L’Unione europea verso il riconoscimento di valori condivisi L’adesione alla Convenzione europea dei Diritti dell’uomo: un lungo percorso contraddittorio

Il 1° giugno 2010 è entrato in vigore il Protocollo n. 14 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (CEDU). Grazie al nuovo quadro giuridico da esso stabilito, con la modifica dell’articolo 59 diviene possibile l’accesso alla Convenzione da parte dell’Unione europea, così come definito in linea di principio dall’articolo 6 del Trattato di Lisbona (2007) e fino a quel momento precluso dalla natura non statale dell’Unione. Il 7 luglio 2010 sono, quindi, iniziate le discussioni ufficiali destinate a fare dell’Unione europea, rappresentata dalla Commissione durante i negoziati, un membro della CEDU. Al termine di questo processo, l’accordo di adesione verrà siglato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e, all’unanimità, dal Consiglio dell’UE (con il consenso del Parlamento europeo). Una volta concluso, l’accordo dovrà essere ratificato da tutte le 47 parti contraenti della CEDU, ivi comprese quelle che sono anche Stati membri dell’UE.

Diventando il 48° firmatario della Convenzione, l’Unione potrà essere ascoltata nei casi esaminati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, potendovi designare un proprio giudice e offrendo a qualunque cittadino europeo, una volta esperite tutte le vie di ricorso nazionali, una nuova possibilità di ricorso presso tale Corte nei casi di presunta violazione dei diritti fondamentali da parte dell’UE.

La prossima adesione dell’UE alla CEDU costituisce una svolta decisiva nel percorso che i diritti umani hanno dovuto compiere prima di divenire un elemento essenziale dello sviluppo comunitario, come dimostrato dalla storia dell’ultimo decennio e, soprattutto, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000), che ha acquisito valore cogente con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (2009).

La Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), adottata il 4 novembre 1950, era entrata in vigore nel 1953. Oltre ad enunciare i diritti fondamentali che tutti gli Stati membri dovevano rispettare al proprio interno[1], essa istituiva una Commissione ed una Corte europea dei diritti dell’uomo (Strasburgo). In questo modo, a pochi anni dall’adozione di un testo non vincolante come la Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, si era venuto a creare nello spazio europeo un sistema che ha finito col costituire il modello più avanzato di tutela dei diritti umani a livello regionale[2]. Esso, tuttavia, rimaneva distinto dall’ordinamento giuridico comunitario che ha nella Corte europea di giustizia (Lussemburgo) il suo massimo organo giurisdizionale.

L’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo andrebbe incontro, innanzitutto, ad una questione di natura giuridica piuttosto rilevante. Ancora oggi, il meccanismo giuridico della CEDU non si applica alla legislazione comunitaria benché tutti gli Stati membri dell’UE, facendo parte della Convenzione, siano tenuti al rispetto della CEDU nell’applicazione delle leggi dell’Unione. L’adesione dell’UE permetterebbe il superamento di questo paradosso, sottoponendo il sistema giuridico comunitario al meccanismo di controllo della CEDU, così costringendolo allo stesso sistema di tutela dei suoi Stati membri e consolidando la protezione dei diritti umani in Europa. Infatti, essa garantirebbe ai cittadini europei la stessa protezione, a livello comunitario, di cui essi godono a livello dei rispettivi Stati membri. Tuttavia, la portata di questo cambiamento non si limita solamente alla risoluzione delle lacune di natura giuridica prodotte da uno stato di cose simile. In una prospettiva storica, essa riveste, invece, un duplice significato.

In primo luogo, tale adesione soddisferebbe un’istanza rimasta in latenza per oltre trent’anni, a più riprese proposta in qualità di meccanismo capace di consentire l’inserimento dei diritti umani nel processo di integrazione europea. Risale, infatti, al 1979 la prima richiesta della Commissione europea per l’accesso della Comunità alla CEDU, finalizzata a sopperire all’assenza di regole scritte in materia di diritti umani e di libertà fondamentali nella costruzione europea così come edificata sulla base dei trattati fondativi (CECA, Euratom, CEE), che escludevano i diritti umani dal proprio ambito di competenza. Tale iniziativa, risolutamente appoggiata dal Parlamento europeo, non aveva trovato il favore di Stati membri e Consiglio e venne, così, respinta.

Destinato ad essere discusso molto a lungo, il tema dell’adesione della Comunità alla CEDU aveva trovato un rilancio formale nel 1990, sempre da parte della Commissione europea. Ancora una volta, le ragioni che avevano spinto in questa direzione vanno identificate nelle possibilità di maggiore sicurezza e garanzia per i cittadini circa la natura e l’estensione dei loro diritti legittimi. Inoltre, l’adesione comunitaria alla CEDU non avrebbe comportato automaticamente una competenza generale della Comunità in materia di diritti dell’uomo ma nemmeno avrebbe pregiudicato, all’occorrenza, l’inserimento nei trattati comunitari di un catalogo dettagliato di questi diritti[3]. Tuttavia, interpellata su decisione del Consiglio circa la compatibilità dell’adesione alla Convenzione con i trattati, nel suo parere 2/94 sull’Accesso da parte delle Comunità alla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti Umani e le Libertà Fondamentali[4], la Corte europea di giustizia dichiarava che, in base alla legge comunitaria esistente al momento, l’accesso alla CEDU sarebbe andato oltre lo scopo della competenza comunitaria e solo una modifica dei trattati l’avrebbe, cioè, reso possibile[5] (assieme ad una revisione delle disposizioni da parte della CEDU relative all’adesione e all’esecuzione delle sentenze).

In ogni caso, il parere 2/94 della Corte di giustizia doveva essere visto come una richiesta al legislatore comunitario a favore di una modifica del trattato che, tuttavia, non è stata recepita nemmeno con la firma del Trattato di Amsterdam (1997). Infatti, esso enfatizzava l’assenza nel trattato di Maastricht di una base giuridica che offrisse una competenza generale alla Comunità per legiferare in materia di diritti fondamentali. Essendo valido il principio delle competenze d’attribuzione[6], la Comunità non poteva adottare misure per la protezione di tali diritti se non nei limiti del trattato (non-discriminazione in ragione della nazionalità, uguaglianza tra lavoratori di sesso maschile e femminile, ecc.). Allo stesso tempo, però, essa non poteva attentare alla sostanza dei diritti dell’uomo (anche non protetti dal trattato) nel prendere qualsiasi tipo di misura[7].

Se per il momento questa dinamica di ingresso dei diritti umani nella costruzione europea subiva un’ulteriore battuta di arresto, altre modalità si erano intanto attivate in questa direzione. Già dalla fine degli anni Sessanta, infatti, la Corte Europea di Giustizia per prima aveva cominciato a sviluppare una giurisprudenza che riconosceva i diritti fondamentali come parte della cornice legale della Comunità. A questo sviluppo è stato dato un riconoscimento formale sempre maggiore all’interno delle modifiche ai trattati della Comunità, come dimostrato dal Trattato di Maastricht (1992) e dal Trattato di Amsterdam (1997)[8]. Benché essi sancissero la definitiva affermazione dei diritti umani nel percorso di integrazione europea, la questione dell’adesione della Comunità alla CEDU non è venuta meno. Anzi, con gli anni Novanta la portata politica di questa proposta si è notevolmente accresciuta. Infatti, l’adesione alla CEDU avrebbe rappresentato simbolicamente i valori comuni costitutivi della cittadinanza comunitaria e dell’identità europea nel mondo, cementati dalle nuove sfide che si imponevano all’Unione: il mercato unico, la moneta unica e l’allargamento a Est. A tal proposito, questa adesione avrebbe rafforzato la credibilità delle azioni di difesa dei diritti dell’uomo gestite nel mondo dalla Comunità e dai suoi Stati membri, in particolare garantendo il rispetto di questi diritti nei paesi dell’Europa centrale e orientale che avevano aderito al Consiglio d’Europa e che si preparavano a far parte dell’UE a medio termine.

In effetti, sul finire degli anni Novanta, l’adesione dell’Unione europea alla CEDU si configurava anche e soprattutto come passaggio indispensabile per il raggiungimento di un approccio coerente tra la dimensione esterna e la dimensione interna della politica europea per i diritti umani. Il paradosso che aveva contraddistinto l’atteggiamento dell’Unione, infatti, era stato quello di proclamarsi, da un lato, baluardo dei diritti umani tanto all’interno quanto all’esterno, e di sfuggire, dall’altro lato, di fronte all’assenza di un disegno globale e coerente in tale materia, in entrambe le dimensioni. A dispetto del fatto che i principali guardiani dei diritti umani continuassero ad essere gli Stati membri, ciascuno nel proprio territorio, è vero che l’UE si era resa parte attiva nel tempo, affermando il valore del proprio operato anche sulla scena internazionale, condizionando gli Stati terzi attraverso gli accordi di cooperazione e commerciali, imponendo rigidi requisiti in materia di diritti umani per gli Stati che facessero richiesta di adesione, e attuando numerose iniziative di sostegno ai diritti umani a livello della società civile, come con l’osservazione elettorale o l’azione di monitoraggio. In ogni caso, almeno fino alla metà del decennio, l’Unione europea continuava a mancare di una politica per i diritti umani pienamente autonoma, in entrambe le dimensioni. Tuttavia, mentre negli anni 1995-2005 si è assistito ad una significativa evoluzione per quanto riguarda i diritti umani nelle relazioni esterne, col raggiungimento di un approccio globale, coerente ed orizzontale in tale settore, altrettanto non poteva essere detto nella dimensione interna. In questo campo, e per tutti gli anni Novanta, le politiche comunitarie si sono dimostrate appena credibili, tanto da far pensare ad una vera e propria abdicazione di responsabilità da parte dell’Unione. Infatti, da un lato permaneva una rilevante questione di competenze tra UE e Stati membri, timorosi nei riguardi di un’eventuale perdita di sovranità in questo campo (anche in ragione del fatto che quella dei diritti umani è una branca in espansione e potenzialmente estendibile ad ogni ambito della vita dei cittadini): il rischio poteva, insomma, essere quello di eccedere le competenze costituzionali della Comunità, limitate ad un numero ristretto di diritti umani[9]. Dall’altro lato, la stessa retorica utilizzata dall’Unione nelle relazioni esterne circa l’importanza dei diritti umani, della loro universalità e della loro indivisibilità, contribuiva a mettere in crisi l’operato dell’Unione all’interno, rendendone manifesta l’incorenza e l’indifendibilità[10]. Inoltre, in questo modo l’Unione diventava facilmente attaccabile di unilateralità e di ricorrere al criterio “due pesi, due misure” in tale ambito, esigendo molto dagli Stati terzi, e dunque applicando uno standard più elevato nelle relazioni esterne, per poi tendere a scomparire nelle questioni interne, relative agli stessi Stati che la compongono. Potenza commerciale ed economica, e dunque chiamata ad assolvere un ruolo di responsabilità anche nel settore dei diritti umani, l’Unione non avrebbe, cioè, dovuto rinunciare al proprio ruolo di difensore di tali diritti; ruolo che cercava di interpretare nei contesti multilaterali o nei riguardi dei paesi terzi, per poi ribadire la propria mancanza di competenza generale, non appena ci si spostasse al piano interno[11].

Vista in quest’ottica, quindi, la questione dell’adesione della Comunità alla CEDU diveniva di per sé una manifestazione di questa contraddizione. Ciò è tanto più vero se si tiene presente che il rispetto dei principi di libertà, democrazia, diritti umani e Stato di diritto veniva posto come condizione per la candidatura di adesione da parte di quegli Stati che ne facessero richiesta[12], fino a considerare l’appartenenza al sistema della Convenzione come un prerequisito per chiederne l’accesso; mentre, ad ingresso avvenuto, la scrupolosa attenzione in questo campo diveniva subito molto più rarefatta, consentendo un reflusso dei progressi compiuti in questi nuovi paesi (un reflusso che può comunque avvenire anche negli Stati da sempre parte dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa, anche oggigiorno). Al contrario, l’adesione della Comunità alla CEDU avrebbe consentito di sottoporre l’azione comunitaria allo scrutinio della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, nel caso in cui le istituzioni della Comunità non fossero state abbastanza vigili, ivi compresa la Corte di giustizia[13]. Inoltre, non si deve tralasciare il fatto stesso che, in ottemperanza ai suddetti criteri di indivisibilità e universalità, dimensione interna e dimensione esterna dovessero costituire le due facce di una stessa medaglia. La loro anomala scissione finiva, infatti, con l’avere ricadute distinte negli aspetti cruciali dei diritti umani (la loro definizione e scopo, i metodi di esame e controllo, le misure di esecuzione da scegliere), minandone così reciprocità e coerenza. Il grosso nodo che la politica europea per i diritti umani doveva affrontare dopo il 2000, dunque, si configurava non solo e non tanto in termini di recupero del ritardo storico maturato nella dimensione interna rispetto all’accelerazione registratasi grazie agli sviluppi nelle relazioni esterne; esso risiedeva ormai nella necessità di rendere questi due versanti vicendevolmente complementari.

Col passaggio al nuovo millennio, assistiamo all’attivazione di una nuova modalità di inserimento dei diritti umani nel processo di integrazione europea, ovvero la proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in occasione del Consiglio europeo di Nizza (7-10 dicembre 2000). Essa definisce un gruppo di diritti e di libertà che devono essere garantite a tutti i cittadini europei. Assieme ai più classici diritti civili e politici, la Carta contiene anche numerosi diritti economici e sociali e si aggiunge alla protezione in materia di diritti di cui i cittadini dell’Unione già godono, tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale[14]. La Carta, però, lascia insoluta la questione dell’adesione dell’UE alla CEDU: l’articolo 51, non introducendo nuove competenze in materia di diritti umani, fa in modo che tale situazione resti immutata[15].

Tuttavia, proprio perché concepita anche come strumento di protezione dei diritti fondamentali dei cittadini europei rispetto alla crescita del potere comunitario – da garantirsi in nome della dignità, della libertà e dell’uguaglianza[16] –, la Carta di Nizza è la testimonianza concreta della diversa attenzione che, nell’ultimo decennio, si è voluto riservare ai diritti umani nella dimensione interna. Sanare la lacuna esistente in questo settore ha, cioè, voluto dire passare attraverso il conferimento del vincolo giuridico alla Carta stessa (che inizialmente si configurava come un impegno meramente politico), e tradurre in essere l’adesione dell’Unione europea alla CEDU.

Ecco perché il Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa (2004) prevede nel paragrafo 2 dell’articolo I-9: L’Unione aderisce alla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nella Costituzione. Tuttavia, il trattato costituzionale si arena sulle procedure di ratifica da parte dei vari Stati membri dell’Unione. Il suo definitivo affossamento da parte dei referendum francese e olandese, nel 2005, intralcia ancora una volta il difficile percorso che deve portare all’adesione dell’UE alla CEDU.

È, infine, il trattato di Lisbona (2007) a prescrivere l’adesione alla CEDU[17]. Riconoscendo all’Unione europea personalità giuridica internazionale, dall’entrata in vigore del trattato (2009) l’UE può entrare a far parte, accanto ai suoi singoli Stati membri, del massimo strumento in Europa per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (previa revisione della CEDU, da sottoporsi alla ratifica di tutti gli Stati parte, affinché sia possibile l’adesione di un’entità non statale e di adeguare le strutture della Corte europea dei diritti dell’uomo), così sottoponendo il proprio sistema giuridico ad un controllo esterno ed indipendente[18].

La riforma della CEDU operata dal Protocollo 14, che permette all’UE di farne parte assieme agli Stati membri del Consiglio d’Europa (articolo 59), ha rimosso l’ultimo ostacolo lungo il cammino che deve condurre ad un rinnovato impegno dell’Unione in materia di diritti umani, al proprio interno. Grazie alla prossima adesione alla Convenzione, l’Unione si troverà finalmente sullo stesso piano dei suoi Stati membri e ugualmente tenuta al rispetto e alla tutela dei diritti umani in questo ambito. Esercitando una funzione di controllo in tale settore, l’Unione potrà recuperare terreno nella dimensione interna e tentare di connetterne gli sviluppi a quelli che si sono realizzati nelle relazioni esterne, allo scopo di rafforzare la coerenza tra i due approcci. Solo in questo modo sarà, infatti, possibile il raggiungimento di una politica europea per i diritti umani che sia globale ed orizzontale e, quindi, realmente conforme ai principi di universalità, indivisibilità e interdipendenza.

 

 

 

 


[1] Sulla CEDU si veda Dirk Ehlers (a cura di), European Fundamental Rights and Freedoms, De Gruyter Recht, Berlino, 2007, pp. 25-174, e Michele de Salvia, Compendium de la CEDH – Les principes directeurs de la jurisprudence relative à la Convention européenne des droits de l’homme, Editions N. P. Engel, Kehl, 1998.

[2] Sulla Corte europea dei diritti dell’uomo si veda Antonio Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 107-136.

[3] Cfr. Christiane Duparc, La Communauté européenne et les droits de l’homme, Commissione delle Comunità europee, Lussemburgo, 1993, p. 20.

[4] Parere 2/94 della CGCE del 28 marzo 1996.

[5] Punto 6 del parere 2/94.

[6] Articolo 3B CE, divenuto articolo 5 CE nel Trattato sull’Unione europea.

[7] Cfr. Maria Mercedes Candela Soriano, Les droits de l’homme dans les politiques de l’Union européenne, Larcier, Bruxelles, 2006, pp. 32-33.

[8] Cfr. Kirsten Lampe, Human Rights in the Context of EU Foreign Policy and Enlargement, Baden-Baden, Nomos, 2007, p. 51.

[9] Cfr. Philip Alston, Diritti Umani e globalizzazione – Il ruolo dell’Europa, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1999, p. 89.

[10] La politica europea per i diritti umani risultava, così, ironicamente fondata sullo scarto tra retorica universalistica dei diritti umani, da una parte, ed effettive pratiche comunitarie, dall’altra. Cfr. Andrew Williams, EU Human Rights Policies – A Study in Irony, Oxford University Press, New York, 2004.

[11] A questo proposito, Andrew Clapham ha segnalato la presenza di un’asimmetria nella politica europea per i diritti umani che sembra preoccupata unicamente del comportamento degli Stati non europei: Andrew Clapham, Où en est la politique étrangère commune de l’Union Européenne en matìere de droits de l’homme et comment se manifeste-t-elle au sein des instances internationales?, in Philip Alston (a cura di), L’Union Européenne et les Droits de l’Homme, Bruylant, Bruxelles, 2001, p. 667.

[12] Articoli 6.1 e 49 del Trattato sull’Unione europea.

[13] Cfr. Philip Alston, Diritti Umani e globalizzazione – Il ruolo dell’Europa, cit., pp. 59-100.

[14] Per un’analisi approfondita della Carta si veda Andrea Manzella, Piero Melograni, Elena Paciotti, Stefano Rodotà, Riscrivere i diritti in Europa – La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Il Mulino, Bologna, 2001. Per la posizione del Parlamento italiano di fronte all’elaborazione della Carta si veda Adriana Apostoli, La “Carta dei diritti” dell’Unione europea – Il faticoso avvio di un percorso non ancora concluso, Promodis, Brescia, 2000, pp. 77-102.

[15] Cfr. Maria Mercedes Candela Soriano, Les droits de l’homme dans les politiques de l’Union européenne, cit., pp. 49-51. Su tali questioni si veda Mario Napoli (a cura di), La Carta di Nizza – I diritti fondamentali dell’Europa, V&P, Milano, 2004.

[16] Su questo aspetto si veda Lukasz Fonfara, The Charter of Fundamental Rights of the European Union a san Act of Constitutional Nature, in Tobias Gries-Ralf Alleweldt (a cura di), Human Rights within the European Union, Berliner Wissenschafts-Verlag, Berlino, 2004, pp. 45-55.

[17] Cfr. Étienne de Poncins, Le traité de Lisbonne en vingt-sept clés, Lignes de Repères, Paris, 2008, pp. 80-84.

[18] A questo proposito si veda Patrick Auvret, L’adhésion de l’Union à la Convention européenne des droits de l’homme, in Joël Rideau (a cura di), Les droits fondamentaux dans l’Union européenne – Dans le sillage de la Constitution européenne, Bruylant, Bruxelles, 2009, pp. 379-403.

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    By: Luca Camprini

    Luca Camprini è dottore di ricerca in Storia del federalismo e dell’integrazione europea (Università di Pavia)

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