi attori economici nell’area asiatica. Nel frattempo le crisi scoppiate nell’Europa mediterranea alla metà degli anni settanta ‒ Spagna, Grecia e Portogallo ‒, assieme alla nuova fase di distensione tra i due blocchi favorita dalla politica nixoniana ‒ che di lì a breve si sarebbe chiusa definitivamente di fronte alla nuova ri-glaciazione ‒, aprivano nuove prospettive politiche per l’Europa comunitaria. Con questi elementi inediti si confrontava la Commissione europea presieduta da Jenkins il quale, nel gennaio 1977, successe al francese Francois-Xavier Ortoli[38]. Egli faceva propria l’impellente necessità di imprimere una svolta al percorso dell’Europa comunitaria dopo che la crisi aveva messo a nudo i limiti dell’integrazione solo in alcuni e delimitati ambiti e, in particolare, riprendeva e dava nuovo slancio al dibattito sull’Unione economica e monetaria collocandolo significativamente tra “Le sfide attuali e le possibilità future dell’Europa”[39]. Una discussione che si era già aperta nel noto vertice dell’Aja (1969), in un frangente politico ed economico completamente diverso, ma la cui ripresa avrebbe permesso alla Comunità di attuare una vera e propria svolta[40]. Infatti, sul finire degli anni settanta con la prima votazione europea per l’elezione diretta di rappresentanti al Parlamento di Strasburgo non solo si posero le premesse per l’attuazione di un’iniziativa costituente, ma si creò quell’indispensabile contesto ambientale favorevole all’istituzione del Sistema monetario europeo (1978) e persino alla sentenza Cassis Digione (1979), propedeutica alla nascita del mercato unico[41].

Da questo punto di vista la Jean Monnet lecture di Jenkins conteneva in sé gli elementi per trarre sia una sua lettura di questi anni, sia per enucleare gli obiettivi che si prefiggeva nella direzione della Commissione. In particolare, già nel noto intervento fiorentino egli suggerì – come riportato dal “Bollettino ufficiale delle Comunità europee” – di utilizzare “il periodo immediatamente precedente la prima elezione diretta del Parlamento europeo [e dunque sfruttarne l’onda di popolarità e di consenso creatosi attorno ad esso] per rilanciare un grande dibattito pubblico su quello che l’unione monetaria può offrire”[42].

Si trattava effettivamente di una sfida importante laddove ‒ come emerge dal verbale del Consiglio europeo di Bruxelles del dicembre 1978, a conclusione del quale si stabilì di istituire il Sistema monetario europeo ‒, i rappresentanti dei diversi governi europei erano consapevoli che un suo fallimento si sarebbe riflesso negativamente sull’intero processo di integrazione europea. Ma, come sottolineò lo stesso Jenkins,

il paraît évident que si la Communauté doit renoncer aujourd’hui à instaurer le Sme, il s’agira de bien plus que d’un échec: il y aura sans doute là, an fait, le signe d’une situation grave de nature à emporter pour la Communauté des conséquences de nature politique dépassent le seul aspect monétaire des choses; par exemple, l’élargissement ou l’élection de l’Ape au suffrage universel direct pourraient être remis en cause[43].

Questa convinzione era così radicata in lui che nelle sue stesse memorie evidenziava il contrasto esistente tra il clima politico che si respirava sul finire del decennio in ambito comunitario ‒ piuttosto complicato, nonostante l’imminenza del voto sovranazionale ‒ e il risultato positivo, finanche inaspettato nella sua rapidità di attuazione, colto con l’istituzione del Sistema monetario europeo. Egli, infatti, sottolineava come “we were remarkably lucky in the unfavourable climate of the late 70s to have achieved it at all, and particularly so fast”[44].

La fine della golden age, d’altronde, aveva rimesso in discussione il valore e l’importanza assunta sin lì dal processo di integrazione europeo, mentre si stava iniziando a vagliare l’opportunità di far avanzare e ampliare gli ambiti di intervento della Comunità. Appariva, infatti, ormai ineludibile la sua trasformazione e il passaggio dal mero processo di costruzione di un’unione doganale e settoriale, come nel caso della Politica agricola comune, a uno molto più complesso che le permettesse di muovere i primi passi verso la cooperazione in ambito monetario e un coordinamento della politica estera[45]. Questo processo si avviava proprio a fronte del venir meno di quel paradigma di ininterrotta crescita economica che aveva accompagnato i primi processi di integrazione delle economie europee occidentali, sulla cui base i paesi membri della CEE avevano accettato di partecipare a un progetto di sempre maggiore cooperazione con i loro vicini.

Già nel 1970 con il Piano Werner era stata prevista la realizzazione dell’Unione economica e monetaria piena a partire dal 1980. Un obiettivo che apparve irrealizzabile sin dall’anno successivo, di fronte ai disordini causati al sistema monetario dalla scelta nixoniana di porre fine alla convertibilità dell’oro con il dollaro, pressata com’era dalla spesa vietnamita. La stessa soluzione del serpente monetario ‒ un sistema finalizzato a limitare le fluttuazioni delle valute europee per giungere progressivamente all’UEM ‒ si era ridotta a poco più di una zona del marco tedesco che legava la valuta teutonica a quelle più piccole degli stati del Benelux e scandinavi, rendendo di fatto impossibile la fluttuazione entro le bande previste della lira italiana, del franco francese e della sterlina britannica. Si allontanava così ulteriormente la prospettiva di un’unione monetaria e la realizzazione di un sistema monetario europeo che, sebbene continuamente richiamato nelle dichiarazioni dei maggiori leader europei, appariva sempre più un argomento retorico e sempre meno un obiettivo realmente raggiungibile nell’immediato futuro[46].

Pertanto, la scelta di Jenkins di riportare al centro della vita comunitaria il progetto della creazione dello SME apparve sin dall’inizio molto ambizioso. Un obiettivo eminentemente politico che voleva rispondere a un’altra grande sfida a cui doveva far fronte la Comunità in questa fase: il secondo allargamento. La fine del regime dei colonnelli in Grecia, la rivoluzione dei Garofani in Portogallo e la morte di Francisco Franco in Spagna ponevano nuove priorità nell’agenda europea chiamata a guidare il processo di democratizzazione di questi paesi e sostituire gli Usa – indeboliti dalla crisi dell’amministrazione Nixon e dalla difficile gestione della guerra del Vietnam ‒ nel mantenimento della coesione del blocco europeo occidentale[47].

Per Jenkins l’entrata di tre nuovi stati membri nella Comunità, lontani sia sotto la prospettiva dello sviluppo che di quello degli standard di vita dai livelli dei Paesi del nocciolo duro della CEE, avrebbe potuto rallentare notevolmente il processo di integrazione portando a una paralisi delle istituzioni e delle stesse politiche comunitarie. Ugualmente il budget comunitario non sarebbe stato sufficiente per coprire le esigenze dei nuovi Stati. Da questo punto di vista era necessario far procedere di pari passo l’allargamento e la creazione dell’UEM. Infatti, come ebbe modo di sottolineare nel novembre 1977 in occasione dell’incontro con il primo ministro francese Raymond Barre, l’allargamento avrebbe richiesto che la Comunità avesse “a stronger bone structure. This could be provided by Monetary Union”[48]. Si trattava di rimettere in moto un processo i cui effetti positivi si sarebbero riverberati sia all’interno, rispetto ai propri stati membri, che all’esterno, nei confronti dei paesi di prossima adesione, dimostrando le potenzialità di un’Europa allargata e la sua inalterata dinamicità rispetto a quella a sei.

Alla realizzazione di questi ambiziosi obiettivi si dedicò Jenkins a partire dalla seconda metà del 1977 e per tutto il 1978, ottenendo il costante appoggio del presidente francese Valéry Giscard d’Estaing. Mentre solo a fine decennio sull’iniziativa tornerà a convergere la Germania del cancelliere Helmut Schmidt, fortemente critica verso la gestione dell’amministrazione Carter[49].

D’altronde se la costruzione di un Sistema monetario europeo era stato sin dalla fine degli anni sessanta parte integrante dell’ambizioso progetto di far acquisire un nuovo ruolo politico all’Europa rispetto ai due blocchi, allo stesso tempo rappresentava la risposta alla necessità di alleviare le pressioni esercitate sulle valute europee dal disordine monetario internazionale. Un problema quest’ultimo denso di implicazioni politiche, che investiva direttamente i rapporti transatlantici in corso di ridefinizione in seguito alla revisione delle priorità della politica estera statunitense. Infatti, gli Usa non solo ricollocavano a livello geopolitico i propri interessi nel quadrante asiatico, ma individuavano nel Vecchio Continente un pericoloso concorrente commerciale[50].

Questi passaggi erano ben chiari nel programma delineato da Jenkins, deciso a cogliere appieno le potenzialità che il recente rapporto Tindemans assegnava al ruolo di presidente della Commissione nel governo dell’Europa. A differenza del suo predecessore, egli si ritagliava un ruolo più politico, come ebbe modo di annunciare nel discorso inaugurale al Parlamento europeo, nel tentativo di far uscire la Commissione da quella “cittadella”[51] in cui l’aveva confinata Ortoli negli anni più bui della crisi. Un percorso che, tra l’altro, troverà completa attuazione nella successiva presidenza del francese Jacques Delors[52].

Come appare chiaro un passaggio chiave in questa direzione, dopo l’acquisizione del diritto di rappresentanza della Commissione al G7, un’iniziativa politica che aveva ereditato dal collega francese, era la ripresa della questione dell’unione economica e monetaria[53], ritenuta una strada più percorribile – anche dal punto di vista degli equilibri interni ‒ rispetto ad altri eventuali obiettivi economici e con “a better chance of advance by qualitative leap than by cautions suffle”[54].

Jenkins fece propria questa battaglia, cercando e trovando il sostegno dei maggiori stati europei, ma anche dei più piccoli, come quelli del Benelux. Se a questi ultimi il nuovo sistema offriva garanzie dall’impatto della fluttuazione monetaria, più in generale la stabilità economica che ne sarebbe derivata avrebbe potuto imprimere una svolta alle economie europee in crisi, favorire la revisione dei contributi economici e finanziari degli stati membri nel processo di integrazione, così come di alcune politiche, come la PAC, che favorivano la volatilità dei prezzi.

Inoltre, egli faceva proprio l’ambizioso obiettivo di sottrarre questa materia, così come la questione dell’allargamento e dell’agricoltura, al metodo della semplice cooperazione intergovernativa. Si trattava di andare oltre “our present embarrassing reliance on rather outdated, gradualistic doctrines, which are not taken seriously by the press and are maintained by member states as a cover for their lack of political will, and as intellectual imprisonment of the Commission”[55]. L’obiettivo era, quindi, “to re-stimulate the debate on the economics, politics and institutional implications of monetary union [and] talk in terms of a bigger and politically more attractive proposition- which monetary union can be put to be”[56].

Tale auspicio veniva espresso nel paper Emerson/Jenkins, redatto in occasione dell’incontro della Commissione a La Roche-en-Ardenne (16-18 settembre 1977), che definì l’unione monetaria una priorità politica per la Commissione. Nel frattempo, nella nota lecture svolta a Firenze nel 1977, nel rinnovare l’impegno nel raggiungimento di questo obiettivo, Jenkins richiamava l’attenzione sui benefici che ne avrebbe potuto trarre la tormentata Europa degli anni settanta, soprattutto sotto il profilo economico. La fine del cambio fisso e la fluttuazione all’interno della Cee avrebbero potuto incoraggiare gli investimenti, far diminuire la pressione inflazionistica e la disoccupazione. Inoltre, in vista del secondo allargamento nell’area del Mediterraneo, sarebbe stato preferibile anche per gli stessi leader europei “a strengthening of the sinews of the Community”, piuttosto che una “tacit acceptance of a loose Customs Union, far removed from the hopes of its founders”[57].

La sua sfida consisteva nell’andare oltre “the concept of gradualism” [58] e ritrovare il coraggio di osare per uscire dal guado in cui la crisi aveva relegato l’Europa. Si doveva tornare ad avere il coraggio delle grandi narrazioni per giungere realmente all’obiettivo dell’unione monetaria:

Let us think of a long-jumper. He starts with a rapid succession of steps, lengthens his stride, increases his momentum, and then makes his leap. The creation of monetary union would be a leap of this kind. Measures to improve the Customs Union and the free circulation of goods, services and persons are important steps. We look for bigger strides in working out external policies, establishing more democratic and hence accountable institutions, elaborating more coherent industrial and regional policies, and giving our financial instruments the means to keep the whole movement on a balanced course. We have to look before we leap, and know when we are to land. But leap we eventually must[59].

Jenkins riuscì effettivamente a creare attorno a questo obiettivo “a favourable wind”[60], sia nell’opinione pubblica che tra i principali leader europei[61]. Infatti, se il suo progetto di riforma dell’Europa era il presupposto per la costruzione di un’alternativa credibile nell’ambito dello scacchiere internazionale, la sua realizzazione dipendeva dalla volontà di porre l’UEM nell’orizzonte politico dei capi di Stato e di governo, riuniti nel Consiglio europeo, attraverso un chiaro atto politico: “We will not get monetary union by just proclaiming it and believing that separate currencies can be told not to diverge, nor by an inevitability of gradualism in which everything happens painlessly, effortlessly, without any major act of political will”[62].

La sfida di Jenkins divenne, infatti, una solida realtà solo di fronte all’aperto sostegno del cancelliere tedesco nei primi mesi del 1978[63]. La scelta di Schmidt, che si muoveva in continuità con la linea impostata da Brandt, era di far acquisire alla Germania un ruolo chiave in Europa giocando in tandem con la Francia e in cooperazione con gli altri stati, come stava a dimostrare la svolta avviata sull’UEM. Infatti, se ben evidenti erano i benefici che la costruzione di quest’area avrebbe avuto sull’economia dei paesi più piccoli della Comunità[64], un discorso a parte andava fatto per stati come la Germania e la Gran Bretagna.

Per il leader socialdemocratico tedesco, legato a un approccio pragmatico e gradualista dell’integrazione europea, presupposto per la cooperazione europea doveva essere la stabilizzazione economica interna, venivano quindi escluse le ipotesi collegate alla definizione di strategie nazionali di rilancio fondate sulla spesa pubblica, giudicate non solo inefficaci, ma anche dannose[65]. Queste coordinate orientarono anche la posizione del cancelliere nel dibattito sulla UEM. Inoltre, parte integrante della tesi tedesca era che “monetary union and stability, resource transfer mechanisms, and political integration – have to be seen as an interdependent and indeed indissoluble whole”. Un punto su cui concordava lo stesso Jenkins ritenendo che “an advance on any one front alone cannot succeed”. Infatti, suggerì in occasione dell’incontro al vertice di Bonn del dicembre 1977 che “the challenge is to apply our imaginations in a constructive and practical way so as to make measured progress on all three fronts together”[66].

Lavorando su queste premesse Schmidt nei primi mesi del 1978 aderì, insieme a Giscard, alla proposta di Roy Jenkins per un’accelerazione della cooperazione monetaria, avviando il percorso che avrebbe condotto rapidamente alla costituzione del nuovo Sistema monetario europeo. La formazione dello SME, come è stato osservato, suggellava un nuovo consenso europeo su politiche economiche orientate alla stabilizzazione e alla lotta all’inflazione, dando luogo a un vincolo monetario che si collegava apertamente a obiettivi di convergenza economica fra gli stati[67].

A guidare questo percorso fu di fatto la Germania nell’ambito del dibattito portato avanti in seno al Consiglio europeo, dapprima a Copenhagen (marzo), poi a Brema (giugno) e, infine, a Brussels (dicembre). Nel corso di questi mesi prese forma il sistema monetario europeo che entrò in funzione nel 1979 e che ha rappresentato sicuramente l’aspetto più qualificante della Presidenza inglese della Commissione europea. L’idea del cancelliere tedesco era di giungere alla politica di cambio comune vis-à-vis con i paesi terzi e creare un Fondo monetario europeo in cui poter mettere in comune una certa quota delle loro riserve basate su una Unità di misura europea (EUA). L’ECU doveva divenire la moneta di riserva della Comunità usata per le transazioni tra le banche centrali della Comunità e sostituire il dollaro come mezzo di accordo. L’idea di Schmidt era di ricostruire il sistema di Bretton Woods tra gli europei. Sostenuta con forza dal presidente francese, e con riserva dagli altri leader europei, tuttavia la proposta tedesca incontrò il rifiuto del primo ministro britannico.

Jim Callaghan era preoccupato dagli effetti che questo schema avrebbe potuto avere sul dollaro e sulle relazioni transatlantiche[68]. Inoltre, se più in generale c’era poco entusiasmo nei confronti di qualsiasi decisione europea potesse turbare il delicato equilibrio del patto sociale ottenuto[69], la prospettiva dell’Unione economica e monetaria si scontrava con quelle che venivano individuate come delle priorità a livello politico ed economico per il Paese.

Nonostante la progressiva perdita di funzione di moneta di riserva della sterlina, Londra restava ancora un grande mercato di capitali, così come la moneta inglese rimaneva uno strumento finanziario d’importanza mondiale. Pertanto, sia dal punto di vista psicologico che politico, la Gran Bretagna era riluttante ad aderire a un sistema monetario europeo nel quale la sterlina avrebbe svolto un ruolo inesorabilmente minore rispetto al marco e, in ogni caso, nei confronti dell’insieme delle altre monete della Comunità. Un altro aspetto non secondario per il governo laburista era il mantenimento dell’autonomia dalle direttive economiche comunitarie, su cui si era speso a lungo nel corso del rinegoziato ma che si sarebbe riproposto con l’adesione all’UEM. Tuttavia ciò non impedì alla Gran Bretagna di partecipare ai lavori che avrebbero portato alla costituzione dello SME. Infatti, il primo ministro inglese riconosceva che la Gran Bretagna non poteva rifiutare un dibattito che nel lungo periodo avrebbe condotto alla modifica del sistema monetario internazionale, poiché una ripresa economica durevole e la creazione di nuovi posti di lavoro nell’Europa flagellata dalla disoccupazione passavano per la via obbligata di una stabilità monetaria organizzata sul piano europeo. Contrario a ogni tipo di impegno in questa direzione era invece il cancelliere dello Scacchiere e del Tesoro, Denis Healey[70]. Anche il Labour Party e i sindacati reagirono negativamente. Essi sembravano temere che il Regno Unito perdesse potere sul tasso di cambio della sterlina, i cui effetti si sarebbero riverberati sull’occupazione e la competitività. Il TUC era a favore di una politica espansiva che contrastasse la disoccupazione e alimentasse la crescita. Il General Council del TUC, inoltre, riteneva che “those who argue for Economic and Monetary Union do not deny that it would intensify the structural and regional problems of the weaker members of the Community. Their answer is that the Community should collectively provide adequate financial resources to the countries concerned […]. Experience does not suggest that this in fact would happen: the regional found is minute”[71]. In un documento presentato al Parlamento sosteneva che “the parity grid system [at the base of the proposed Ems] is exactly the same as that which obtains among the members of the European “snake” […]. On the past evidence, it appears that snake-type arrangements have been too rigid and inflexible, tending principally to benefit those participating countries with stronger currencies”. Il TUC non si illudeva che la sterlina sarebbe stata posta tra le monete forti pertanto “it is evident […] that far from encouraging recovery an ill-devised Ems could produce the opposite effect. Employment and growth in the UK could be adversely affected”[72].

D’altronde, come emergeva da un’analisi elaborata dal ministero del Tesoro nel 1978, il sistema di cambi fissi dell’Uem avrebbe fatto perdere all’economia britannica qualcosa tra il 3.5 e 9.5% nella crescita del Pil e fatto aumentare di tra 1 e 2.7 punti percentuali la disoccupazione[73].  Come suggeriva il Green Paper governativo sull’Uem, l’unione monetaria avrebbe avuto la “tendency to encourage deflactionary policies overall”[74].  La stessa conferenza del Labour Party si allineò con la posizione del sindacato sostenendo che

the economies of Ec countries differ widely […]. Any attempt to tie their exchange rates together artificial device […] is fraught with the gravest of dangers. It could force Britain back into deflationary policies which would set back our economic recovery and could also damage the world economy. It would jeopardize the great progress which has been made under the Labour government to the strengthen Britain’s economy after all the sacrifices of the recent years. […] Conference therefore declares its opposition to British participation in the proposed system[75].

La reazione così fredda al progetto da parte del governo britannico, inoltre, rifletteva il crescente euro-scetticismo dell’opinione pubblica legato alla questione del contributo del Regno Unito al budget comunitario, oltre che la paura di Callaghan che ciò avrebbe reso impossibile ottenere il sostegno necessario dal Governo e dal Parlamento nella fase pre-elettorale[76].

La scelta del primo ministro laburista di disancorare la Gran Bretagna dal Sistema monetario europeo fu all’origine del primo opting-out britannico. Ancora una volta, e in continuità con la sua storia, il Labour Party faceva un passo indietro sull’Europa che continuava a rimanere una, seppur preziosa, “cornice doganale all’interno della quale avviare il rilancio dell’economia nazionale e nulla più”[77]. Nonostante i risultati ottenuti nel referendum, Callaghan non prendeva parte alla nuova fase del processo di integrazione inaugurata da Schmidt e Giscard d’Estaing. La Gran Bretagna, infatti, decideva di non far parte dell’UEM sostenendo che l’arma della svalutazione concorrenziale fosse indispensabile all’industria inglese. Una posizione che rimase inalterata, seppure per motivi opposti, con la vittoria delle elezioni nel maggio 1979 di Margaret Thatcher, poiché i conservatori ritenevano che mantenere una sterlina forte sarebbe servito a far diminuire l’inflazione[78].

D’altronde, come è stato sottolineato, lo SME aveva una forte dimensione politica ed era il frutto “of a consensus on stability-oriented, anti-inflationary economic policies”, pertanto un’eventuale adesione britannica sarebbe equivalsa ad ammettere il fallimento delle sue politiche precedenti[79].

A livello politico interno, dunque, il tiepido filo-europeismo maturato in questa fase da Callaghan si scontrò con le difficoltà ereditate dall’“inverno dello scontento” e dalla priorità assegnata alle incipienti elezioni; mentre, più in generale, nel partito laburista tornò a riemergere l’euro-scetticismo accompagnato dai più torvi toni antieuropeisti che prevalsero, non solo nella base, per tutti gli anni ottanta.  E se l’europeismo venne delegato all’ala socialdemocratica del partito guidata da Jenkins, scissasi nel 1981, il Labour anche dopo il chiaro impegno mostrato sui programmi sull’Europa a partire dalla nuova leadership di Kinnock sin dai primi anni novanta, continuò a lungo mantenere sul tema un atteggiamento “ambivalente”[80].

Tuttavia, più in generale in ambito comunitario la costituzione dello SME rappresentò un’importante tappa che avrebbe aperto la strada alla costruzione della moneta unica europea, grazie anche agli importanti stimoli che nel corso degli anni ottanta darà la Commissione presieduta dal francese Jacques Delors. Nel rispondere alle sfide che provenivano dall’interno e dall’esterno della Comunità, lo SME voleva rispondere all’obiettivo di costruire quella che è stata definita una “European Europe”[81] più indipendente dagli Stati Uniti, il che implicava un importante trasferimento di poteri in campo monetario dagli Stati alla Comunità, ma ancora mantenendo gli stati-nazione al centro del processo di elaborazione delle scelte politiche. Un obiettivo che Jenkins ebbe il merito di rilanciare negli anni della sua guida alla presidenza europea.

 

 

 

* Il saggio è stato sottoposto alla procedura di doppia revisione da parte di esperti esterni alla rivista (blind referees).

[1] Cfr. B. Olivi, R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea, Il Mulino, Bologna 2005; European Union History. Themes and Debates, a cura di W. Kaiser, A. Varsori, Palgrave Macmillan, Houndmills 2010; E. Calandri, M.E. Guasconi, R. Ranieri, Storia politica e economica dell’integrazione europea. Dal 1945 a oggi, Edises, Napoli, 2015. Per una ricostruzione della storia della Commissione in questi anni invece si rinvia a M. Dumoulin, M.T. Bitsch, and European Commission, The European Commission, 1958-72: History and Memories, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg 2007.

[2] Cfr. I. Poggiolini, Alle origini dell’Europa allargata. La Gran Bretagna e l’adesione alla CEE (1972-1973), Unicopli Milano 2004; D. Butler, U. Kitzinger, The 1975 Referendum, Palgrave, London 1996; R. Saunders, Yes to Europe! The 1975 Referendum and Seventies Britain, Cambridge University Press, Cambridge 2018.

[3] Per un quadro su questi anni si veda I. Favretto, Gran Bretagna, Unicopli, Milano 2004, pp. 238 e ss; Alle origini del presente. L’Europa occidentale nella crisi degli anni Settanta, a cura di A. Varsori, FrancoAngeli, Milano 2007.

[4] Cfr. S. George, An Awkward Partner: Britain in the European Community, Oxford University Press, Oxford 1994; D. Gowland, A. Turner, Reluctant Europeans: Britain and European Integration 1945-1998, Rouledge, London-New York 2000; J. Gillingham, European Integration 1950-2003. Superstate or New Market Economy?, Cambridge University Press, Cambridge 2003.

[5] Sull’esperienza di Jenkins quale Presidente della Commissione in particolare si rinvia al recente lavoro di N.P. Ludlow, Roy Jenkins and the European Commission Presidency, 1976-1980. At the Heart of Europe, Macmillan, Palgrave 2017.

[6] Le sfide attuali e le possibilità future dell’Europa, Conferenza tenuta da Roy Jenkins, presidente della Commissione delle Comunità europee, presso l’Università europea di Firenze, il 27 ottobre 1977.

[7] N.P. Ludlow, Roy Jenkins and the European Commission Presidency cit., p. 2.

[8] A proposito si vedano C.G. Anta, Il rilancio dell’Europa. Il progetto di Jacques Delors, FrancoAngeli, Milano 2004; G. Ross, Jacques Delors and the European Integration, Cambridge Polity Press, Cambridge 1995; J. Delors, Memoires (con J.L. Arnaud), Plon, Paris 2004; M.E. Guasconi, La Commissione Delors e il dialogo sociale europeo, in Integrazione europea e trasformazioni socio-economiche. Dagli anni settanta ad oggi, a cura di L. Mechi, D. Pasquinucci, FrancoAngeli, Milano 2017, pp. 119-133.

[9] “Davvero troppo politico per essere solo un tecnocrate”, N.P. Ludlow, Roy Jenkins and the European Commission Presidency cit, p. 2; inoltre sulla sua figura si rinvia anche alla biografia di J. Campbell, Roy Jenkins. A Well-Rounded Life, Jonathan Cape, London 2014.

[10] Sugli anni della sua formazione ivi, pp. 26 e ss.

[11]Inoltre, in linea con il suo Partito e differentemente dall’altro importante europeista britannico, Edward Heath, egli non rintracciava nel glorioso passato europeo le radici della cultura britannica, ivi, p..45.

[12] “The Times”, 10 maggio 1971.

[13] “The Times”, 20 giugno 1971.

[14] P. Ludlow, Roy Jenkins and the European Commission Presidency cit., pp. 45-47.

[15] Le condizioni essenziali per assicurare il sostegno all’adesione vennero individuate dal Nec in: “guaranties protecting the position of British agriculture and horticulture, the EFTA countries and the commonwealth are obtained, and Britain retains the power of using public economic ownership and planning as measures to ensure social progress in the United Kingdom”, oltre al controllo della politica estera. Lo statement del Nec del 1962 “Labour and the Common Market” fu approvato con una schiacciante maggioranza, ottenendo il pieno sostegno dall’area sinistra del Partito, in particolare da Wilson, Castle e Crossman. Ad esso, invece, si oppose strenuamente l’ala destra del Partito a partire da Jenkins, Robens, Crossland, George Gordon Walker e George Brown, ossia i più stretti sostenitori di Gaitskell. Cfr. R.J. Lieber, British Politics and European Unity. Parties, Elites, and Pressure Groups, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London 1970, p. 115.

[16] Labour Party Archive (d’ora in avanti LPA), New Britain, 1964, Manifesto of the Labour Party, p. 19.

[17] Idee d’Europa e integrazione europea, a cura di A. Landuyt, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 191.

[18] Le direttrici della politica laburista nei confronti dell’Europa vennero elaborate nel documento European Cooperation within the Framework of the Recovery Program, presentato in occasione della Conferenza socialista sull’Erp svoltasi a Selsdon Park (21 marzo 1948), e ulteriormente chiarite nel pamphlet redatto da Healey, Feet on the Ground. A study on Western Union, pubblicato il 22 settembre 1948: cfr. M.E. Guasconi, Il Labour Party, il Trades Union Congress e il processo di integrazione europea dal 1945 al 1957, in L’altra via per l’Europa. Le forze sociali e organizzazione degli interessi nell’integrazione europea (1947-1957), a cura di A. Ciampani, FrancoAngeli, Milano 1995, pp. 112-126.

[19] Cfr. A. Milward, The European Rescue of the Nation-State, Routledge, London-New York, 2000.

[20] U. Kitzinger, Diplomacy and Persuasion. How Britain Joined the Common Market, Thames and Hudson, London 1973, p. 279; più in generale sul tema cfr. B. Grob-Fitzgibbon,Inizio modulo

Continental Drift: Britain and Europe from the End of Empire to the Rise of Euroscepticism, Cambridge University Press, Cambridge 2016.

[21] La fazione anti-comunitaria era rappresentata da Browden, Castle, Greenwood, Healey, Jay, Marsh, Pearth e Ross. Il cambiamento della posizione di Wilson nei confronti della questione europea è stata oggetto di numerosi studi e interpretazioni a proposito cfr. U. Kitzinger, Diplomacy and Persuasion. How Britain Joined the Common Market, cit; L.J. Robins, The reluctant Party: Labour and the EEC, 1961-1975, G.W.&A. Hesketh, Ormskirk 1979; R.J. Lieber, British Politics and European Unity cit.; R. Broad, Labour’s European Dilemmas, from Bevin to Blair cit.

[22] I. Poggiolini, Alle origini dell’Europa allargata. La Gran Bretagna e l’adesione alla CEE (1972-1973), Edizioni Unicopli, Milano 2004; Ead., How the Heath Government Revised the European Lesson: British Transition to EEC Membership (1972), in Inside the European Community. Actors and Policies in the European Integration from the Rome Treaties to the Creation of the “Snake”, a cura di A. Varsori, Nomos Verlag/Bruylant, Baden-Baden-Bruxelles 2006, pp. 313-346; H. Parr, Britain’s Policy towards the European Community. 1964-7: Harold Wilson and Britain’s World Role, Routledge, London 2006.

[23] Sul tema cfr. G. Bentivoglio, La relazione necessaria. La Gran Bretagna del governo Heath e gli Stati Uniti, Franco Angeli, Milano 2016;

[24] Speech at Labour Party Special Conference, p. 28. Labour and the Common Market, report of a Special conference of the Labour Party, Central Hall, Westminster, 17/7/71, published by the Labour Party, p. 35.

[25] P. Shore, Speech at Labour Party Special Conference, 1971, p. 18. Sulla questione della PAC e i riflessi sui negoziati britannici si rinvia a G. Laschi, La Gran Bretagna e la Politica agricola comune, in L’Europa agli albori del XXI secolo, a cura di D. Preda, Cacucci, Bari 2006.

[26] Cfr.  J. Mackintosh, Speech at Labour Party Special Conference, 1971, cit., pp. 28-29.

[27] Cfr. “The Guardian”, 11 aprile 1972; Europe: a Socialist Strategy, a cura di P. Ebsworth, Euspb, Edinburgh 1979, p. 25.

[28] R. Holden, The making of New Labour’ European policy, Palgrave, London 2002.

[29] Nello stesso fronte laburista, così come era accaduto nel 1961, il richiamo al socialismo e al suo reale significato continuava a dividere coloro che erano favorevoli all’Europa, primo passo per la realizzazione del socialismo, da coloro che individuavano nella natura capitalistica della Comunità una barriera insormontabile per l’edificazione di un’Europa socialista.

[30] H. Young, This Blessed Plot. Britain and Europe from Churchill to Blair, Macmillan, London 1998, pp. 74-78. vi.93

[31] Labour Party Conference Report (LPCR), 1974.

[32] The Common Market Renegotiations; an Appraisal, ora in Europe: a Socialist Strategy, cit., p. 28. Mentre più in generale per una ricostruzione di lungo periodo sul nodo della sovranità nazionale cfr. D. Charter, Au Revoir, Europe. What If Britain Left the EU?, Biteback Publishing, Londra 2012.

[33] Tuca, Economic Committee, April 1975, Speaker’s Note, The Tuc and the European community.

[34] Il fronte del ‘no’, organizzato nella National Referendum Campaign (NRC), risentì sia della minore esperienza politica che della maggiore frammentazione. Al suo interno si passava dalle posizioni del nazionalista Enoch Powell a quelle della sinistra laburista, rappresentata da esponenti di primo piano come Michael Foot, Barbara Castle, Tony Benn e leader sindacali come Jack Jones, Hugh Scanlon e Clive Jenkins. Inoltre, ebbe anche su una minore presenza sui media. Essenzialmente nella diffusione delle notizie e del suo messaggio si avvaleva del foglio comunista “Morning Star”, di alcuni giornali scozzesi e dei settimanali “The Spectator” e “Tribune”. Tuttavia, la minore esposizione mediatica era in parte compensata dall’adesione alla campagna per il no di importanti leader sindacali, come Jack Jones, Richard Briginshaw, Clive Jenkins e Bob Wright, i quali aderirono a Get Britain out Campaign. Infatti, vi fu un’attiva partecipazione da parte della minore organizzazione del movimento, compensata dalla attiva partecipazione del Transport and General Workers’ Union (TGWU), dell’Association of Scientific, Technical and Managerial Staffs (ASTMS) ed altri sindacati minori, che fornirono volontari e uffici di sostegno sul territorio. Cfr. D. Butler, U. Kitzinger, The 1975 Referendum, Macmillan, London Basingstoke 1976, p. 105. Invece, per una ricostruzione dell’origine dell’ELEC si rinvia a M. Dumoulin, Les débuts de la Ligue, in “Res Publica”, 1987, n. 1, pp. 100-118.

[35] Trades Union Congress Archive (TUCA), Tuc, Paper, Press release, Statement by Lionel Murray TUC General Secretary on the referendum results on June 6 1975, Council of the European Communities General Secretariat.

[36] J. Smith, The 1975 Referendum, in “Journal of European Integration History”, 2007, n. 2, p. 56.

[37] Cfr. a riguardo, oltre al recente lavoro di P. Ludlow, J. Campbell, Roy Jenkins. A Well-Rounded Life, cit. e R. Jenkins, European Diary, 1977-1981, Collins, London 1989; Id., A Life at the Centre, Macmillan, Basingstoke, 1991. Inoltre, recenti studi hanno messo in evidenza l’importante ruolo svolto nell’iniziativa anche dal Consiglio europeo e dagli ambienti dei tecnocrati che si muovevano in un’ottica transnazionale (cfr. E. Mourlon-Druol, A Europe made of Money: The Emergence of the European Monetary System, Cornell Press Ithaca, NY Cornell, 2012).

[38] M. Yeager, Roy Jenkins (1977–1981): ‘My Fear always is that we shall go too slow’, in An Impossible Job?, Van der Harst and Voerman, ed., John Harper, London, 2015, pp. 133–150. Più in generale su questi anni si veda É. Bussière, V. Dujardin, M. Dumoulin, N.P. Ludlow, J.W.L. Brouwer, P. Tilly, The European Commission 1973-86: History and Memories of an Institution, Publications Office of the European Union, Luxembourg 2014.

[39] Europe’s present challenge and future opportunity, Jean Monnet Lecture delivered by the Right Hon Roy Jenkins, President of the European Commission, Florence, 27 October 1977, ora in http://aei.pitt.edu/4404/ (consultato il 20 giugno 2018).

[40] Cfr. M.E Guasconi, L’Europa tra continuità e cambiamento. Il vertice dell’Aja del 1969 e il rilancio della costruzione europea, Edizioni Polistampa, Firenze 2004.

[41] Cfr. D. Pasquinucci, Nella “direzione del movimento storico”. Il contributo federalista alla europeizzazione dell’Italia, in L’Italia nella costruzione europea. Un bilancio storico (1957-2007), a cura di P. Craveri, A. Varsori, FrancoAngeli, Milano 2009, p. 403 e, più in generale, I movimenti per l’unità europea 1970-1986, a cura di A. Landuyt, D. Preda, il Mulino, Bologna 2000.

[42] “Bollettino ufficiale delle Comunità europee”, 1977, n. 10, p. 7.

[43] Archives Historiques du conseil, Bruxelles, CM/2/1978, 3/3, Procès verbal de la session du Conseil européen tenue à Bruxelles les 4 et 5 décembre 1978.

[44] R. Jenkins, A life at the centre cit., p. 490. Su questi anni si rinvia anche alle sue memorie (Id., European diary 1977-1981 cit.).

[45] La storiografia più recente ha messo in evidenza come gli anni settanta a livello comunitario si assiste all’avvio di importanti modifiche: fra il 1970 e il 1976 vengono create le “risorse proprie” e nasce il bilancio della CEE, viene creato e subito applicato il meccanismo della Cooperazione Politica Europea, viene riformato e potenziato il fondo sociale e vengono varati i primi programmi d’azione della Comunità in materia ambientale e sociale; inoltre, vi sono vari tentativi di avviare una politica industriale coerente a livello comunitario (prima generale, poi settoriale), nasce il Fondo di Sviluppo Regionale, viene istituzionalizzato il Consiglio Europeo e viene decisa l’elezione diretta del PE (anche se la prima sarà solo nel 1979). Per un quadro sui diversi aspetti si rinvia ai saggi ad hoc contenuti nel volume Alle origini del presente. L’Europa occidentale nella crisi degli anni Settanta cit., e A. Varsori, Alle origini di un modello sociale europeo: la Comunità europea e la nascita di una politica sociale (1969-1974), in “Ventunesimo secolo”, 2006, n. 9; L. Mechi, I. Del Biondo, F. Petrini, Fra Mercato comune e globalizzazione. Le forze sociali e la fine dell’età dell’oro, FrancoAngeli, Milano 2010.

[46] P. Ludlow, The Making of European Monetary System: A Case Study of the Politics of the European Community, Butterworth Scientific, London 1982, p. 239; A. Szasz, The road to European monetary union, Palgrave, London 1999.

[47] Sull’allargamento della Comunità si rinvia a Gli allargamenti della Cee/Ue. 1961-2004, a cura di A. Landuyt, D. Pasquinucci, vol. I, Il Mulino, Bologna 2005 (in particolare sul caso portoghese, spagnolo e greco si vedano pp. 289-349).

[48] TP, File 16, ‘Meetings and Conversations, 1976–1977’, record of a conversation between the President of the European Commission and the French Prime Minister at the Hôtel Matignon, Paris, 19 November 1977.

[49] M. Schultz, T.A. Schwartz, The Strained Alliance. US-European Relations from Nixon to Carter, Cambridge University Press, Cambridge 2010.

[50] Per un’analisi dello scenario complessivo nel quale si inserirono i progetti per lo SME cfr. M.E. Guasconi, Europe and the EMS Challenge: old and new Forms of european Integration in the ’70s, in Crisis of Détente. From Helsinki to Gorbachev 1975-1985, a cura di L. Nuti, Routledge, London 2010, pp. 177-189.

[51] La definizione è di P. Ludlow, Roy Jenkins and the European Commission Presidency cit., p. 79.

[52] Per Jenkins si trattava di dare una seria svolta al ruolo stesso della Commissione: “The role of the President as simply an intermediary between governments was unsatisfactory, the Commission as a whole needed to set out a new and more ‘decisive policy’” (TP, File 16, ‘Records of Meetings and Conversations, September 1976 to 1977’, record of a meeting at East Hendred, 2 August 1977), ora ivi, p. 72.

[53] Cfr. International Summitry and Global Governance. The Rise of the G7 and the European Council, 1974-1991, a cura di E. Mourlon-Druol, F. Romero, Routledge, London- New York 2014; G. Garavini, The Battle for the Participation of the Community in the G7 (1975–1977), in “Journal of European Integration History”, 12, 2006, n. 1, pp. 141–158.

[54] La citazione è riportata in R. Broad, Labour’s European Dilemmas, from Bevin to Blair, Palgrave, New York 2001, p. 132.

[55] European Commission Historical Archives (ECHA), SEC (77) 3125/2, ‘The Prospect of Monetary Union’, 16 September 1977, ora in P. Ludlow, Roy Jenkins and the European Commission Presidency cit., p. 124.

[56] Ibidem.

[57] R. Jenkins, Jean Monnet lecture, Florence, 27 October 1977, cit., p. 3.

[58] Ibidem.

[59] Ivi, p. 4.

[60] P. Ludlow, Roy Jenkins and the European Commission Presidency cit., p. 137.

[61] Ibidem.

[62]Infatti, relativamente ai tempi di una sua possibile realizzazione riteneva: “I do not foresee such a union as something for tomorrow, or even the day after tomorrow. But if we are to set ourselves an objective, it should be one within practical reach, not something over the horizon but at least on the horizon”, ibidem.

[63] P. Ludlow, The Making of the European Monetary System: A Case Study of the Politics of the European Community, Butterworths, London 1982.

[64] Jenkins sottolineava che “the crucial problem here is that small and medium sized European states using their levers of monetary and fiscal policy independently cannot adequately face up to the international dimension of the economic phenomena they are trying to control”. Infatti, “the smaller countries of the Community, for their part, share the situations of one or other group of the larger countries except that the external constraints on the effects of any economic policy measures that they will take. The result is a sort of economic stalemate. The countries which are under no external financial constraint are nonetheless reliant on the weaker countries for the effectiveness of their policies. But the more vulnerable countries are themselves unable to act on the basis of the collective economic and financial strength of the Community as a whole”. The integration of the Community in the face of enlargement. The Right Hon. Roy Jenkins, President of the Commission of the European Communities, address to the Deutsche Gesellschaft fur Auswartige Politik. Bonn, 8 December 1977, ora in http://aei.pitt.edu/10986/.

[65] Cfr. K. Spohr, The Global Chancellor. Helmut Schmidt and the Reshaping of the International Order, Oxford University Press, Oxford 2016, pp. 10-18.

[66] The integration of the Community in the face of enlargement. cit.

[67] E. Mourlon-Druol, A Europe Made of Money. The Emergence of the European Monetary System, Cornell University Press, Ithaca-London 2012.

[68] P. Ludlow, The Making of the European Monetary System cit., pp. 92–94.

[69] Fr. B. Olivi, L’Europa difficile, cit., pp. 181-183.

[70] K. Morgan, Callaghan. A Life, Oxford University Press, Oxford, 1997.

[71] TUC Report, June 1978, p. 308.

[72] TUC Reports, 1978.

[73] “The Times”, 4 novembre 1978.

[74] Labour Party Conference, 1978, p. 5.

[75] H.M. Treasury, Green Paper on European Monetary System presented to Parliament by the Chancellor of the Exchequer by Command of Her Majesty, November 1978, London, HMSO; “Times”, 16 ottobre 1978.

[76] P. Ludlow, The Making of the European Monetary System cit., p. 217.

[77] I. Favretto, Gran Bretagna, Unicopli Milano, 2014, p. 248.

[78] M. Gilbert, Storia politica dell’integrazione europea, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 122.

[79]  E. Mourlon-Druol, A Europe made of Money cit., p. 227.

[80] La definizione è di D. Sasson, Cento anni di socialismo. La sinistra nell’Europa occidentale del XX secolo, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 391, ma più in generale cfr. A. Geddes, The European Union and British Politics, Palgrave, London 2004. Per una recente analisi sulla Brexit, tra gli altri, si rinvia a La Gran Bretagna dopo la Brexit, a cura di G. Baldini, il Mulino, Bologna 2016; L. Chikhoun, Le Royaume-Uni et l’Europe, L’Harmattan, Paris, 2016; J. Todd, The Uk’s Relationship with Europe: Struggling over Sovereignty, Palgrave MacMillan, London 2016. Mentre per ricostruire le principali coordinate del dibattito tra i socialisti europei si rinvia a P. Borioni, Il socialismo europeo dalla Commissione Delors alla crisi politica dell’Unione, in Il socialismo europeo e il processo di integrazione, a cura di S. Cruciani, FrancoAngeli, Milano 2016, pp. 173-191; Contro l’Europa? I diversi scetticismi verso l’integrazione europea, a cura di D. Pasquinucci, L. Verzichelli, Il Mulino, Bologna 2016.

[81] M.E. Guasconi, Europe and the EMS Challenge cit., pp. 188-189.

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    By: Maria Paola Del Rossi

    Maria Paola Del Rossi, dottore di ricerca in Storia del movimento sindacale, è docente a contratto presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Teramo e ricercatrice della Fondazione Giuseppe Di Vittorio. Tra le sue pubblicazioni Donatella Turtura : rigore, umanità, ragione e passione di una grande sindacalista, Ediesse, 2008; Rinaldo Scheda : l’importanza dell’organizzazione, Ediesse, 2011; Tra l’incudine e il martello. La satira ai tempi di «Lavoro», ( con Ilaria Romeo), Roma, 2013; Lavoro e sindacato nei 150 anni della storia d’Italia, (a cura di, con Gloria Chianese), Roma, 2013.

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