Con le biografie dei prigionieri di Dunaszerdahely in Ungheria
Luigi Pellegrini Editore, 2018 Cosenza
La pubblicazioni del volume di Giuseppe Ferraro è avvenuta in prossimità di una tragica ricorrenza: il primo centenario della seconda decimazione, compiuta nel luglio 1917 dopo la rivolta dei fanti della brigata Catanzaro. La memoria di quell’episodio di repressione interna al Regio esercito – raccontato nel primo diario di Barberio – è parte del progetto in cui il volume è inserito. La monografia ha – si legge nell’incipit – l’obiettivo “di lasciare a tutti i calabresi (…) uno strumento di conoscenza e di memoria per un frammento di storia nazionale” (p. 6). Il primo merito da ascrivere all’A. è quindi nell’aver declinato un episodio di storia locale in una dimensione storiografica nazionale, anche grazie alle carte dell’archivio privato di Bernardo Barberio, un ufficiale inferiore (capitano) della Catanzaro. Il tutto in un centenario – quello della Grande guerra – in cui sono stati poco considerati – come scrive Antonio Gibelli nella prefazione al testo – “documenti epistolari, diaristici e memorialistici italiani relativi all’esperienza della detenzione in Ungheria” poiché episodi rari, certamente più oscuri “di quelli che si riferiscono ad altri campi degli imperi centrali” (p. 12). L’esperienza della prigionia di Barberio – narrata invece nel secondo diario – è esemplare delle pratiche di conservazione attraverso cui una scrittura di una memoria famigliare non inizi o cessi con la guerra, ma sia invece stratificata nei decenni successivi.
Su questo terreno spinoso, l’A. si muove con equilibrio tra storia e memoria, dimostrando sin dalle prime battute una particolare sensibilità nell’utilizzo delle fonti, nonostante un iniziale – e in parte discutibile – posizionamento tematico per cui, alla giustamente citata “dimensione socioeconomica medio alta” del testimone principale, viene attribuita – sic et simpliciter – una empatia “per provenienza geografica e tessuto sociale di frequentazione” col “mondo delle classi subalterne” (p. 15). Sul punto specifico, la misurazione della distanza tra la quotidianità di soldati e ufficiali nella Grande guerra non può certamente avvenire attraverso lo studio di una “storia dal basso”, essendo il tema strettamente legato all’analisi delle istituzioni militari nel loro complesso, come dimostrato ampiamente negli studi degli anni Novanta di Giorgio Rochat (Ufficiali e soldati. L’esercito italiano dalla prima alla seconda guerra mondiale, 2000).
Tra i punti di forza del volume rileviamo la capacità di cogliere il momento preciso del passaggio dalla cultura dell’oralità alla scrittura, e di saper descrivere – in maniera molto convincente – come divenne un fenomeno generalizzato nella Grande guerra. In questo caso, le vicende di Barberio parlano e dicono di molti altri, soldati e graduati, finalmente assieme. Non a caso, dopo aver presentato con una breve biografia il capitano di fanteria, l’A. procede in una convincente analisi attraverso sette temi principali: “Partire per il fronte”; “Nelle retrovie del fronte”; “Il battesimo di fuoco”, “La vita di trincea”; “La testa e il corpo: ufficiali e soldati”; “La natura” e “La prigionia”. Proprio quest’ultimo appare come il più innovativo, anche grazie ad un rimarchevole confronto con la storiografia internazionale, affiancato da un costante richiamo metodologico al testo che ha fatto scuola in materia (Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra: con una raccolta di lettere inedite, 1993). Viene qui perfettamente ricalibrata la distanza tra le diverse prigionie: “per quanto riguardava il tenore di vita dei prigionieri bisognava distinguere tra i diversi campi e soprattutto tenere presente che gli ufficiali ricevevano generalmente un trattamento migliore rispetto alla truppa” (p. 64). Grande interesse riveste la sezione dedicata alla quotidianità della fame: nel diario di Barberio sono molte le note dedicate al dramma; ed una fonte ragguardevole è qui rappresentata dalle liste dei poveri pasti consumati, incredibilmente restituite al ricercatore tra le carte dell’archivio privato (p. 105). Raffinata è l’interpretazione di alcuni passaggi del diario Barberio, una testimonianza in cui lumeggia – ma con pudore – la vergogna che la prigionia provocò in molti: “L’esperienza di prigionia rappresentò anche per queste ragioni un momento della vita militare da nascondere, magari custodendolo gelosamente nelle pagine di un diario” (p. 130).
La seconda parte del volume riguarda la trascrizione dei diari, operazione che l’A. riesce a rendere perfettamente organica alle sezioni precedenti. Dobbiamo leggere le prime pagine del lavoro come una imprescindibile mappa concettuale per poi rintracciare i passaggi più ricchi della fonte indagata. Il “Diario sulla vita al fronte” prende le mosse dal maggio 1915 e procede con un ritmo incalzante. Nella testimonianza veniamo trasportati dalla provincia di Cosenza al fronte dell’Isonzo, mentre Barberio riesce a consegnarci una descrizione minuta dai paesi attraversati assieme ad alcune considerazioni sull’assuefazione alla guerra da parte dei combattenti: “Ai soldati però non fanno ormai più alcuna impressione tali scoppi; essi anzi vi assistono ridendo inerpicandosi sui gelsi che sono nell’accampamento allo scopo di veder meglio” (p. 138). La considerazione del Barberio è ben soppesata all’interno di un diario in cui compaiono – da buon ufficiale – esternazioni di un prevedibile patriottismo che sembrano trovare perfetta sintesi nell’incontro con un “giovane simpatico ed ardito” di nome Filippo Corridoni (p. 150). Non mancano lucide analisi di un professionista delle armi: “Ormai è noto che la guerra attuale può proficuamente richiedere anche l’impiego di persone anziane essendo la vita di trincea tale da potere anche essere sopportata da persone mature” (p. 154). Di raro pregio è il “Diario sulla prigionia a Dunaszerdahely” (p. 166), una testimonianza preziosa delle umiliazioni patite dai prigionieri italiani – costantemente sotto la lente d’ingrandimento degli agenti di polizia a caccia di “qualche irredento sotto falso nome” (p. 168) – e che racconta della fame costante nell’ozio coatto: uno spazio ancestrale, quasi allietato da sparuti fagioli sconditi. L’isolamento totale non impedisce a Barberio di cogliere gli avvenimenti fuori dal filo spinato: su tutti la rivoluzione scoppiata a Budapest da cui nasce la Repubblica democratica ungherese. Un evento epocale, che segnò di fatto l’indipendenza da una monarchia asburgica dominante da circa quattro secoli, e riportato da Barberio con una virata poetica che celebra gli eventi successivi: “L’Austria è crollata al soffio delle nuove idee come le mura di Gerico al suono delle trombe ebraiche” (p.170). Il volume si chiude con un elenco – parziale ma indicativo – dei prigionieri di Dunaszerdahely. Tale appendice rappresenta certamente un’opera di scavo archivistico complessa. L’A. ha operato una raccolta di fonti disparate tra cui ruoli matricolari, registri di prigionia, stati di servizio e carte private. I risultati appaiono davvero importanti e si notano anche solo scorrendo le tabelle articolate in “Dati anagrafici”, “Grado”, “Anzianità e reparto”, “Data e luogo di cattura”, “Data arrivo nel campo e provenienza”, “Titolo di studio e stato di famiglia” ed “Altre notizie: residenza civile, partenze e trasferimenti campo” (pp. 177-253). Visto il numero dei militari schedati (684), l’A. avrebbe potuto aggregare qualche dato quantitativo (ad esempio, la classe di nascita dei prigionieri). Allo stesso modo sarebbe risultata utile qualche nota critica, o meglio interpretativa. Preme ricordare però che questo non era certo l’oggetto del bel saggio storico che dice invece molto sulla scrittura popolare durante la Grande guerra, andando a scandagliare un archivio privato e consegnando agli addetti ai lavori uno spaccato di una prigionia su un fronte troppo spesso dimenticato. Muovendosi inoltre diacronicamente tra dimensione privata e sfera pubblica, l’A. disegna un profilo credibile di un “medio” ufficiale inferiore del Regio esercito. In conclusione, appare azzeccata la scelta di lasciar parlare il testimone in una sezione ben precisa del volume, non ricorrendo – nella prima parte – a numerose citazioni dalla memorialistica che avrebbero delegato al testimone dei fatti ciò che resta responsabilità dell’A.