Non nascondo che l’ambizione di questo mio breve contributo, in origine e nelle intenzioni, era ben diversa; sarei voluto riuscire a tratteggiare, puntualmente, un parallelo tra l’evoluzione della norma paradigmatica, archivistica o amministrativa, e le ricadute, reali o presunte, sullo svolgersi della professione archivistica. Ora, la fase di documentazione propedeutica a queste poche righe è coincisa con l’organizzazione di un evento formativo per archivisti liberi professionisti[2]; la concomitanza tra i due momenti mi ha portato a riflettere su questioni più generali e piuttosto basilari.
La norma a che livello e in che termini di profondità influisce sulla figura di un archivista libero professionista, quindi figura che generalmente non è incardinata in una qualche struttura dello Stato, centrale o periferica che sia[3]?
Mi chiedo se sembri una questione mal posta; a tutti gli effetti però, il sentirsi archivista in un ambiente che prevede massima libertà nel riconoscimento della professione (o nel non riconoscimento) qualche problema di identità in più, rispetto alla media[4], lo genera.
Se volgendo lo sguardo lato committenza, quindi, scorgo più labilità nella percezione della figura, dando per scontato che in ambito pubblico la percezione sia meglio definita (almeno in teoria), provo a cambiare prospettiva e a valutare la questione dal verso opposto, non quello dell’ambiente dove esercito la mia professione ma il luogo nel quale quest’ultima si apprende.
Sarà evidente, per chi mi legge, che il mondo della formazione non è il mio; qualche considerazione, seppur sommaria, riesco comunque a metterla insieme.
Da un lato le Scuole di Archivistica Paleografia e Diplomatica; scuola, e titolo, storicamente necessaria (ora un po’ meno) per l’archivista nello Stato. Se, da un lato, in questa, si formano figure con una buona percezione del ruolo, dall’altro, educando la scuola all’archivistica più istituzionalmente intesa, storica e col necessario corollario di tecniche di interpretazione dello scritto e del documento, fatalmente transige sul contemporaneo, inteso anche in termini più propriamente archivistici di deposito e di corrente.
Dall’altro la formazione universitaria; noto, in questo caso, una maggiore apertura al contemporaneo, apertura che risulta depotenziata da un vizio di fondo; il fatto che l’ambiente in cui si sviluppano i corsi di laurea in archivistica (con una certa soddisfazione non ho percezione esatta della ripartizione in ‘triennali’, ‘specialistiche’ che sono ‘magistrali’, ‘facoltà’ che sono ‘dipartimenti’, ‘classi’, ecc.) sia comunque di carattere storico-letterario impedisce concreta attuazione dello slancio in avanti verso il nuovo, sia questo nuovo relativo ai supporti, ai ruoli, al diritto o al mercato.
Terza poi, la formazione al di fuori della Scuola o della Laurea. In linea di massima, mi riferisco a Master e specializzazioni (qui il Dottorato non fa testo); è quanto mi auguro che ogni archivista possa frequentare, proprio per l’intento professionalizzante e orientato al lavoro. Ma come scegliere tra l’offerta spesso sovrabbondante? Come valutare programmi a volte mirabolanti che poi si rivelano ripetizioni di corsi universitari già sostenuti? Esiste il rischio di ridurre l’oggettività della scelta sulla sola autorevolezza della docenza, sulla conoscenza diretta della stessa e sul passaparola.
Che formazione vorrei quindi aspettarmi da un archivista con il quale incrociare il mio cammino? Allo stato attuale dovrei augurarmi che sia in possesso di titoli provenienti da tutti e tre gli ambiti suddetti ed ancora, temo, non sarebbe sufficiente.
Non faccio mia la polemica tra i fautori della formazione versus coloro che parteggiano per l’addestramento e non sto a sottilizzare troppo tra i concetti di professione e mestiere, non uso i primi a discapito dei secondi e viceversa.
Sono per la sintesi. Quindi una solida base teorica, che riprenda i contenuti della Scuola e che li contemperi con una multidisciplinarietà possibile solo all’interno dell’Università; che questa multi/interdisciplinarietà sia vera, però. I futuri archivisti devono formarsi anche in diritto ed in economia, devono frequentare banchi a cui sono seduti anche informatici, avvocati ed architetti (per citare solo tre categorie). Questo, non per diventare altro da sé ma per aver cognizione degli altri mondi che, direttamente o indirettamente, si troveranno a governare. E questi altri mondi, che servono per operare correttamente in ambienti ed archivi diversi, servono anche per l’esercizio stesso della professione: un archivista sul mercato deve essere imprenditore di se stesso, con relativi oneri, più che onori. Questa conoscenza, oltre la base comune, di metodo, deve venire dopo; in fondo, il 3+2 universitario potrebbe servire, e molto, a questa impostazione. Per tutto quello che viene oltre, le vette della specializzazione e della professionalità, si può demandare a Master e Scuole di specializzazione.
Rimangono i nodi dell’addestramento che taluni vedono ancora, evidentemente, come uno sporcarsi le mani che è svilimento della professione. Non capisco perché se pure un medico fa pratica di cura (e lo fa per anni, in alcuni casi anche su corpi veri e donati per questo scopo) la stessa pratica non possa essere perseguita da noi archivisti, sotto la guida di soggetti più esperti per una vera esperienza delle tipologie d’archivio e di documento di interesse.
Ecco quindi, non tutti gli archivi e non tutti i documenti; io, personalmente, mai mi sognerei di occuparmi di documentazione antica, di pergamene e sigilli, giusto ad esempio. Perché si assume per scontato che un archivista possa passare senza scrupolo alcuno da un comunale ad un parrocchiale, da una bolla pontificia ad una firma grafometrica, dalla redazione di un indice cartaceo alla progettazione di un sistema di gestione documentale? Non è che questa tendenza a voler far tutto, saper tutto, ci ha portato a non saper più far nulla e al conseguente, severo ma giusto, giudizio del mondo?
Se così fosse, tale tipo di specializzazione prevedrebbe figure di archivisti che su una base comune si andrebbero ad orientare, specializzandosi in settori specifici. Mi si permetta, ancora, il parallelo medico; dopo gli anni comuni della facoltà di medicina, la specializzazione permette al già medico di diventare a tutti gli effetti cardiologo, neurochirurgo o anatomopatologo.
Se, come credo, il parallelo medico non sia un paragone al ribasso, perché non immaginare lo stesso per la professione archivistica? Pare che le cose, invece, volgano verso altri lidi[5].
La proposta sul piatto (almeno quella che io ho visto) prevede la definizione della professione in un succedersi di conoscenze, abilità e competenze che vanno a comporre, complicandosi, le tre fasce della professione, corona, secondo me, il definitivo stacco della realtà di una professione che lascia il mondo del lavoro e prova, non so con quale esito a diventare altro da sé.
Un archivista che accetta una commessa, opererà generalmente in questo modo: colloquierà col committente, effettuerà un sopralluogo, predisporrà un censimento del patrimonio oggetto dell’intervento, comporrà un progetto di intervento, attuerà l’intervento, si occuperà delle opportune azioni di salvaguardia e condizionamento, metterà in campo azioni di studio e valorizzazione, integrerà i sistemi di descrizione risultato del suo intervento con altre banche dati, contabilizzerà il lavoro, saluterà e se ne andrà oppure rimarrà, dopo aver compilato opportuna convenzione, ad occuparsi della gestione quotidiana del fondo, ora riordinato.
Nel mondo che io mi immagino, se si tratta di un fondo di un comune ci saranno archivisti specializzati in quel senso, se è di impresa lo stesso, e così via.
Ma se la professione non sarà organizzata in modo verticale per tipologie omogenee e se sarà invece trasversale e per competenza (e uso questa sola parola che rinvia direttamente ad un ambito pubblico e a relativo ‘mansionario’), per l’infilata di operazioni sopra descritte, di quanti archivisti diversi avrò bisogno: 2, 5, 10[6]?
Andrò probabilmente contro le prospettive europee e questo mio semplice testo/sfogo mi attirerà le critiche dei più, ma vedo la professione come un processo unitario che va da zero a cento. È un processo che ha, chiaramente un risvolto umano in termini di crescita e consapevolezza, di arricchimento culturale.
Lo spezzatino a cui possiamo andare incontro non solo danneggerà il nostro prodotto (che è l’aspetto peggiore), danneggerà anche noi, il nostro sentire e sentirsi archivisti professionisti, perderemo ancor più il senso di chi siamo e cosa facciamo.
Riferimenti bibliografici
Per un interessante e rapido sguardo sull’evoluzione del mondo archivistico, tra formazione e mercato:
PRATESI, ALESSANDRO, a cura di, (1992): Formazione e aggiornamento di archivisti e bibliotecari: problemi e prospettive, Bulzoni Editore, Roma.
Sulla formazione degli archivisti trovo validissimi i concetti espressi, al di là del feeling negativo sull’addestramento alla professione, da Giorgetta Bofiglio-Dosio nel suo contributo “La formazione degli archivisti” in:
GIUVA, LINDA e GUERCIO, MARIA, a cura di, (2014): Archivistica. Teorie, metodi, pratiche, Carocci Editore, Roma.
Più specificatamente per intendere cosa ci sia sopra e sotto, davanti e dietro, dentro e fuori un archivista segnalo:
VALACCHI, FEDERICO (2015): Diventare Archivisti, Editrice Bibliografica, Milano.
In tutti i casi segnalati è copiosa la normativa di riferimento segnalata.
[1] Non produrrò riferimenti bibliografici puntuali, se non solo dove davvero necessari per l’orientamento di senso e della norma. Rimando, per una conoscenza generale dei termini tra i quali scaturisce questa semplice riflessione ai titoli citati in bibliografia, tra l’altro volutamente essenziale.
[2] Curo, da qualche anno, per l’Associazione Archivisti in Movimento di cui sono attualmente vice presidente, l’organizzazione delle cosiddette Summer School.
[3] Mi permetto di non sostanziare sfumature che caratterizzano l’archivista ‘pubblico’; per quanto voglio dire basti intendere la differenza di posizione tra questo e l’archivista che opera completamente in ambito privato.
[4] Non credo che sia un caso se, anche dopo l’approvazione delle Legge 4/2013 sulle professioni non organizzate in ordini e collegi, non si sia ancora addivenuti ad una definizione della professione archivistica sul libero mercato.
[5] Riporto, per sola informazione, il quadro generale in cui si sostanzia la questione del riconoscimento e delle caratteristiche della professione. L’iscrizione ad un elenco nazionale degli archivisti, con conseguente definizione dei criteri per l’iscrizione stessa è regolato dall’articolo 2 della Legge 110/2014; la creazione degli elenchi stessi non può prescindere dal confronto con la norma UNI 11536, pubblicata sempre nel 2014, e dal Quadro Europeo delle Qualifiche (vedasi le raccomandazioni 2008/C11/01 e 2009/C155/02); in armonia con questo ultimo è l’Accordo del 20/12/2012 della Conferenza Stato-Regioni-P.A. sulla referenziazione del sistema italiano delle qualificazioni.
[6] Quanto sostengo non è in contraddizione con l’assunto che l’archivista sappia fare bene una sola cosa; fare bene l’archivista è saper riconoscere quali professionalità raccogliere intorno ad un progetto. Per la valorizzazione serve uno storico, lo si contatta; per l’armonizzazione di sistemi informativi serve un informatico, lo si contatta. Serve averli conosciuti, torniamo alla fase di formazione, serve coordinarli, torniamo alla unitarietà della professione.