Recensione: Mario Del Pero, Victor Gavìn – Fernando Guirao, Antonio Varsori, Democrazie. L’Europa meridionale e la fine delle dittature

Il volume analizza i processi di transizione alla democrazia affrontati, nel corso degli anni ’70, in Grecia, Portogallo e Spagna, relazionandoli al ruolo svolto dalle istituzioni comunitarie a sostegno della loro realizzazione. L’analisi è calibrata in merito a scenari differenti e, già dalle battute introduttive, si fonda sulla tesi che nel caso greco e portoghese, piuttosto che nel caso spagnolo, furono «il contesto internazionale e le spinte esterne» a svolgere «un ruolo più rilevante nel determinare tempi e forme della transizione»[1].

La descrizione dei casi greco e portoghese è affidata a due studiosi italiani, rispettivamente Antonio Varsori e Mario Del Pero. Gli autori adottano una chiave di lettura omogenea e che può essere ricondotta alla categoria della interdipendenza.

Nella descrizione di Varsori, la fragile democrazia greca dell’immediato dopoguerra, ad esempio, appare un soggetto nazionale fortemente condizionato nelle scelte di sovranità dalla ingerenza di un alleato internazionale, gli Stati Uniti, senza che ciò ne garantisse la stabilità. L’avvicinamento della Grecia di Karamanlis, già alla fine degli anni ’50 «alla neonata Comunità Economica Europea»[2] rappresenterebbe, appunto, la ricerca di un possibile contrappeso all’ingerenza statunitense e in funzione di una politica nazionale più autonoma. Gli stessi modelli di riferimento di Karamanlis vengono individuati nella Germania di Adenauer e nella Francia di De Gaulle, così da farne risalire l’ispirazione profonda a tradizioni di cultura politica integralmente europee.

Gli anni ’60 rappresentano una frattura, in questo processo di avvicinamento, sancita dal colpo di Stato dei colonnelli. Il ruolo europeo, nei confronti del nuovo regime dittatoriale, è determinato da una pluralità di fattori così sintetizzabili: l’influenza di una opinione pubblica democratica, l’azione, svolta ad esempio presso il Consiglio d’Europa, dei governi nazionali più sensibili al rispetto della democrazia, come quelli scandinavi e quello olandese e, infine, l’azione sostanzialmente compromissoria, ma influenzabile dai primi due fattori, scelta dagli stati cardine della C.E.E. Il rapido dissolvimento cui il regime va incontro in seguito al riacutizzarsi della questione cipriota rimette in moto questi fattori chiudendo, con il ritorno di Karamanlis in patria, una parentesi storica. Il contributo europeo all’irrobustimento della rinata democrazia greca, per quanto non lineare e omogeneo, si andava a inserire in una fase di debolezza della potenza statunitense, seguente la crisi del Watergate, che rendeva ancora più importante il ruolo delle istituzioni comunitarie agli occhi di uno Stato alla ricerca di legittimazione e sostegni internazionali.

Il processo di integrazione nelle strutture comunitarie, stante la latente opposizione dei paesi ostili all’allargamento a un partner che avrebbe spostato sul lato mediterraneo l’equilibrio continentale, costituisce, infine, nella ricostruzione di Varsori, la legittimazione di una progettualità politica interessata alla integrazione delle democrazie europee in un sistema comune.

La categoria di interdipendenza, in questo caso, oltre a svolgere un ruolo descrittivo dell’azione, si pone come paradigma normativo per esprimere un giudizio ben preciso, e positivo, sulla storia della integrazione europea come processo finalizzato all’irrobustimento delle democrazie nazionali europee. Su uno spartito simile si muove l’analisi che Del Pero propone riguardo la transizione portoghese.

Anche per Del Pero il principio di metodo fondamentale è quello della interdipendenza. Il caso portoghese rivela, infatti, «i limiti della capacità dei soggetti più importanti del sistema internazionale d’imporre le proprie soluzioni» e «l’impossibilità per qualsiasi paese di sottrarsi a vincoli e interdipendenze che ne limitano oggettivamente la sovranità e la libertà d’azione»[3]. Se il Portogallo manifesta una sua netta specificità, non fosse altro per il suo controllo su un impero coloniale, emergono, rispetto al caso greco, degli evidenti elementi di continuità, primo fra tutti quel processo di integrazione economica con le democrazie europee che Del Pero, giustamente, non considera un fattore neutro, rilevando come, attraverso di esso, «il Portogallo […] mostrava ai suoi cittadini, e, soprattutto ai suoi giovani, proprio quell’Europa e quel mondo rispetto ai quali il regime rivendicava un’ostentata, e claustrofobica, diversità»[4].

Il ruolo “democratizzante” svolto dalle istituzioni europee è una chiave di lettura utilizzata anche per questo scenario. Il fatto che l’Europa occidentale «sempre più [trovasse] nella democrazia un proprio comune denominatore identitario»[5], infatti, era la ragione di fondo per cui il processo di integrazione comportava una contrattazione dei vantaggi economici che poteva dare l’appartenenza o l’associazione alle strutture comunitarie in relazione alla maturazione di un sistema politico pluralista.

Il principio della “scommessa europea” sulla democrazia ritorna in molte osservazioni di Del Pero, e si riflette anche nell’analisi condotta sui rapporti tra le famiglie politiche europee “classiche” e i loro possibili partner portoghesi, soprattutto concentrandosi sulle organizzazioni socialiste. Le figure di Mario Soares e di Willy Brandt sono centrali a questo proposito. A Brandt, fra l’altro, si attribuisce un percorso strategico, per quanto riguarda la strategia occidentale della sua azione politica, fondato anche sulla volontà «di far svolgere alla Repubblica Federale Tedesca un ruolo di primo piano nei processi di transizione alla democrazia che si ritenevano prossimi sia in Portogallo sia in Spagna»[6].

L’esplosione rivoluzionaria del caso portoghese, al pari della rapida crisi del regime dei colonnelli, è il fattore che mette rapidamente in moto questo sistema di relazioni interdipendenti tra Portogallo ed Europa. La posizione europea costituisce, in questo caso, un punto di mediazione tra due differenti oltranzismi, quello statunitense e quello del partito comunista portoghese, che rappresentano un tentativo unilaterale di risolvere il rapporto tra fattori nazionali e fattori internazionali nella definizione del “nuovo” Portogallo.

Il vincolo esterno europeo, anche per Del Pero, riesce così a proporre un modello di modernizzazione e di integrazione sovranazionale, alternativo all’atlantismo o a posizioni di velleitario terzomondismo. L’Europa occidentale assume, in questo modo, un ruolo esemplare anche in sede di ingresso del Portogallo nella Comunità economica europea, sia per gli effetti esercitati da quest’ultima sulla scelta di abolire «il “Consiglio della Rivoluzione” […] ponendo fine al primato delle Forze Armate» – sia da un punto di vista economico perché «il Portogallo accettò, sia pure gradualmente e non senza ambiguità, di rovesciare il processo di nazionalizzazione di alcuni settori chiave dell’economia promossa durante il tumultuoso processo postrivoluzionario»[7].

La lettura del caso spagnolo proposta da Fernando Guirao e Victor Gavìn parte, invece, dal presupposto che «il successo della transizione politica, economica e sociale dalla dittatura alla democrazia in Spagna fu dovuto, essenzialmente, a fattori endogeni», pur riconoscendo che l’Europa occidentale, e la sua società civile e politica pluralista, incarnavano «i modelli politici, economici e sociali ai quali aspirava la maggioranza delle forze democratiche spagnole»[8].

Secondo gli autori del saggio la scelta comunitaria fu orientata da coordinate prevalentemente non inquadrabili in una progettualità politica interessata a incentivare la transizione democratica spagnola. Il vincolo tra integrazione economica e integrazione democratica, ad esempio, è giudicato inesistente piuttosto che fragile. La conclusione che si ritiene di dover trarre dallo studio del periodo 1969-1975 è che «la Comunità europea, fatta eccezione per alcuni parlamentari europei, non si pose mai, all’epoca di Franco, come obiettivo essenziale della propria politica spagnola la difesa dei diritti fondamentali o la promozione dei valori democratici, ma piuttosto lo sviluppo economico del paese in principio e, più tardi, l’accesso al suo ampio mercato industriale, il che la portò più ad appoggiare il regime franchista che a indebolirlo»[9].

Il canone di azione europeo sembrerebbe confermato, nella sua continuità, dalle vicende che accompagnano la Spagna dal post-franchismo alla democrazia. Il vincolo esterno, in questa chiave di lettura, sembra inteso come principio di determinazione, o di costrizione, di una politica nazionale da parte di singole nazioni già integrate nella Comunità europea, nella fattispecie il governo francese che «riuscì a trasformare l’opportunità offerta dalla democratizzazione spagnola, greca e portoghese in un proprio potere negoziale per condizionare le circostanze nelle quali l’allargamento alla Spagna (Grecia e Portogallo) avrebbe potuto aver luogo»[10].

Il metodo di interpretazione adottato da Gavìn e Guirao si riflette, inoltre, sulla lettura del rapporto tra movimenti politici spagnoli ed europei. L’interpretazione tende ad accreditare la vigenza di un sostegno europeo ai nascenti partiti spagnoli, finalizzato a incidere sulla loro ragione politica, come dimostrerebbe il rapporto tra i socialdemocratici tedeschi e il P.S.O.E., in cui il sostegno del primo al secondo non giunse «se non dopo una radicale presa di distanza dalla linea di azione tradizionale» del socialismo spagnolo e secondo una modalità «che si spiega, fondamentalmente, con il marcato anticomunismo della socialdemocrazia tedesca»[11].

L’esistenza di una ragione imitativa verso le istituzioni democratiche europee viene inquadrata in questo contesto. Una ragione comunque non irrilevante, agli occhi dei due autori, poiché riusciva ad avvicinare la nascente democrazia spagnola al modello politico euro-occidentale piuttosto che a forme “autarchiche” di democrazia “alla spagnola”, quale quella suggerita prevalentemente da Kissinger e che assegnava un ruolo fortemente subordinato al Parlamento e ai partiti. Le conclusioni del saggio, appunto, si soffermano su questo aspetto dell’influenza europea sulla transizione spagnola, riconducendo sostanzialmente a quattro modelli – che vanno da una influenza indiretta e imitativa a una diretta e ingerente nella vita stessa dei partiti nazionali – i meccanismi di “indirizzo” delle istituzioni democratiche europee su quelle spagnole. Una serie di influenze che, però, è condizione subordinata rispetto allo sforzo autonomo spagnolo nella realizzazione di un processo di “normalizzazione democratica” definitivamente sancito nel 1986 con l’ingresso nella C.E.E. e l’approvazione, tramite referendum, dell’adesione alla N.A.T.O.

 

Il testo, ampiamente basato su nuovi documenti di archivio, garantisce una lettura adeguata e profonda di un percorso politico niente affatto scontato, sottolineando l’importanza fondamentale svolta a questo proposito da volontà, individuali e collettive, fermamente forgiate in una vera e propria “ideologia della democrazia”. Gli autori del volume leggono questo percorso adottando modelli differenti di interpretazione che solo in parte si presentano come il riflesso della diversità dei casi analizzati. Quest’ultima constatazione, infine, fornisce una ragione ulteriore per approfondire un tema fondamentale per il dibattito storico, quale il rapporto che si pone tra il processo di integrazione europea e il ripensamento delle democrazie nazionali in esso coinvolte. Un approfondimento che può essere realizzato sia allargando lo spettro dei casi di studio da analizzare, sia irrobustendo – come viene fra l’altro suggerito dagli stessi autori – la ricostruzione del rapporto tra queste giovani democrazie e la società europea, anche ai mondi dei rapporti economici, delle “transizioni dei costumi”, delle culture e degli stili di vita.

 


[1] Mario Del Pero, Victor Gavìn – Fernando Guirao, Antonio Varsori, Democrazie. L’Europa meridionale e la fine delle dittature, Firenze, Le Monnier 2010, p. 3.

[2] Antonio Varsori, L’Occidente e la Grecia: dal colpo di Stato militare alla transizione alla democrazia (1967-1976), in Mario Del Pero, Victor Gavìn – Fernando Guirao, Antonio Varsori, Democrazie, cit., p. 10.

[3] Mario Del Pero, La transizione portoghese, in Mario Del Pero, Victor Gavìn – Fernando Guirao, Antonio Varsori, Democrazie, cit., p. 95.

[4] Ivi, p. 101.

[5] Ivi, p. 103.

[6] Ivi, p. 115

[7] Ivi, p. 157.

[8] Fernando Guirao, Victor Gavin, La dimensione internazionale della transizione politica spagnola (1969-1982). Quale ruolo giocarono la Comunità europea e gli Stati Uniti?, in Mario Del Pero, Victor Gavìn – Fernando Guirao, Antonio Varsori, Democrazie, cit., p. 177.

[9] Ivi, p. 195.

[10] Ivi, p. 220.

[11] Ivi, p. 227.

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