Introduzione
«Con il termine neomedievalismo indichiamo una rottura con l’era vestfaliana e il fallimento della sua incarnazione istituzionale modernista: l’Unione europea»[1]. Così Jan Zielonka tracciava, pochi anni fa, l’ipotetico scenario destinato a succedere all’attuale crisi di legittimazione dell’integrazione europea. Secondo l’allievo di Dahrendorf, il tramonto dell’Ue non produrrebbe caos o un mero ritorno della politica di potenza ma nuove forme di integrazione, rinunciatarie di ogni “velleità paneuropea” e fondate su dinamiche di carattere funzionale piuttosto che territoriale. Il concetto di “neomedievalismo” viene del resto fatto equivalere a quello di “polifonia”, il quale «non presuppone unità e ordine gerarchico, ma trae forza e funzionalità da più insiemi di relazioni indipendenti e contrappuntistiche»[2]. Fuor di metafora, in un futuro prossimo l’esercizio dell’autorità politica si caratterizzerebbe pertanto per giustapposizioni di competenze, sovranità frazionate, istituzioni differenziate, identità multiple. Il neomedievalismo, in sostanza, pur non implicando necessariamente la morte degli Stati nazionali europei, comporterebbe «una maggiore rilevanza di altre entità politiche amministrative, che siano le grandi città o le Regioni»[3]. Nelle suggestioni di Zielonka, il doppio filo che a lungo ha tenuto assieme Europa e Regioni, nelle sue forme storiche, viene dunque reciso e il rapporto di codeterminazione tra i due elementi messo in dubbio, dopo decenni in cui una parte del dibattito politico lo ha presentato come necessario – basti pensare al topos dell’“Europa delle Regioni”, tipico degli anni Settanta del Novecento[4] – e la letteratura scientifica lo ha scandagliato attraverso la diade europeizzazione-regionalizzazione.
Questo breve contributo non si pone l’obiettivo di ripercorrere l’intero mare magnum della riflessione scientifica sul rapporto europeizzazione-regionalizzazione, ma di intraprendere una ricognizione di carattere teorico e metodologico, alla luce degli opposti paradigmi dell’organizzazione gerarchica e dell’organizzazione funzionale.
Uno degli aspetti che ha caratterizzato la storia politica, istituzionale ed economica dell’Europa nella seconda metà del Novecento è stata certamente la coesistenza del processo di integrazione europea e dei fenomeni di regionalizzazione degli ordinamenti statali. In particolare, gli anni Settanta del Novecento sono stati definiti come il “decennio del decentramento”, mentre l’ultimo scorcio del secolo ha assistito a un sensibile protagonismo delle autonomie locali in Europa[5]. Fenomeni come il ruolo crescente delle Regioni e delle città nell’ambito dei fondi strutturali, la tendenza a sviluppare forme di para-diplomazia regionale, la creazione di reti europee per la rappresentanza degli interessi locali a Bruxelles e l’avvio di forme di cooperazione trans-frontaliera hanno fornito l’impressione di un rimescolamento nella distribuzione del potere politico e istituzionale su scala continentale. Questi fenomeni hanno da tempo stimolato la riflessione storica, giuridica e politologica sulle trasformazioni della sovranità e le forme di riorganizzazione dello Stato-nazione, sollevando l’interrogativo del grado di “codeterminazione” esistente nel parallelo emergere dei poteri sub-statali e di quelli sovranazionali.
Europeizzazione è regionalizzazione?
Diverse sono state le analisi del nesso integrazione europea-regionalizzazione, nel tentativo di comprenderne la natura e descriverne le conseguenze rispetto al ruolo dello Stato, alle trasformazioni della sovranità e ai mutamenti delle politiche pubbliche. In questo senso, occorre muovere dalla centralità che negli ultimi due decenni ha assunto la categoria di “europeizzazione”, intesa come l’impatto prodotto dall’integrazione europea su istituzioni e politiche nazionali, sia centrali che regionali/locali[6].
Il ragionamento attorno a questo tema prese le mosse alla metà degli anni Novanta, con la reazione all’intergovernamentalismo liberale di Andrew Moravcsik e alla sua visione stato-centrica, secondo la quale l’Ue si stava risolvendo in un rafforzamento dei governi nazionali[7]. I critici di Moravcsik evidenziarono piuttosto come l’arena europea offrisse, ai molteplici attori interni agli Stati, differenti “opzioni” nella scelta dei propri interlocutori, sottolineando le inedite distribuzioni di potere tra livelli multipli di autorità[8]. Proprio in quegli anni il filone della multi-level governance theory stava mettendo in evidenza l’intreccio tra ordinamenti sovranazionali, nazionali e regionali in Europa, in virtù del quale competenze un tempo appannaggio esclusivo degli Stati sembravano passare a scale diverse rispetto al tradizionale potere centrale di marca moderna[9].
Questa contrapposizione ha rappresentato l’innesco di una nuova stagione di riflessione, avviata alla fine del secolo scorso, durante la quale la categoria di europeizzazione è stata esplicitata e sottoposta ai primi tentativi di formalizzazione. La prevalenza di un approccio neoistituzionalista – nelle sue tre versioni razionalista, storica e sociologica – ha spinto a impostare il problema in termini di stimolo-risposta, guardando cioè ai mutamenti nelle relazioni di potere, nelle norme, nelle pratiche e nella circolazione di idee e culture, innescati a seguito del tentativo degli attori interni – istituzioni, governi, partiti, gruppi di interesse, imprese – di reagire agli impulsi provenienti dal livello europeo[10]. Di conseguenza, riflessioni teoriche e indagini empiriche si sono orientate al criterio di “conformità” interna rispetto al dato sovranazionale/esterno, secondo il modello esplicativo del fit/misfit framework. L’impronta lineare e causativa dall’approccio stimolo-risposta ha finito inevitabilmente per sollevare la questione di quale fosse la direzionalità delle dinamiche di europeizzazione, ovvero se questa fosse da intendere come fenomeno top-down o anche “orizzontale”. Alcuni studiosi hanno tentato di stemperare la forte matrice verticale e gerarchica della categoria introducendo alcuni elementi di mediazione, come la “vulnerabilità economica”, la “capacità politica e istituzionale”, l’eredità delle culture politiche, il ruolo delle preferenze politiche e degli elementi discorsivi[11]. Altri hanno prefigurato un processo a “doppia chiave”, tenuto assieme da una dimensione “top-down” e da una “bottom-up”, in base alla considerazione per cui i singoli stati membri sarebbero interessati a imporre i propri modelli di policy a livello europeo, al fine di minimizzare i conseguenti costi di aggiustamento[12]. Ulteriori contributi, come quelli di Redaelli e di Börzel-Risse, hanno suggerito inoltre approcci empirici, utilizzando tassonomie a quattro o a tre livelli per classificare le fasi dell’adattamento agli stimoli dell’europeizzazione[13]. Ciò è apparso utile soprattutto a riconnettere la variabilità delle risposte di adattamento riferibile all’azione di un principio causativo unitario.
Negli ultimi anni gli Europeanisation studies hanno infine accettato una prospettiva “post-ontologica” e costruttivista, guardando all’integrazione europea come progressiva configurazione di «un set di spazi di policy» o di strutture multiple di governance che si differenziano per i contenuti e per i modi con cui i poteri sovranazionali producono effetti e sollecitano risposte nazionali o subnazionali[14]. Le teorie sull’europeizzazione hanno in ogni caso mantenuto molti tratti tradizionali, come l’insistenza circa una dinamica gerarchica dei mutamenti istituzionali, politici e culturali, le persistenti lacune dei tentativi di sistematizzazione teorica e, non ultimo, il problema di fondo di stabilire se ciò che si attribuisce all’europeizzazione sia realmente una sua conseguenza, ovvero se non vi siano altre variabili indipendenti che intervengono nei mutamenti istituzionali e politici interni agli Stati[15].
In questa situazione, ogni sforzo di individuare un collegamento causativo tra europeizzazione e processi di regionalizzazione interni agli Stati membri appare problematico. In primo luogo, molti studiosi hanno mostrato una certa cautela nei confronti delle ipotesi di “accerchiamento” o “superamento” dello Stato[16]. Dopo anni di «iperboli concettuali» volte a descrivere la ritirata, il declino o la riduzione dello Stato, si sono fatte largo considerazioni più prudenti. Per quanto siano indubbiamente mutati i caratteri sostanziali della configurazione statuale moderna, lo Stato si è mostrato una «bestia resiliente» alle trasformazioni e alle riconfigurazioni imposte dalla contemporaneità[17]. In questo senso, l’integrazione europea non avrebbe sottratto ma aggiunto strumenti di policy a sostegno della politica nazionale – alla sola condizione di un esercizio collettivo – in direzione di una “ricomposizione” dei poteri statuali su scala europea[18]. Secondo alcune suggestioni, sarebbe venuto configurandosi in Europa un nuovo spazio politico integrato i cui fondamenti, piuttosto che tendere verso un modello statuale, sembrerebbero richiamare «certe tradizioni pattizie europee di età moderna», che non necessariamente intendono «esprimere sovranità superiori a quelle rappresentate dagli Stati, ma tendono a legami “qualitativamente impegnativi” tra gli Stati stessi, operando in via di integrazione e non di sostituzione di poteri sovrani»[19].
In secondo luogo, è stato sottolineato come, sebbene dagli anni Settanta gli ordinamenti nazionali europei abbiano assistito ad ampi fenomeni di regionalizzazione, al rafforzamento degli enti del cosiddetto “mesogoverno” e a una crescente interdipendenza tra le scale del potere, l’esito di tali sviluppi sia rimasto notevolmente differenziato tra le varie realtà e le Regioni non sarebbero necessariamente emerse come soggetti beneficiari erga omnes di tali fenomeni[20]. Non tutti questi enti hanno saputo o potuto infatti approfittare in egual misura della moltiplicazione dei raccordi politico-istituzionali e finanziari al di fuori del tradizionale rapporto centro-periferia, mentre è stato sottolineato come l’integrazione europea avrebbe esercitato sugli ordinamenti interni pressioni tanto verso il decentramento quanto verso l’accentramento amministrativo e legislativo. Se la spesa dei fondi strutturali e l’introduzione dei partenariati multilivello possono aver contribuito, in qualche caso, al rafforzamento della posizione delle Regioni all’interno degli Stati membri, la mancata assegnazione di un ruolo istituzionale e di rappresentanza politica a questi enti nell’ambito dell’architettura comunitaria avrebbe invece prodotto spinte contrarie, in direzione del recupero da parte degli Stati delle prerogative precedentemente dislocate a livello territoriale[21]. Sotto questo aspetto, Spagnolo ha problematizzato la questione del “deficit democratico” della Comunità europea in termini di “integrazione passiva”, categoria intesa come «un processo in base al quale economie capitalistiche nazionali molto diverse possono integrarsi e adattarsi sempre più alla concorrenza mondiale senza stimolare effetti politici diretti, consentendo così la continuità nelle gerarchie sociali interne»[22].
È indubbio che la politica regionale comunitaria abbia favorito un più frequente ricorso a strategie integrate di sviluppo locale, nelle quali vengono coinvolti organismi europei, poteri statali e autorità regionali[23]. Tuttavia, uno sguardo comparativo ha mostrato come il ruolo delle amministrazioni nazionali sia apparso notevolmente differenziato e, in alcuni casi – come per l’Irlanda e la Francia[24] – sia uscito financo rafforzato dall’appaiamento con l’intervento comunitario. Ciò ha spinto studiosi come Keating a sollevare perplessità circa l’ipotesi che la politica regionale di Bruxelles o altri fattori come il principio di sussidiarietà siano stati realmente alla base di un processo di emarginazione dei poteri ministeriali, facendo leva oltretutto sulla complessità e la grande varietà del “fatto regionale” in Europa, di per sé irriducibile alla nozione di una nuova gerarchia territoriale[25]. Lo stesso Keating e, in tempi successivi, Pasquier, hanno introdotto il concetto di “capacità politica” delle Regioni, per spiegare la differenziata capacità di istituzioni e gruppi di attori regionali di definire modelli di sviluppo e sistemi di interessi territoriali, occupando posizioni strategiche alle diverse scale del potere e costruendo coalizioni per la loro difesa. Tale “capacità” risulterebbe influenzata in particolare da due fattori: il modello di azione collettiva sviluppatosi a livello regionale nel corso del tempo e i caratteri delle politiche pubbliche territoriali esercitate dallo Stato, entro le quali le stesse Regioni si inseriscono[26]. Le ricerche empiriche, non sempre condotte da storici, hanno messo in evidenza l’elevato grado di differenziazione della capacità di mobilitazione degli attori regionali, giungendo alla conclusione che l’europeizzazione delle politiche di sviluppo avrebbe consentito l’attivazione soltanto di quei modelli regionali di azione collettiva già consolidati.
In considerazione di queste molte perplessità, occorre dunque chiedersi se il legame tra europeizzazione e regionalizzazione non sia piuttosto entrato nella riflessione scientifica sulla scorta dell’enfasi attribuita dalla Cee/Ue al principio di “sussidiarietà”, particolarmente forte dalla metà degli anni Ottanta del Novecento. Già nei primi anni di questo nuovo secolo, politologi come Caciagli si dicevano poco convinti che fra europeizzazione e regionalizzazione ci fosse stato «un chiaro rapporto di causa/effetto e che questo rapporto sia stato reciproco», ventilando l’ipotesi che si sia trattato di due processi paralleli[27].
Complessità sociale e differenziazione funzionale
L’insoddisfazione per gli schemi interpretativi del neoistituzionalismo e verso una concezione gerarchica nei rapporti multi-scalari delle diverse forme di potere che, come si è visto, non consentono di attingere pienamente il significato dei fenomeni di europeizzazione e regionalizzazione né il loro supposto legame, impone a questo punto di esplorare altre strade. Una soluzione consisterebbe nel considerare il rescaling del potere, di cui l’integrazione europea e la regionalizzazione sono espressione, come una forma di riconfigurazione e differenziazione dell’esercizio del potere politico contemporaneo in Europa, in reazione alle spinte disgregatrici della mercatizzazione e della modernizzazione tecnologica, limitativi della capacità di government.
Sociologi politici come Urry, Lash e Offe hanno a tal proposito fatto ricorso al concetto di “capitalismo disorganizzato” per descrivere la frammentazione dei contesti economico, istituzionale e sociale contemporanei[28]. L’interazione organizzata tra capitale e lavoro, tipica dei modelli fordisti e neomercantilisti, si è interrotta a seguito dei processi di ristrutturazione economica intervenuti dagli anni Settanta del secolo scorso. Fenomeni come le trasformazioni tecnologiche, i mutamenti finanziari, l’informatizzazione, l’internazionalizzazione del capitale, la fine della piena occupazione e la frammentazione sociale in gruppi distinti di interesse hanno avuto un ruolo determinante nelle crisi debitorie e fiscali degli Stati e, più in generale, nell’impedire l’assolvimento da parte dei poteri pubblici della funzione “creativa” dell’ordine sociale, con gravi implicazioni sulla partecipazione, la rappresentanza politica e la gestione dei conflitti distributivi[29]. La traccia da seguire non è dunque quella del superamento o della dissoluzione dello Stato ma della crisi di legittimazione del potere politico all’intenro di specifiche strutture di sovranità[30].
In sostanza, il potere contemporaneo sarebbe sempre meno in grado non solo di governare ma anche di contemplare la complessità sociale, la quale sottende alla peculiare configurazione che le relazioni sociali hanno assunto nell’ambito delle società post-industriali, a causa dei crescenti processi di differenziazione. Com’è noto, muovendo dalle ipotesi di Durkheim, Weber e Parsons, Luhmann ha suggerito che l’organizzazione sociale si sia “evoluta” attraverso il susseguirsi di fasi diverse di differenziazione: a quella segmentaria per famiglie e clan, espressa dalle società primitive, sarebbe succeduta quella per stratificazione, tipica delle società cetuali e, infine, quella funzionale. Quest’ultimo stadio corrisponderebbe alla condizione delle società di epoca moderna, caratterizzate da un’ampia varietà di sottosistemi funzionali – dall’economico al politico, dal diritto alla scienza alla famiglia e via discorrendo – presenti all’interno di ciascun sistema sociale. Tali sottosistemi, con le loro articolazioni, svolgono funzioni specifiche rispetto al sistema originario dal quale si sono differenziati e, per tale ragione, dispongono di strutture organizzative e criteri di funzionamento sempre più specializzati e autonomi, producendo una grande varietà di significati, linguaggi, conoscenze e valori, vale a dire di quei codici funzionali che normano ogni sottosistema mettendo in azione i meccanismi di distinzione e classificazione rispetto all’ambiente esterno[31]. Da questa specifica forma di differenziazione funzionale discenderebbero alcune conseguenze decisive. Alla progressiva tendenza all’autonomia dei codici funzionali – redditività e non redditività, possesso e mancanza di potere, legale e illegale, vero e falso – si accompagnano fenomeni di crescente interdipendenza fra i vari sottosistemi e il superamento delle tradizionali istituzioni gerarchiche che hanno a lungo incorporato al loro interno le più svariate funzioni, dal potere politico alla sovranità, alla riproduzione culturale e all’economia[32].
Occorre ammettere che la ricezione della System Theory e del pensiero di Luhmann negli studi storici si è rivelata piuttosto complessa, suscitando diverse perplessità[33]. Ciò nondimeno, è possibile distinguere diverse fasi nell’elaborazione intellettuale del sociologo tedesco e, indubbiamente, l’apparato concettuale precedente l’incontro con la teoria dell’autopoiesi dei biologi Maturana e Varela offre alcune opportunità alla riflessione storiografica[34]. Lo stesso Zolo, tra i maggiori interlocutori di Luhmann in Italia, si è del resto dichiarato «poco interessato alla fondazione evoluzionistica di una teoria della complessità sociale», attribuendo maggiore rilevanza all’analisi dei sistemi politici contemporanei «sotto il duplice profilo del loro attuale livello di complessità e della possibilità che, in un contesto di circostanze specifiche, questo livello aumenti o diminuisca in un futuro prossimo»[35].
Dunque, muovendo dalle suggestioni della teoria dei sistemi, il legame tra europeizzazione e regionalizzazione non si articolerebbe secondo schemi gerarchici o stratificazioni tali da sottendere direzionalità top-down o bottom-up – come può invece suggerire un classico luogo della storiografia qual è il rapporto centro-periferia – ma sarebbe conseguenza del dispiegarsi dei processi di differenziazione funzionale. Europeizzazione e regionalizzazione potrebbero ad esempio segnalare mutamenti nell’ambito del sottosistema del diritto e in quello del potere politico, al fine di rispondere alle turbolenze prodotte in campo economico. La prima sarebbe volta a regolare i modi attraverso cui i cambiamenti strutturali nell’economia globale incidono su quella europea, mediando lo scontro tra i gruppi sociali fautori di un concetto di integrazione come fattore primario della globalizzazione e i sostenitori della creazione di una ben specifica regione economica mondiale[36]. La seconda, invece, rappresenterebbe la tendenza a istituzionalizzare in forme positivizzate di potere il patrimonio identitario delle territorialità, depositato nei discorsi ideologici dei regionalismi e dei micro-nazionalismi, in risposta all’entropia esterna.
Sotto questo aspetto, suggestiva è l’idea di Luhmann, tratta in parte da Gehlen, del diritto e della politica come strumenti di “riduzione della paura”. Come ha sottolineato Zolo, dinanzi alla condizione di rischio il sistema politico ha prodotto strutture organizzative volte a tenere il gruppo sociale in equilibrio con l’ambiente, controllando e filtrando le fonti della paura[37]. Se «l’economia di mercato è un potente fattore di paura per i singoli soggetti nonostante il suo eccezionale potenziale produttivo, o forse proprio per questo», lo Stato sociale ha storicamente rappresentato il tentativo più compiuto posto in essere dal sistema politico di ridurre tali tensioni, facendosi carico dei rischi legati al mercato e alla riproduzione illimitata di una «logica contrattuale e concorrenziale, che suppone la diseguaglianza economico-sociale dei soggetti contraenti o concorrenti»[38]. Allo stesso modo, potrebbe dirsi che, dinanzi al declino delle certezze sociali fornite dallo Stato socialista e dal welfare state occidentale, il principio di identità è intervenuto a supplirli nella loro funzione di regolare e ridurre la paura, fornendo mezzi attraverso cui interrogare la complessità ambientale[39]. Come è stato scritto, l’appartenenza territoriale rappresenta cioè «una materialità nuova dell’agire umano ai fini di potere, in cui lo Stato e la Nazione perdono le maiuscole e sono visti all’opera, entro frammenti più o meno grandi di società civile»[40]. La regionalizzazione e i regionalismi che vi sono sottesi hanno dovuto fronteggiare il “tradimento” dello Stato, consumato attraverso il depauperamento e lo smantellamento dei sistemi di economia mista, tentando attraverso il discorso performativo e distintivo dell’identità territoriale – nei termini già da tempo segnalati da Bourdieu[41] – di surrogare tutto un apparato simbolico, rituale, rappresentazionale e mitopoietico in grado di soddisfare un bisogno diffuso e latente di protezione sociale. Da questo punto di vista, appare meno necessaria la rigida distinzione operata da Gambi tra regionalizzazione e regionalismo, dal momento che l’elemento istituzionale e discorsivo del potere convergono entrambi nella riduzione dell’incertezza introdotta dalle trasformazioni economiche e dalla sempre più ardua attingibilità della complessità sociale[42].
L’approccio sistemico, pur sollevando molte incognite per
un’impostazione propriamente storiografica, sembra dunque aprire prospettive
ermeneutiche in molteplici settori di indagine, oltre a fornire risposte
apparentemente più convincenti rispetto al “nesso”
europeizzazione-regionalizzazione. In virtù della dinamica di differenziazione
funzionale, questi due fenomeni appaiono in definitiva alla stregua di specifiche
topologie del sottosistema del diritto e del potere politico che, nel tentativo
di ridurre la complessità esterna, possono ignorarsi o interferire
reciprocamente l’una con l’altra, più che co-determinarsi in senso lineare.
L’europeizzazione regola la forma che l’integrazione europea assume all’interno
dei singoli spazi di sovranità e, in base ai suoi diversi esiti, può risultare
incoerente rispetto ai tentativi di ridurre la percezione del rischio operata
dalla regionalizzazione. Questi “movimenti di profondità” possono fornire
importanti punti fermi nella valutazione, ad esempio, dell’agency delle
classi dirigenti o delle singole personalità, contribuendo a superare alcune
ambiguità tutt’ora presenti in concetti come quello di “modernizzazione”, a
lungo utilizzato dalla storiografia come criterio interpretativo.
[1] J. Zielonka, Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione europea, Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 98.
[2] Ivi, p. 15.
[3] Ivi, pp. 99-100.
[4] M. Caciagli, Le regioni nell’Unione europea, in «Quaderni di sociologia», n. 55, 2011, pp. 53-63.
[5] Y. Mény, sous la direction de, Dix ans de régionalisation in Europa. Bilan et perspectives, Cujas, Paris, 1982; T. Kernalegenn, Le régionalisme. Quelques pistes théoriques pour une analyse cognitive, in «Civitas Europa», n. 38, 2017, pp. 59-84.
[6] E. Gualini, L’«europeizzazione» delle politiche regionali: mutamento di policy e innovazione istituzionale nel caso italiano, in «Stato e mercato», n. 75, 2005, pp. 487-517.
[7] A. Moravcsik, Why the European Union Strengthens the State: Domestic Politics and International Cooperation, in «CES Working Paper», n. 52, 1994, pp. 1-78.
[8] G. Marks, L. Hooghe, K. Blank, European integration from the 1980s: state centric v. multi-level governance, in «Journal of Common Market Studies», n. 3, 1996, pp. 341-378; W. Sandholtz, Membership matters: limit of the functional approach to European institutions, ivi, pp. 404-429.
[9] L. Hooghe, G. Marks, Multi-level Governance and European Integration, Rowman & Littlefield Publishers, Lanham, 2001; S. Piattoni, Multi-level Governance: a Historical and Conceptual Analysis, in «European Integration», n. 31, 2009, pp. 163-180.
[10] S. Bulmer, Theorizing Europeanization, in Europeanization. A new research agenda, ed. by P. Graziano, M.P. Vink, Palgrave Macmillan, London, 2008, pp. 46-58.
[11] V. A. Schmidt, Europeanization and the mechanics of economic policy adjustment, in «Journal of European Public Policy», n. 6, 2002, pp. 894-912.
[12] J.P. Olsen, The Many Faces of Europeanization, in «Journal of Common Market Studies», n. 40, 2002, pp. 921-952.
[13] T. Börzel, T. Risse, Conceptualizing the Domestic Impact of Europe, in The Politics of Europeanization, ed. by K. Featherstone e C. Redaelli, Oxford University Press, Oxford, 2003, pp. 57-80.
[14] E. Gualini, L’«europeizzazione» delle politiche regionali: mutamento di policy e innovazione istituzionale nel caso italiano, in «Stato e mercato», n. 75, 2005, pp. 487-517: 492. Si veda anche Id., Multi-level Governance and Institutional Change: The Europeanization of Regional Policy in Italy, Ashgate, Aldershot, 2004.
[15] C.M. Radaelli, The Europeanization of Public Policy, in The Politics of Europeanization, cit., pp. 27-56.
[16] N. Brenner, New State Spaces. Urban governance and the rescaling of statehood, Oxford University Press, Oxford, 2004; S. Sassen, Una sociologia della globalizzazione, Torino, Einaudi, 2008.
[17] P. Le Gales, D. King, ed. by, Reconfiguring European States in Crisis, Oxford University Press, Oxford, 2017.
[18] V. Wright, S. Casesse, sous la direction de, La recomposition de l’État en Europe, La Découverte, Paris, 1996; S. Cassese, La crisi dello Stato, Laterza, Roma-Bari, 2002.
[19] B. Curli, “Grande mercato” e nuovi percorsi storiografici sull’integrazione europea, in «Memoria e Ricerca», n. 14, 2003, pp. 5-18. Cfr. anche M. Fioravanti, S. Mannoni, Il “modello costituzionale europeo”: tradizioni e prospettive, in Una Costituzione senza Stato, a cura di G. Bonacchi, il Mulino, Bologna, 2001, pp. 52-53.
[20] L.J. Sharpe, ed. by, The Rise of Meso-Government in Europe, Sage, London, 1993.
[21] M. Savino, Regioni e Unione europea: il mancato “aggiramento” dello Stato, in «Le Regioni», nn. 3-4, 2007, pp. 43-81; per una analisi dei meccanismi di recupero statale delle prerogative regionali, tramite la sponda comunitaria, si veda A. D’Atena, Le Regioni italiane e la Comunità economica europea, Giuffré, Milano, 1981.
[22] C. Spagnolo, The Maastricht Treaty in Hindsight (1949-2007): a Break with “Passive Integration”?, in Back to Maastricht: Obstacles to Constitutional Reform within the EU Treaty (1991-2007), ed. by Id., S. Baroncelli, L.S. Talani, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle, 2008, pp. 1-34: 11.
[23] R. Balme, S. Brouard, F. Burbaud, Coopération interrégionale et genèse de l’espace public européen. Le cas de la façade atlantique, in «Sciences de la société», n. 34, 1995, pp. 79-96.
[24] J. Loughlin, Nationalism, regionalisation and regionalism in Ireland, in The Regions. Factors of Integration or Disintegration in Europe?, ed. by G. Farber, M. Forsyth, Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden, 1996, pp. 79-90. In Francia, la Délégation à l’aménagement du territoire (Datar), insieme ai segretariati generali per gli affari regionali delle prefetture regionali (Sgar) hanno svolto una funzione di guida e coordinamento dell’azione delle amministrazioni subnazionali. Cfr. L. Hooghe, G. Marks, Restructuration territoriale au sein de l’Union européenne: les pressions régionales, in La recomposition de l’État en Europe, cit.; M. Smyrl, Le bénéfices régionaux de la ressource européenne, in Régions. La croisée des chemins. Perspectives française et enjeux européens, sous la direction de E. Dupoirier, Presses de Science Po, Paris, 1998, pp. 109-121.
[25] M. Keating, Is there a regional level of government in Europe?, in Le paradoxes des régions en Europe, ed. by P. Les Galès, C. Lequesne, La Découverte, Paris, 1998.
[26] J. Barry, M. Keating, ed. by, Regions in the European Community, Clarendon Press, Oxford, 1985; R. Pasquier, La capacité politique des régions. Une comparaison France-Espagne, Presses Universitaires, Rennes, 2004.
[27] M. Caciagli, Integrazione europea e identità regionali, in Sistemi locali e spazio europeo, a cura di P. Messina, Carocci, Roma, 2003, pp. 68-84.
[28] S. Lash, J. Urry, The End of Organised Capitalism, University of Wisconsin Press, Madison, 1987.
[29] C. Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, Etas Libri, Milano, 1977; Id., Contradictions of the Welfare State, ed. by J. Keane, Hutchinson, London, 1984.
[30] W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano, 2013.
[31] N. Luhmann, The Differentiation of Society, Columbia University Press, New York, 1982.
[32] M. Ricciardi, La dissolvenza dell’individuale. Luhmann e la semantica storico-sociale, in «Scienza & Politica», n. 41, 2009, pp. 49-65: 57
[33] B. Ziemann, The Theory of Functional Differentiation and the Historu of Modern Society. Reflections on the Reception of Systems Theory in Recent Historiography, in «Soziale System», n. 13, 2007, pp. 220-229.
[34] Il riferimento è a F.J. Varela, H.R. Maturana, Autopiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Marsilio, Venezia, 2001.
[35] D. Zolo, Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 22.
[36] B. van Apeldoorn, Transnational Capitalism and the Struggle over European Integration, Routledge, London, 2002.
[37] D. Zolo, Il principato democratico, cit.; Id., Complessità e democrazia. Per una ricostruzione della teoria democratica, Giappichelli, Torino, 1987.
[38] Id., La riduzione della paura, in «Cosmopolis. Rivista di filosofia e teoria politica», n. 2, 2008, pp. 25-31:29.
[39] R. Petri, a cura di, Regione e storia regionale in Europa. Antitesi o metafora della nazione?, in «Memoria e Ricerca», n. 22, 2006, pp. 107-134, p. 107.
[40] A. Barbanente, B. Salvemini, Rileggere e governare il territorio, in «Meridiana», n. 49, 2004, p. 10-11.
[41] Bourdieu ha suggerito che il discorso regionalista sia «un discorso performativo, mirante a imporre come legittima una nuova definizione delle frontiere e a far conoscere e riconoscere la regione così delimitata, in contrasto con la definizione dominante», Id., L’identité et la représentation. Éléments pour une réflexion critique sur l’idée de région, in «Actes de la recherche en sciences sociales», n. 35, 1980, pp. 63-72.
[42] Per l’interpretazione di Gambi cfr. Id., Regioni costituzionali e regioni altre, in «Società e Storia», n. 49, luglio-settembre 1990, pp. 657-665.