L’ascesa di Ronald Reagan porta alla ribalta una forma di anticomunismo radicata nella crisi e nella critica della distensione e introduce temi che avranno grande corso e utilizzo anche a destra soprattutto negli anni ottanta. L’influenza di un nuovo modo di pensare il rapporto tra individuo e Stato e la contestazione della forma di Stato nata dalla fine dei fascismi incontra, nel caso del neofascismo italiano, un territorio che è pronto per quella retorica.
I nuovi modelli di destra occidentale, quali la Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Stati Uniti, propongono una relazione tra cittadino e Stato in cui il ruolo e la centralità dei corpi intermedi – sindacati, partiti, organi rappresentativi – è decostruito. Questo processo può interessare anche il Msi perché agevola un senso comune carsico, come quello antipartito, cui i neofascisti sono sensibili. La vittoria presidenziale di Reagan è una tappa in questo percorso e interviene nella storia del Msi nel momento in cui il confronto politico è intenso soprattutto dentro la componente giovanile, egemonizzata dai rautiani e dalla Nuova Destra e che è, in quel momento, l’unica in cui il cesarismo almirantiano incontra degli ostacoli.
La vittoria di Reagan agevola la marginalizzazione di queste correnti e conduce i rautiani in una condizione di difficoltà. La corrente è divisa tra chi, come Nazzareno Mollicone, legittima il programma economico reaganiano, evidenziando le assonanze con l’equilibrio finanziario raggiunto in Italia «sotto la guida del Fascismo e con le Finanze affidate ad Alberto de Stefani» [Linea, 15-30 novembre 1980] e chi, è il caso di Giovanni Monastra, lo considera il rappresentante di un liberismo estremo che rientra a pieno diritto nell’alveo della deteriore modernità capitalista [Linea, 1-14 febbraio 1981].
Il centro del partito, invece, apprezza del reaganismo il fatto che riporti in auge un anticomunismo da guerra fredda, ad esempio nello scenario latino-americano. Gli effetti pratici della distinzione teorica tra autocrazie rivoluzionarie e tradizionali governi autoritari, proposta dalla neoconservatrice Jeane Kirkpatrick [Commentary, 1979 n. 5], è senza ombra di dubbio apprezzata. Le corrispondenze dal centro e sud America per il giornale dell’are giovanile degli almirantiani, affidate ad Almerigo Grilz, sottolineano dal principio il cambio di passo rispetto all’Amministrazione Carter, perché Reagan, mostra un atteggiamento inflessibile verso le «manovre, palesi od occulte, del Cremlino e dei suoi fiancheggiatori» [Dissenso, 16-28 febbraio 1981].
Il sostegno a Reagan affonda le sue radici nell’immagine di adamantino cultore della guerra fredda coltivata dal nuovo presidente statunitense ma è rilevante anche la relazione con il reaganismo come modello politico interno. I missini, ad esempio, si mostrano sensibili verso quelle classi sociali interessate dal messaggio reaganiano per il suo cuore anti-sindacale.
La marcia dei quarantamila rappresenta un punto di rottura percepito e apprezzato anche in questa cultura politica. Il modello post-fordista è visto positivamente come mezzo per recuperare la “nazione” come categoria armonica e quindi refrattaria al conflitto di classe e alle forme politiche cui ha dato vita. Maurizio Gasparri, ad esempio, considera il toyotismo un fenomeno che porta «inevitabilmente al superamento del classismo, del comunismo, e, nell’immediato, ad un ancor maggiore rifiuto di strutture partitiche e sindacali» [Dissenso, 15-31 marzo 1981].
Questi segnali indicano un terreno fertile per la politica interna del reaganismo che si paleserà nella seconda metà degli anni ’80. Nel novembre del 1984, a elezioni presidenziali appena conclusa, il reaganismo è definito da Cesare Mantovani, uno tra i principali editorialisti de “Il Secolo d’Italia”, un «originale e vitalizzante “composto” di tradizione e di futuro, di pragmatica volitività e di valori morali, di libertà e di ordine, di patriottismo nazionalistico e di solidarismo occidentale, di tolleranza e di anticomunismo» [Il Secolo d’Italia, 9 novembre 1984].
L’indebolimento della polemica anticomunista nel corso del secondo mandato di Reagan corrisponde alla fase terminale della parabola che il presidente repubblicano affronta soprattutto nell’area almirantiana del Msi e segna una frattura rispetto all’empatia dimostrata fino ad allora. L’Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty stipulato a Washington nel dicembre 1987 per eliminare i missili di teatro europei, fa riemergere un atteggiamento scettico verso la coerenza dell’anticomunismo statunitense. Tra il 1986 e il 1987, però, in parallelo a questo distacco dal Reagan dialogante, si rinforza l’attenzione positiva alla politica interna reaganiana che è associata ai caratteri della propria opposizione nei confronti dell’Italia dei partiti.
La semplificazione del modello fiscale proposta da Donald Regan è presentata nel febbraio del 1985 dal corrispondente dagli Stati Uniti Toni de Santoli, equiparandola alle posizioni del Msi e sostenuta perché afferma «l’esigenza di un aumento degli oneri fiscali nei confronti delle grandi e medie imprese e nei confronti di quanti esercitano con enormi profitti la professione libera», facendo respirare il «cittadino americano medio» [Il Secolo d’Italia, 2 febbraio 1985].
Sempre a favore della riforma fiscale reaganiana, nel luglio del 1986, interviene anche un rautiano come Mollicone e lo fa in termini entusiasti sostenendo che questa riforma, poiché fissa solo due scaglioni di tassazione «al 15% ed al 27%» e abbassa l’imposta societaria al 33%, penalizza le grandi corporations e sostiene le famiglie, sia attraverso un meccanismo di agevolazioni con le deduzioni sia non invogliandole a «contrarre debiti» o a «incrementare, oltre il dovuto, le loro polizze d’assicurazione». Mollicone spiega il successo della popolarità di Reagan non tanto come effetto dell’impegno «politico – militare degli Usa nel mondo» ma in relazione alla «questione fiscale» che si ritiene grave e non denunciata anche in Italia come testimonierebbe la «fortissima e non quantificabile incidenza» delle attività “sommerse” che tali rimarrebbero per sottrarsi alla «progressività allucinante dell’Irpef» [Il Secolo d’Italia, 5 luglio 1986].
Il Msi contribuisce anche a realizzare la manifestazione anti-fiscale tenutasi a Torino nel novembre 1986 e conduce una serrata campagna contro le ipotesi di riforma del fisco previste da Visentini. Questi particolari possono consentire di affermare che il Msi adatti al caso italiano un aspetto della politica reaganiana quale quello della contrapposizione tra fiscalità statale e cittadinanza. Nel caso missino è rilevante l’adozione di questo modello perché esso di certo non ha una tradizione anti-statalista ma ha a lungo ritenuto delegittimata una forma specifica di Stato, quella democratica nata dalla sconfitta del fascismo. In questo caso il passaggio ulteriore che si compie consiste nell’assimilare a quella forma di Stato anche un modello economico, interventista o che fa precedere l’economia dalla politica.
La sensibilità verso questi temi rende difficile leggere il caso della destra italiana esclusivamente sotto la costellazione del centralismo. È contestabile, ad esempio, che il Msi prima e Alleanza Nazionale poi incarnino solo un modello statalista che il centro-destra aggregherà insieme al sindacalismo territoriale della Lega Nord più per giustapposizione che per convergenza del progetto politico. È ipotizzabile che proprio la permeabilità a questi argomenti, soprattutto dentro la vasta minoranza che si opporrà alla segreteria di Gianfranco Fini, renderà il Msi un soggetto adeguato per l’opera di composizione politica che sarà realizzata con l’entrata in politica di Silvio Berlusconi.
A riprova del fatto che Reagan comunque incide nell’anima del Movimento, nel momento del suo commiato anche sulla “Rivista di studi corporativi”, che gravita nella galassia almirantiana collocandosi nella sua sinistra, il presidente repubblicano è considerato il padre di una frattura positiva. Il consuntivo sugli otto anni di presidenza Reagan, affidato ad Aldo di Lello, indica la positività della frattura nel fatto che abbia sfatato l’immagine «che considera la politica statunitense come semplice espressione del “mercato” o come mero strumento per l’attuazione delle strategie politico-commerciali delle grandi multinazionali». Il successo di Reagan è considerato ambiguo, perché composto tra l’incremento degli indici macroeconomici e un aumento netto della povertà, ma il fatto che ciò avvenga senza registrare conflittualità sociale è relazionato alla sua capacità di incarnare, in un momento di caos, «il desiderio di uomini forti, di idee elementari e di recupero di potenza e di prestigio cresciuto impetuosamente alla vigilia degli anni ottanta» [Rivista di studi corporativi, gennaio-aprile 1989].
La domanda circa il fatto se il reaganismo influenzi o meno la destra italiana può ottenere una risposta affermativa sotto più punti di vista. La svolta impressa da Reagan alla politica mondiale è principalmente assimilata, nel Msi, attraverso l’irrobustimento di un sentimento populista, soprattutto dopo il declino dell’anticomunismo ideologico come fattore identificante e prioritario del reaganismo. Il populismo, nel Msi, va indubbiamente a contrastare, più che a incastrarsi, con il sempre preponderante richiamo all’identità storica fascista. Agendo dentro questo spazio, il Msi e la destra italiana manifestano la propria specificità che è irrobustita da un fenomeno politico come la rivoluzione reaganiana: essa è utilizzata nel Msi per rinfocolare una rappresentazione divisiva del rapporto tra Stato “partitocratico” e cittadini, tra paese legale e paese reale.
Gli accenti entusiasti e trasversali per la riforma del fisco reaganiana sono significativi per le ragioni addotte per sostenerla: essa non è considerata un momento della riconversione liberista delle società occidentali bensì un viatico alla razionalizzazione di una spesa pubblica allargata a dismisura da uno Stato ipertrofico e corrotto. Ciò che affascina di Reagan è l’idea che l’azione diretta e rapida di un leader politico sia necessaria per governare società complesse. Probabilmente questa eredità è colta dai missini perché appartiene già al loro dna, ma è il modo di porsi di Reagan nei confronti dello Stato, delle strutture rappresentative del consenso e dei media che rivitalizza questo direttismo come il fuoco sotto la cenere.