1. La CEE e la dimensione mediterranea negli anni Settanta
Le relazioni con gli Stati del Mediterraneo e, più in generale, lo sviluppo socio-economico delle regioni mediterranee sono temi presenti nel dibattito politico comunitario sin dalla nascita della Comunità economica europea (CEE), anche se l’elaborazione di strategie di intervento in materia ha registrato fasi alterne, di stagnazione e di rilancio, segnate – tra i vari fattori – dal clima internazionale e dai cambiamenti verificatisi nel processo di integrazione europea[i]. Come è stato efficacemente notato, la dimensione mediterranea ha sempre attirato l’attenzione della CEE/UE, ma non è mai riuscita a diventare una priorità, soprattutto nelle relazioni esterne comunitarie[ii].
Nel primo decennio dell’integrazione europea, in particolare, la politica mediterranea risultò pesantemente condizionata dal passato coloniale, dalle logiche della guerra fredda – che bloccarono qualsiasi capacità di elaborazione autonoma da parte della CEE – ma anche dalla grande varietà di interessi e posizioni degli Stati europei[iii]. La strategia esterna messa in atto dalla CEE – un patchwork di accordi commerciali bilaterali e accordi di associazione variamente formulati[iv] – rivelerà la prevalenza di un interesse alla stabilità dell’area, nonché alla tutela degli interessi commerciali dei paesi comunitari, piuttosto che la volontà di mettere in atto una vera e propria politica di sviluppo a beneficio di tutti i paesi rivieraschi del Mediterraneo[v].
Un primo cambio di rotta venne intrapreso con il varo della politica mediterranea globale, avviata a partire dal vertice di Parigi del 1972, che avrebbe dovuto favorire la creazione di aree di libero scambio per i prodotti industriali grazie ad accordi bilaterali di associazione che includevano anche l’assistenza finanziaria e la cooperazione scientifica e tecnologica[vi]. Tuttavia, gli effetti della dura fase di scontro israelo-palestinese in atto in quegli anni, che acuì peraltro le divergenze tra Europa e Stati Uniti sulla politica mediterranea, e la successiva crisi energetica condizionarono fortemente tale prospettiva, dando risalto ai problemi della sicurezza a scapito delle politiche di sviluppo e ostacolando la definizione di una più compiuta e autonoma strategia comune europea[vii].
Se questa “incompiutezza”, evidente sin dagli anni Settanta, resta una costante che segna per varie ragioni le relazioni esterne con i paesi terzi del Mediterraneo, anche nell’arena interna la dimensione mediterranea ha rappresentato una sfida alla quale non sempre la CEE è riuscita a dare risposte complete. Sul versante interno, un importante fattore di cambiamento da tenere presente è certamente la prospettiva dell’allargamento della CEE a Sud, apertasi con la caduta delle dittature in Grecia, Portogallo e Spagna a metà degli anni Settanta[viii]. Intrapresa la strada della transizione democratica nei tre Stati, la Grecia deposita la propria candidatura nel giugno 1975 mentre il Portogallo e la Spagna pongono la loro domanda di adesione alla CEE rispettivamente nel marzo 1977 e nel luglio 1977[ix]. Dopo un lungo negoziato, il secondo allargamento viene realizzato in due tappe: il 1° gennaio 1981 entra la Grecia e il 1° gennaio 1986 è la volta di Spagna e Portogallo. Per i tre nuovi partners, il desiderio di aderire alla CEE era sia una causa sia un effetto del cambiamento economico, politico e sociale in atto dopo la fine delle dittature, nonché una manifestazione della volontà di riappropriarsi della loro identità europea[x].
Per la CEE, l’allargamento a Sud aveva quasi esclusivamente motivazioni politiche che concernevano il consolidamento dei giovani regimi democratici negli Stati vicini. Viste le peculiarità e la situazione socio-economica dei tre candidati, la previsione della loro adesione provocò numerosi effetti sia sul piano delle relazioni esterne sia sugli assetti interni e rese particolarmente accesi i negoziati[xi]. Da un lato, l’allargamento assorbì la maggior parte delle risorse dedicate dalla CEE allo sviluppo e all’assistenza dei paesi mediterranei[xii], emarginando inoltre i non membri, soprattutto a livello economico, dato che, grazie ai nuovi aderenti, la CEE avrebbe potuto rispondere internamente al suo fabbisogno di produzioni mediterranee. Dal punto di vista interno, inoltre, l’allargamento fece aumentare il peso dell’Europa meridionale, condizionando la formulazione di alcune politiche comunitarie, come quella agricola e quella regionale. Ma come nell’arena esterna l’opzione mediterranea si presentava tanto ineludibile quanto incompiuta, così anche nella sfera interna le scelte legate alla politica agricola e a quella regionale rivelarono la difficoltà di adottare misure più profonde di riequilibrio. I nuovi dispositivi messi in atto, pur essendo il frutto di critiche agli assetti esistenti – soprattutto alla struttura della politica agricola – e introducendo alcune novità di gestione delle risorse comunitarie, si sostanziarono in interventi di portata limitata dal punto di vista finanziario, concepiti in un’ottica prevalentemente compensativa.
Con particolare riferimento alla politica regionale, il presente contributo intende fornire una timeline delle principali fasi di definizione degli strumenti di intervento della CEE nell’area mediterranea nel periodo che va dal 1977, anno della pubblicazione delle prime guidelines della Commissione sullo sviluppo delle regioni mediterranee, al 1985, anno dell’introduzione ufficiale dei Programmi integrati mediterranei (PIM). L’analisi in prospettiva storica permette di rilevare anche alcuni intrecci tra i cambiamenti introdotti nelle politica regionale e i negoziati in corso con i nuovi candidati.
Come vedremo, in seguito alle pressioni degli imminenti allargamenti, la CEE approvò un insieme di regolamenti, il cosiddetto “pacchetto mediterraneo”, che andava incontro alle richiesti francesi e italiane di miglioramento delle strutture agricole. Tale provvedimento – seppure non sovvertì il funzionamento tradizionale della Politica agricola comune (PAC) – consentì di introdurre nuovi metodi e principi di intervento come quelli di sviluppo integrato e programmazione, che caratterizzeranno i successivi strumenti di intervento definiti dalla CEE per le regioni mediterranee, come i PIM. Destinati a rafforzare le strutture socio-economiche delle regioni meridionali della CEE, essi dovevano attenuare gli effetti negativi provocati dall’allargamento, applicando il metodo della compensazione e ispirandosi ai principi di solidarietà intracomunitaria. I PIM rappresentarono indubbiamente un passaggio importante sia per la maturazione della coscienza dell’importanza strategica del bacino mediterraneo per la CEE sia per la sperimentazione di nuove modalità di intervento regionale. In definitiva, però, nonostante la novità dello strumento, l’adozione dei PIM fu marcata da una affermazione netta degli interessi nazionali – quelli francesi, italiani e greci – di natura prevalentemente economica e da una volontà politica di conservazione degli schemi esistenti della politica regionale, che condizionò negativamente la predisposizione di strumenti comuni e più ampi di riequilibrio strutturale per l’area mediterranea.
2. Le guidelines della Commissione sullo sviluppo delle regioni mediterranee (1977)
La prospettiva dell’allargamento a Sud rafforzò l’attenzione della CEE verso i nuovi partners mediterranei e costrinse a rivedere il funzionamento di alcune politiche interne sia per accogliere i nuovi candidati sia per non penalizzare gli Stati membri. Durante i negoziati, la politica agricola e quella regionale furono tra i settori che richiesero le maggiori attenzioni. Fino ad allora, infatti, la PAC si era concentrata prevalentemente sulla protezione delle produzioni continentali e aveva riservato un sostegno marginale ai prodotti mediterranei che, con l’adesione dei nuovi Stati, avrebbero subito una pressione concorrenziale altissima[xiii]. L’entrata dei tre candidati inoltre sollevava problemi di ordine sociale, alimentati dai livelli di disoccupazione molto elevati, e di carattere strutturale, per la generale arretratezza socio-economica dei tre new comers. In definitiva, dunque, oltre che sulla PAC, gli effetti dell’allargamento a Sud si sarebbero riversati anche sulla politica regionale, entrata in funzione nel 1975 con l’attivazione del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), che avrebbe dovuto fronteggiare l’aumento delle disparità intracomunitarie[xiv].
Nel 1976 la Commissione europea istituì un gruppo di lavoro ad hoc incaricato di studiare l’impatto della nuova politica mediterranea globale, che mirava alla semplificazione degli scambi commerciali, alla cooperazione e al sostegno dello sviluppo attraverso piani di assistenza e misure di finanziamento ai paesi mediterranei non comunitari, sulle regioni mediterranee interne alla CEE. A seguito di questa prima riflessione, nel dicembre 1977, la Commissione guidata dal britannico Roy Jenkins, tenendo presenti soprattutto i problemi dell’agricoltura mediterranea, indicò le linee d’azione da seguire per consentire alle regioni mediterranee della CEE di fronteggiare adeguatamente i futuri allargamenti, rivolgendo l’attenzione soprattutto alle regioni francesi (Corsica, Languedoc, Midi-Pyrénées) e a quelle italiane del Mezzogiorno[xv]. Il documento riconosceva le carenze della PAC nell’area mediterranea della CEE e la condizione di particolare svantaggio di due tipiche produzioni dell’area come il vino e gli ortofrutticoli, che fino ad allora avevano ricevuto una quota irrisoria delle risorse della PAC, valutabile intorno al 2% della spesa complessiva. Inoltre la Commissione riconosceva che le problematiche delle regioni mediterranee avevano un carattere più globale e necessitavano dunque di interventi più ampi: “The Commission recognizes that the development problem experienced by the Mediterranean regions is not only an agricultural one. The situation requires an overall economic development plan, and the necessary proposals will be put forward and every effort made to put such a plan into effect” [xvi].
3. La definizione del “pacchetto mediterraneo” (1978)
La previsione dell’allargamento della CEE a Sud e l’impatto di quest’ultimo sulle produzioni mediterranee, già fortemente penalizzate, come emergeva dalle guidelines del 1977, fornì lo spunto per l’adozione di uno specifico “pacchetto mediterraneo” relativo al periodo 1978-1982. Fortemente voluto dalla Francia e dall’Italia, e poi esteso anche alla Grecia nel 1981, il pacchetto includeva una serie di regolamenti che fornivano una parziale compensazione del maggiore sostegno assicurato dalla PAC ai prodotti dell’agricoltura continentale. In quell’occasione l’Italia – il cui contributo fino a quel momento era stato piuttosto limitato e lacunoso anche per l’impostazione prevalentemente continentale della PAC[xvii] – giocò un ruolo centrale per ottenere l’approvazione del pacchetto[xviii]. Il governo italiano si impegnò nelle trattative sulla base del memorandum sui problemi mediterranei della CEE, presentato nel 1977, ottenendo la revisione dei regolamenti comunitari relativi ai prodotti agricoli mediterranei. All’Italia venne riconosciuto un volume di trasferimento di risorse pari a 150 miliardi di lire all’anno per le misure di mercato e a 600 miliardi di lire in cinque anni per le misure strutturali (una cifra superiore alle risorse provenienti dal FESR)[xix].
I regolamenti disciplinavano due tipi di azione. Da un lato, tali provvedimenti rafforzavano le misure già contenute nella direttiva 268/75 sulle zone di montagna e svantaggiate. Da un altro lato, i nuovi strumenti normativi prevedevano l’attuazione di programmi inediti e specifici come ad esempio l’accelerazione delle opere di irrigazione del Mezzogiorno (Regolamento 1362/78), l’attuazione di programmi per la viabilità, l’elettrificazione e la fornitura di acqua potabile nel Mezzogiorno e nella Francia meridionale (Regolamento 1760/78), la realizzazione di programmi di divulgazione agricola in Italia e in Grecia (Regolamento 270/79), la promozione della forestazione (Regolamento 269/79).
Tali provvedimenti prevedevano, dunque, non solo le tipiche misure di sostegno ai prezzi e ai mercati agricoli, ma anche il miglioramento delle strutture produttive e delle infrastrutture indispensabili per ammodernare il settore primario nelle regioni mediterranee[xx]. Inoltre, un’altra caratteristica innovativa di questi provvedimenti era la predisposizione di un programma quadro nazionale in cui gli Stati interessati erano chiamati ad inserire gli interventi previsti. Tuttavia, due ordini di problemi minarono la portata innovativa di tale strumento: l’esiguità di finanziamenti specifici da parte del FEOGA-Orientamento – le risorse più consistenti per l’implementazione della PAC infatti afferivano al FEOGA-Garanzia – e la mancanza di una visione complessiva dei problemi strutturali e sociali dell’area mediterranea. Anche se i regolamenti – soprattutto quelli riguardanti le produzioni agricole – non intendevano escludere gli altri produttori mediterranei dal mercato europeo ma puntavano a migliorare le capacità dell’Europa meridionale di reggere la loro concorrenza, è certo che tali misure non facilitavano l’integrazione economica tra Europa e Mediterraneo. Le carenze erano tanto palesi che i finanziamenti previsti nel pacchetto furono i primi ad essere rimossi all’inizio degli anni ottanta quando, anche su indicazione della Corte dei Conti, che aveva monitorato i costi della PAC, la CEE adottò una nuova politica di bilancio per frenare la crescita della spesa agricola. Nonostante tali limiti, comunque, con il “pacchetto mediterraneo” venne sperimentato per la prima volta, su alcune aree delimitate, un modello di azione integrata in materia di sviluppo rurale, che verrà poi ripreso con l’attivazione dei PIM[xxi].
4. La prima riforma del FESR e la creazione della sezione “fuori quota” (1979)
L’attivazione dei PIM matura nell’ambito dei primi rounds di riforma dei fondi strutturali della CEE ed in particolare nell’ambito del FESR[xxii]. La prima riforma del FESR venne varata nel 1979 grazie al contributo del commissario italiano Antonio Giolitti, responsabile della politica regionale, particolarmente esperto dei problemi di sviluppo delle regioni mediterranee e desideroso di dare nuovo slancio alle politiche regionali della CEE[xxiii]. Sulla base di quanto sperimentato in piccola scala con il “pacchetto mediterraneo”, la riforma del 1979 introdusse l’obbligo della presentazione di programmi di sviluppo regionale da parte degli Stati in modo da favorire il progressivo coordinamento delle politiche regionali nazionali[xxiv]. Ma l’innovazione di maggiore rilievo fu l’introduzione della sezione “fuori quota”: essa rappresentava il 5% del budget del FESR che, non essendo automaticamente distribuita agli Stati membri in base al meccanismo delle quote nazionali, poteva essere utilizzata per finanziare azioni comunitarie specifiche[xxv]. Anche se vi era il rischio che l’iniziativa della Commissione si scontrasse con l’opposizione del Consiglio che sui programmi finanziati dalla sezione “fuori quota” doveva decidere all’unanimità, tale meccanismo forniva l’opportunità di dare ai problemi delle regioni mediterranee una rilevanza comunitaria e di rendere queste ultime destinatarie di misure specifiche di riequilibrio, al di fuori dei piani di intervento fissati dagli Stati membri[xxvi].
Così tra il 1980 e il 1984 – grazie al supporto del Parlamento europeo e all’iniziativa della Commissione – un terzo delle risorse della sezione fuori quota venne destinato al miglioramento delle strutture agricole e socio-economiche delle regioni che avrebbero risentito delle conseguenze dell’allargamento a Sud (Mezzogiorno, Aquitania, Midi-Pyrenées, Languedoc Roussillon)[xxvii]. Oltre che tramite i nuovi regolamenti della PAC, dunque, la CEE fornì un supporto alle regioni mediterranee degli Stati già membri e al loro adeguamento strutturale anche attraverso il FESR. Ciò dimostrava che la sensibilità all’allargamento era più politico-simbolica che reale: una “sensibilità in negativo”, come è stata definita, che per gli Stati mediterranei già membri si sostanziava in un’opzione secondaria rispetto ai propri interessi economici[xxviii].
5. La relazione Amadei al Parlamento europeo (1979)
Il Parlamento europeo, che aveva sempre incoraggiato il miglioramento della politica mediterranea della CEE, fu l’istituzione che nel tempo mantenne viva e costante l’attenzione verso il bacino mediterraneo. Tra l’altro, proprio l’allargamento della CEE a Sud fu un tema molto dibattuto in seno al Parlamento europeo che colse questa occasione storica anche per rivendicare il riconoscimento di un ruolo attivo nelle procedure di ratifica dei trattati di adesione dei nuovi candidati[xxix]. Nello stesso anno della riforma del FESR, il rapporto presentato al Parlamento europeo dal socialdemocratico italiano Giuseppe Amadei sostenne l’attivazione di programmi specifici in grado di sostenere le regioni più deboli del Mediterraneo[xxx]. Nella sua relazione Amadei affermava infatti “i fondi destinati alla Grecia dovranno essere in parte distolti da altre regioni della Comunità che soffrono di gravi problemi e che hanno bisogno di interventi finanziari urgenti […] occorre rendersi conto del fatto che tutto ciò ritarderà il processo con cui le regioni più povere dell’attuale Comunità vengono portate al livello delle più ricche[xxxi]”.
Anche se la relazione non andava alla radice dei reali problemi legati alla composizione del bilancio della CEE e alla corretta impostazione politica e amministrativa delle misure di intervento regionale, la questione sollevata era sicuramente tra le più sentite in seno al Parlamento. Alla luce di questa problematica, la proposta relativa all’istituzione di programmi specifici che avrebbero dovuto contribuire a modernizzare la produzione e le strutture agricole e a migliorare la dotazione infrastrutturale delle regioni mediterranee ottenne un appoggio trasversale da tutte le forze politiche presenti al Parlamento europeo.
6. Il mandato del 30 maggio 1980
Nel 1980, nel pieno della bufera sollevata dalla Thatcher sull’inadeguatezza del contributo finanziario della Gran Bretagna al bilancio comunitario, la Commissione Jenkins decise di varare un ampio programma di rilancio della Comunità (mandato del 30 maggio 1980), all’interno del quale si sarebbe data contemporaneamente risposta alla questione del rebate britannico. La Commissione si proponeva di rivedere sia la politica della spesa, cioè la ripartizione delle risorse tra tutte le politiche comuni, eliminando alcune spese improduttive e concentrando le risorse in programmi specifici, sia la politica delle entrate, cioè i mezzi finanziari disponibili[xxxii].
Anche alla luce dell’allargamento a Sud, la Commissione diede esecuzione al mandato del 30 maggio 1980 tenendo presenti le problematiche strutturali delle regioni mediterranee dell’Europa comunitaria e incoraggiando la presentazione di programmi comunitari integrati attenti a quest’area. In particolare nel settore agricolo, nell’ottobre 1981 la Commissione varò una serie di provvedimenti volti a modificare l’organizzazione dei mercati nei settori del vino, degli ortofrutticoli e dell’olio d’oliva[xxxiii]. Tali proposte si inserivano nel contesto dei negoziati di adesione di Spagna e Portogallo, che costituivano – soprattutto la Spagna – importanti fornitori di tali prodotti[xxxiv].
In ambito regionale, presero avvio alcune sporadiche iniziative volte ad assicurare una maggiore coerenza delle azioni relative allo sviluppo delle aree rurali e si definì sempre di più il profilo delle azioni integrate di sviluppo, rivolte non solo al miglioramento delle infrastrutture ma anche delle attività artigianali, turistiche e industriali, legate all’agricoltura. In particolare, grazie anche all’impegno profuso dal commissario Giolitti, a partire dal 1981, tra le azioni finanziate dalla sezione “fuori quota” del FESR venne inclusa una priorità “Allargamento” destinata a sostenere i programmi presentati per attenuare le conseguenze regionali dell’adesione dei nuovi candidati[xxxv].
7. La relazione Pöttering al Parlamento europeo (1981)
L’approccio integrato prefigurato nei regolamenti sugli interventi strutturali nel settore agricolo adottati alla fine degli anni Settanta, richiamato nel contesto della riforma del FESR, presupponeva due ordini di azioni: l’uso congiunto e coordinato di diversi fondi comunitari; l’integrazione di obiettivi di riqualificazione della forza lavoro e di rafforzamento delle strutture nelle politiche regionali e agricole, con particolare attenzione alle zone mediterranee. In relazione all’allargamento, l’applicazione della politica regionale esistente – senza un adeguamento che tenesse conto del divario esistente tra i livelli di sviluppo delle economie dei candidati e quello complessivo dei Nove – avrebbe causato uno “sviluppo regionale disarmonico”, impoverendo ancora di più i tre new comers. Queste osservazioni erano state avanzate sin dalle fasi iniziali dei negoziati, nei dibattiti tenuti al Parlamento europeo[xxxvi]
A questo proposito nel 1981, il Parlamento europeo tornò a sollecitare la Commissione e il Consiglio affinché varassero un “piano Mediterraneo” in favore delle regioni mediterranee sia degli Stati membri che degli Stati candidati “as a part of an overall Community Mediterranean policy”. La relazione presentata dal cristiano-democratico tedesco Hans-Gert Pöttering nel 1981 prevedeva l’istituzione di un vero e proprio fondo mediterraneo alimentato tramite il bilancio della CEE e tramite prestiti sul mercato internazionale dei capitali che avrebbe fornito crediti agli Stati mediterranei per favorire il loro sviluppo socio-economico[xxxvii]. Sebbene tale proposta andasse incontro alle rivendicazioni di alcuni degli Stati mediterranei, come la Grecia, da poco divenuta il decimo membro della CEE, tuttavia, essa – soprattutto per le ricadute che avrebbe provocato sul bilancio comunitario – non ebbe seguito.
8. Il memorandum greco del 19 marzo 1982
In effetti, l’inizio degli anni Ottanta si presentava come un periodo poco propizio ad iniziative di rafforzamento sul piano europeo: la Comunità attraversava una persistente crisi finanziaria, aggravata dalle ancora pendenti rivendicazioni della Gran Bretagna. Con una leadership debole, incarnata dal politico liberaldemocratico lussemburghese Gaston Thorn, alla guida della Commissione, sulla CEE gravava una pesante crisi di popolarità. Anche in materia regionale la CEE registrava numerose critiche all’effettività e all’efficacia della sua azione per la riduzione degli squilibri. Tuttavia, seppur in un contesto così difficile, venne approfondito il discorso regionalista avviato negli anni Settanta, anche grazie alla continuità dell’azione del commissario Giolitti[xxxviii]. Tra l’altro, stabilita ormai l’adesione della Grecia, avvenuta nel 1981, i problemi sociali e regionali legati all’integrazione della Spagna e del Portogallo vennero inclusi tra gli aspetti più delicati del nuovo round di allargamento a Sud, che sarebbe stato completato con l’entrata dei due paesi iberici nel 1986. La delegazione della Commissione incaricata di seguire i negoziati con la Spagna e il Portogallo segnalò proprio l’urgenza di rafforzare gli strumenti finanziari comunitari, ma anche di rivedere la logica di intervento del FESR[xxxix].
Con la consapevolezza dei limiti della politica regionale, delle sfide derivanti dalle ripercussioni che i mutamenti di scenario intervenuti nell’economia mondiale avevano avuto sulle economie europee nonché dei cambiamenti che si sarebbero prodotti con l’allargamento a Sud, la Commissione europea cercò di avviare un percorso di comunitarizzazione della politica regionale, aumentando i margini di manovra dell’amministrazione comunitaria e cercando di ridurre i meccanismi di influenza del livello nazionale. Tali propositi costituivano lo sfondo sul quale vennero definiti, nel luglio 1981, gli “Orientamenti e le priorità in materia di sviluppo regionale”[xl]. Anche se il negoziato che seguì a tali proposte portò ad un considerevole ridimensionamento del carattere e della portata innovativa dei piani originari, esso ebbe il merito di rinnovare l’attenzione sull’importanza della politica regionale, consentendo inoltre alcuni limitati avanzamenti, come nel caso degli strumenti di intervento per le regioni mediterranee.
A questo proposito è degno di nota il documento presentato dal governo greco nel marzo 1982. In esso si metteva in evidenza come i problemi socio-economici del paese fossero legati non solo alle intrinseche e preesistenti debolezze strutturali, ma anche all’impatto della crisi internazionale e agli effetti dell’adesione[xli]. In sostanza si riteneva che l’allargamento non fosse stato accompagnato da idonee misure di adattamento e di differenziazione in grado di tenere conto delle peculiarità dell’economia greca che andavano dall’ipertrofia del settore terziario, alla carenza di beni strumentali alle imprese, alla scarsa produttività di un settore primario che contribuiva solo per il 17,2% al prodotto nazionale lordo a fronte di una popolazione agricola pari al 30% di quella totale. Le rivendicazioni del governo greco, guidato dal PASOK di Andreas Papandreou che nel 1981 era subentrato ai governi della Nea Demokratia, erano sicuramente, almeno in parte, giustificate laddove si evidenziava che le regioni greche dovevano beneficiare allo stesso modo delle altre regioni mediterranee italiane e francesi dei fondi comunitari previsti per lo sviluppo dell’area mediterranea[xlii]. Per altri aspetti invece le richieste configuravano vere e proprie deroghe al diritto comunitario (soprattutto alle norme sulla concorrenza). Altre proposte infine andavano nella direzione indicata dalla Commissione, chiedendo il rafforzamento degli strumenti di riequilibrio regionale (la revisione dei criteri di concessione dei fondi, l’aumento delle risorse disponibili, l’aumento della percentuale della copertura delle spese, etc…).
Tale carica rivendicativa consentì alla Grecia di giocare un ruolo incisivo nell’attivazione dei PIM e di sfruttare al massimo i benefici derivanti da tale strumento. Con il memorandum del 1982 la Grecia infatti richiamò la CEE ad un indispensabile sforzo di solidarietà e diede un nuovo senso di urgenza all’impegno sul versante mediterraneo, soprattutto per contrastare la concorrenza sui mercati agricoli proveniente dalla Spagna e dal Portogallo.
9. La comunicazione della Commissione sulla politica mediterranea della Comunità allargata (1982)
Effettivamente, all’inizio degli anni ottanta, il rafforzamento del côté mediterraneo della politica regionale, visti gli allargamenti in atto, venne incluso tra gli aspetti sostanziali della politica mediterranea della CEE. Tuttavia, era evidente che tale politica non poteva limitarsi alle esigenze dei paesi membri ma che doveva dare risposta anche ai partner mediterranei non comunitari. La comunicazione della Commissione sulla politica mediterranea della Comunità allargata presentata nel 1982 riportava chiaramente la priorità assegnata all’ampliamento a Sud, quale ambito di policy che avrebbe assorbito la maggior parte delle energie della CEE, ma contemporaneamente cercava di delineare una strategia per evitare di marginalizzare i paesi non membri, soprattutto a livello economico, dato che, grazie agli Stati di nuova adesione, la CEE avrebbe potuto rispondere meglio al proprio fabbisogno di produzioni mediterranee[xliii].
Nonostante tali intenti, però, la politica mediterranea esterna rimase confinata alla sua impostazione originaria – di stampo quasi post-coloniale – e non riuscì a coordinare le politiche commerciali, finanziarie e di cooperazione tra gli Stati CEE e i paesi mediterranei non comunitari[xliv]. Ugualmente sul versante della politica mediterranea interna, che come abbiamo visto era una delle priorità nell’ambito della strategia di allargamento a Sud, si registrarono solo limitati avanzamenti, privilegiando soprattutto gli interessi degli Stati mediterranei già membri.
10. La prima proposta sui PIM (1983)
Nel 1983 la Commissione formulò una prima proposta di finanziamento dei programmi integrati mediterranei[xlv]. Si trattava di un piano molto ambizioso, che prevedeva l’impiego di larga parte delle risorse dei fondi strutturali. La proposta però risentiva di alcune carenze tecniche perché le risorse dei tre fondi (FESR, FSE, FEOGA-Orientamento) si sovrapponevano senza essere coordinate. In particolare, gli interventi del FEOGA-Orientamento erano disciplinati da regolamenti diversi e non seguivano una strategia coerente di sviluppo[xlvi].
In sede di Consiglio, la proposta venne accolta molto freddamente: le resistenze maggiori provenivano dalla Germania e dalla Gran Bretagna – quest’ultima peraltro ancora implicata nella questione del rebate. Questi paesi avrebbero dovuto finanziare i nuovi interventi di riequilibrio regionale e temevano un aumento eccessivo delle spese di bilancio. Inoltre la Francia, alla quale era stato peraltro offerto un abbuono pari a quello che essa già riceveva dal FEOGA-Orientamento (dunque superiore al suo contributo), non mostrava particolare entusiasmo per questa iniziativa. La presidenza greca riuscì ad ottenere che la discussione sul progetto venisse aggiornata nel corso del 1983.
11. La riforma del FESR del 1984
Nel 1984, la seconda revisione dei fondi strutturali, alla quale aveva lavorato il Commissario Giolitti, giunse al termine. Sebbene – come si è detto – l’impostazione strategica definita nel 1981 fosse stata molto annacquata, sul versante delle azioni mediterranee le possibilità di implementazione dei programmi integrati vennero consolidate con il regolamento n. 1787/84 relativo al FESR[xlvii].
Il nuovo regolamento infatti poneva accanto ai programmi nazionali di interesse comunitario, i programmi comunitari, varati su iniziativa della Commissione, che andavano a rafforzare gli interventi precedentemente finanziati nell’ambito della sezione fuori quota e il cui zonage doveva essere approvato dalla Commissione stessa. In sostanza veniva riconosciuta l’importanza di un intervento comune – tramite i programmi comunitari – per risolvere i problemi territoriali più gravi nell’insieme della CEE. Il nuovo impianto normativo prevedeva inoltre le operazioni integrate di sviluppo – cioè operazioni in cui potevano convergere le risorse di differenti fondi strutturali.
12. L’introduzione dei PIM (1985)
Alla luce di queste novità in ambito strutturale, sarà la Commissione Delors che deciderà di riprendere e approfondire la discussione sui PIM, rivedendo completamente la proposta iniziale del 1983[xlviii]. La fase di lancio dei PIM venne gestita dal greco Grigoris Varfis, membro del PASOK e Commissario responsabile della politica regionale nella prima Commissione presieduta da Jacques Delors tra il 1985 e il 1989. Riconoscendo la legittimità delle rivendicazioni greche, il Consiglio europeo tenuto a Bruxelles il 29-30 marzo 1985 accettò l’attivazione dei PIM anche come strumento per compensare la Grecia, così come l’Italia e la Francia, in vista degli effetti che si sarebbero verificati con l’allargamento ai paesi della penisola iberica[xlix]. In particolare la Grecia aveva già manifestato la sua intenzione di ottenere una quota adeguata delle risorse dei PIM in occasione del vertice tenuto a Dublino nel dicembre 1984, quando Papandreou aveva minacciato di porre il veto sull’adesione di Spagna e Portogallo nel caso le richieste greche non fossero state accolte. Come è stato efficacemente notato, durante le trattative i PIM divennero dunque un “dossier greco”[l]. La loro ragion d’essere non si fondava tanto sul sostegno economico ad un’area geografica definita che presentava problemi comuni, come era stato prefigurato nell’impostazione originaria, ma rivelava la volontà di organizzare una nuova operazione di redistribuzione finanziaria tra Stati membri simile a quella realizzata al momento della nascita del FESR per soddisfare le richieste britanniche.
Il progetto dei PIM, presentato dalla delegazione della Commissione europea, presieduta da Jérôme Vignon, membro del gabinetto Delors, venne così approvato nel corso del Consiglio europeo di Bruxelles del 1985. A conferma della loro natura compensativa e della prevalenza degli interessi di alcuni Stati membri, il regolamento istitutivo riportava (art. 1): “The object of the action will be to improve the socio-economic structures of the regions, in particular that of Greece, in order to facilitate the adjustment of these regions to the new conditions created by the Community’s enlargement in the best possible conditions” [li].
In generale, il piano, pur essendo meno ambizioso dal punto di vista budgetario, era molto più convincente per quanto riguardava gli aspetti operativi. Prevedeva un forte coordinamento tra i fondi e una gestione attraverso programmi pluriennali, realizzati attraverso il coinvolgimento delle autorità locali e regionali. In base all’articolo 2 del regolamento sui PIM, le operazioni finanziabili si concretizzavano in investimenti nei comparti produttivi, nella creazione di infrastrutture e nell’impiego delle risorse umane con particolare attenzione al settore dell’agricoltura, dell’industria e dell’artigianato, dell’energia, dei servizi (incluso il turismo). Il Consiglio mantenne l’importo previsto nel 1983 (pari a 6,6 milioni di ecu), ma di questa cifra solo 1,6 milioni erano risorse aggiuntive, poste su una speciale linea budgetaria dedicata ai PIM. I restanti 2,5 milioni sarebbero stati finanziati attraverso uno spostamento delle somme allocate per i fondi strutturali e un importo equivalente sarebbe stato mobilitato sotto forma di prestiti della Banca europea per gli investimenti.
Per quanto riguarda le regioni beneficiarie, l’intero territorio greco era considerato eleggibile. Inoltre, la Grecia ottenne una speciale garanzia budgetaria, ottenendo una quota pari al 30% dell’ammontare globale per coprire le spese di expertise e di messa in opera dei programmi. In Italia, per la prima volta, le regioni beneficiarie non includevano esclusivamente quelle del Mezzogiorno ma coprivano l’insieme dell’Italia peninsulare (Lazio, Toscana, Umbria, Marche, le pendici degli Appennini situate in Emilia-Romagna e – per le misure in ambito agricolo – le zone lagunari del nord-Adriatico tra Comacchio e Marano Lagunara). Per la Francia vennero ammesse le cinque regioni del sud (Aquitania, Midi-Pyrénées, Languedoc-Roussillon, Provenza e Corsica), i dipartimenti della Drôme e dell’Ardèche, ad eccezione di Bordeaux, Marsiglia, Tolosa e del litorale urbanizzato della Costa Azzurra (vedi figura 1)[lii].
FIGURA 1 – Regioni e zone della CEE beneficiarie dei PIM (1985)
La Commissione Delors impose un quadro unico di gestione incentrato sui seguenti aspetti: a) l’adozione di un programma per ciascuna regione; b) la determinazione ex-post del ruolo di ciascun fondo a seguito di una concertazione tra lo Stato membro e le collettività territoriali coinvolte; c) l’assunzione di un ruolo di spicco da parte della Commissione sia negli atti di programmazione che nelle azioni di controllo; d) la fissazione di una gestione pluriannuale divisa in due fasi rispettivamente di 4 e 3 anni.
In sintesi, tre furono le innovazioni tecniche sperimentate con i PIM: innanzitutto, la gestione doveva essere assicurata attraverso dei programmi che includevano una strategia di sviluppo e delle azioni interdipendenti coordinate tra loro. Il programma integrato presentato da ciascuna zona beneficiaria doveva rispondere a una strategia globale, includendo possibilmente più di un settore produttivo (agricoltura, pesca, energia, artigianato, piccola industria e turismo) in modo da avere un impatto più rilevante sul territorio. In secondo luogo, i PIM dovevano essere elaborati al livello geografico pertinente dalle autorità territoriali competenti: in particolare le autorità regionali erano chiamate a partecipate alla programmazione su un piano di parità con i rappresentanti dei governi centrali. Tale modalità di intervento, oltre a coinvolgere il tessuto locale, doveva favorire anche una sinergia e un coordinamento tra diversi strumenti finanziari (comunitari, nazionali e locali) – anticipando quella che sarà la prassi del co-finanziamento. In terzo luogo alla Commissione erano attribuiti compiti di gestione e di applicazione. In particolare, la Commissione era chiamata a valutare la qualità dei programmi, secondo un modello di contratto di programma che venne allegato al regolamento istitutivo dei PIM[liii].
13. Conclusioni
I PIM contribuirono – sia pure su piccola scala – all’innovazione delle modalità di intervento regionale della CEE perché avviarono una strategia basata su un uso coordinato dei fondi strutturali, consolidarono la prassi della programmazione, inaugurata con il “pacchetto mediterraneo” e poi ripresa nei primi rounds di riforma dei fondi strutturali, e introdussero il principio del partenariato di responsabilità tra i livelli istituzionali partecipanti alla preparazione e attuazione del programma. Per la prima volta il coinvolgimento dei livelli infranazionali, in particolare delle regioni, in quanto ritenute maggiormente consapevoli dei problemi locali e delle peculiarità dei territori, venne riconosciuto e sostenuto come una pratica che avrebbe potuto garantire una più efficace attuazione della politica regionale.
Occorre notare comunque che l’impianto dei PIM era concepito come uno strumento compensativo per “mettere al sicuro” le regioni mediterranee di Francia, Italia e Grecia, rispetto al possibile impatto sulle loro economie legato all’adesione di Spagna e Portogallo. La loro formulazione inoltre aveva un carattere residuale: i PIM infatti rappresentavano un ambito limitato dell’azione regionale della CEE, non coinvolgendo l’intera area del Mediterraneo, e non erano legati alla definizione di un approccio mediterraneo più completo e globale in grado di tenere conto delle esigenze delle regioni mediterranee di tutti gli Stati membri, anche quelli di imminente adesione, ma anche della sempre più necessaria collaborazione con la riva sud del Mediterraneo. In questa ottica, i PIM non furono estesi alla Spagna e al Portogallo dopo la loro adesione, ma rimasero limitati ai tre originari Stati membri, nonostante fosse evidente che molti problemi strutturali delle regioni spagnole e portoghesi fossero simili a quelli delle altre regioni mediterranee della CEE.
In conclusione, anche se il bilancio di questi programmi è caratterizzato da luci ed ombre, i PIM – pur seguendo una logica redistributiva tradizionale – per quanto riguarda le modalità operative ampliarono l’esperienza avviata con il “pacchetto mediterraneo”, traducendo in schemi pratici la retorica europea sulla nozione di sviluppo locale e sulla valorizzazione della prossimità[liv]. In definitiva, i PIM anticiparono molti aspetti innovativi che troveranno poi spazio nel pacchetto di riforma dei fondi strutturali del 1988 e, per l’impatto che ebbero sui livelli infranazionali, costituirono un segno precoce del processo di europeizzazione.
[i] Sulle continuità e le contraddizioni del rapporto tra Comunità/Unione europea e Mediterraneo, si vedano, tra i vari contributi: A. Shlaim, G.N. Yannopoulos (ed.), The EEC and the Mediterranean Countries, Cambridge, Cambridge University Press, 1976; F. Rizzi, Un Mediterraneo di conflitti: storia di un dialogo mancato, Roma, Meltemi Editore srl, 2004; F. Bicchi, European Foreign Policy Making Towards the Mediterranean, New York, Basingstoke, Palgrave, MacMillan, 2007. Si vedano inoltre gli Atti del Convegno internazionale organizzato dal Seminario di Studi politici e sociali dell’Istituto universitario orientale di Napoli (28-29 marzo 1980), La politica mediterranea della CEE, Napoli, Editoriale scientifica, 1981.
[ii] G. Laschi, I vicini del Sud: le relazioni tra la CEE e i paesi mediterranei, in Id. (a cura di), Oltre i confini: l’UE fra integrazione interna e relazioni esterne, Bologna, Il Mulino, 2011
[iii] E. Calandri, Il Mediterraneo e la difesa dell’Occidente, 1947-1956: eredità imperiali e logiche di guerra fredda, Firenze, Il maestrale, 1997.
[iv] R. Gomez, The EU’s Mediterranean Policy: Common Foreign Policy by the Back Door?, in J. Peterson, H. Sjursen (ed.), A Common Foreign Policy for Europe? Competing Vision of the CFSP, London-New York, Routledge, 2008.
[v] E. Calandri, L’eterna incompiuta: la politica mediterranea tra sviluppo e sicurezza, in Id. (a cura di), Il primato sfuggente. L’Europa e l’intervento per lo sviluppo (1957-2007), Milano, Angeli, 2009, pp. 89-117.
[vi] Sulla svolta segnata dalla Global Mediterranean Policy si veda l’analisi di F. Bicchi, European Foreign Policy Making Towards the Mediterranean, cit., pp. 63-110.
[vii] E. Calandri, Europa e Mediterraneo tra giustapposizione e integrazione, in M. De Leonardis (a cura di), Il Mediterraneo nella politica estera italiana del secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 47-59.
[viii] M. Del Pero, V. Gavín, F. Guirao, A. Varsori, Democrazie. L’Europa meridionale e la fine delle dittature, Firenze, Le Monnier, 2010.
[ix] P. Ludlow, F. Chatzistavrou, A. Viñas, S. Ramírez-Pérez, J. Elvert, The Mediterranean Challenge, in É. Bussière, V. Dujardin, M. Dumoulin, P. Ludlow, J.W. Brouwer. P. Tilly (eds), The European Commission 1973-1986 – Histories and memories of an Institution, Luxembourg, Publications Office of the European Union, 2014, pp. 429-444.
[x] R. Bideleux, The Southern Enlargement of the EC. Greece, Portugal and Spain, in R. Bideleux, R. Taylor (ed.), European Integration and Disintegration. East and West, London-New York, Routledge, 1996, pp. 129-139.
[xi] La Grecia riuscì a separare il negoziato per la propria adesione da quello con i paesi iberici, guadagnando quindi una priorità rispetto agli altri candidati. La Grecia tra l’altro era già legata alla CEE dal trattato di associazione entrato in vigore nel 1962 (parzialmente congelato tra il 1967 e il 1974 in conseguenza del colpo di stato dei colonnelli) ed era ritenuta un baluardo sensibile contro l’influenza sovietica. Sull’adesione greca, cfr. K. Ifantis, State Interests, external Dependency Trajectories and “Europe”: Greece, in W. Kaiser, J. Elvert, (ed.), European Union Enlargement. A Comparative History, London-New York, Routledge, 2004, pp. 70-92. Sull’adesione portoghese si veda: A. Costa Pinto, N. Severiano Teixeira, From Atlantic past to European Destiny: Portugal, in W. Kaiser, J. Elvert, (ed.), European Union Enlargement, cit., pp. 112-130. Il negoziato con la Spagna fu quello più problematico, soprattutto per la complessità del dossier agricolo. Sull’adesione spagnola si veda: M. Trouvé, L’Espagne et l’Europe. De la dictature de Franco à l’Union européenne, Bruxelles-Bern, PIE-Peter Lang, 2008; C. Powell, The Long Road to Europe: Spain and the European Community 1957-1986, in J. Roy, M. Lorca-Susino (eds), Spain in the EU: The First Twenty-Five Years (1986-2011), Miami, University of Miami, 2011, pp. 21-44.
[xii] Sulla prevalenza dell’assistenza accordata alla Grecia, alla Spagna e al Portogallo in previsione della loro adesione rispetto agli Stati terzi mediterranei si veda il caso degli interventi della Banca europea per gli investimenti, riportato in É. Willaert, From the Lomé Agreement to the Mediterranean: the expansion of the EIB’s activities outside the Community, in É. Bussière, M. Dumoulin, E. Willaert (ed.), The Bank of the European Union. The EIB 1958-2008, Luxembourg, Imprimerie Centrale, 2008, pp. 161-182.
[xiii] R. Fanfani, Lo sviluppo della politica agricola comunitaria, Roma, Carocci, 1998.
[xiv] L. Grazi, The Long Road to a Cohesive Europe. The Evolution of the EU Regional Policy and the Impact of the Enlargements, in “Eurolimes” n. 14, Monographic Issue: Enlargements, Borders and the Changes of EU Political Priorities, Oradea, Oradea University Press, Autumn 2012.
[xv] EEC Commission, Guidelines concerning the development of the Mediterranean regions of the Community, together with certain measures relating to agriculture, COM (77) 526 final Volume I, 9 December 1977.
[xvi] Ibidem, p. 3.
[xvii] Su questi aspetti e sulla discontinua partecipazione dell’Italia alla definizione del dossier PAC, si veda G. Laschi, L’agricoltura italiana e l’integrazione europea, Peter Lang, Bern 1999.
[xviii] E. Calandri, Il Mediterraneo nella politica estera italiana, in A. Giovagnoli, S. Pons (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta. Tra guerra fredda e distensione, Vol. I, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 351-381.
[xix] Istituto Affari Internazionali, L’Italia nella politica internazionale (1977-1978), Vol. 6, Milano, Edizioni di Comunità, 1979, pp. 352-361.
[xx] G. Laschi, I primi tentativi di riforma della PAC, 1968-1980, in A. Landuyt, D. Pasquinucci (a cura di), L’Unione europea tra Costituzione e governance, Bari, Cacucci, 2004.
[xxi] S. Pareglio, Agricoltura, sviluppo rurale e politica regionale nell’Unione Europea: profili concorrenti nella programmazione e nella pianificazione dei territori rurali, Milano, Franco Angeli, 2007.
[xxii] Sui vari cicli di riforma dei fondi strutturali si veda J. Bachtler, C. Mendez, F. Wishlade, EU Cohesion Policy and European integration. The Dynamics of EU Budget and Regional Policy Reform, Aldershot, Ashgate, 2013.
[xxiii] Dopo aver militato nel partito comunista italiano, Antonio Giolitti ne uscì nel 1957 in seguito ai fatti d’Ungheria e aderì al partito socialista. Fu ministro del Bilancio e della Programmazione economica durante l’esperienza di governo di centro-sinistra dal 1963 al 1964 e successivamente dal 1970 al 1974. Giolitti ricoprì l’incarico di commissario europeo responsabile della politica regionale per due mandati consecutivi, prima nella Commissione Jenkins (1977-1981) e poi nella Commissione Thorn (1981-1985). Cfr. G.P. Manzella, Gli anni europei: riforme, nostalgie e lasciti, in G. Amato, Antonio Giolitti. Una riflessione storica, Roma, Viella, 2012, pp. 129-147.
[xxiv] Regulation (EEC) n. 214/79 of 6 February 1979 Amending Regulation EEC n. 724/75 on the Establishment of a ERDF in “Official Journal of the European Communities”, L35, 9 February 1979.
[xxv] R.M. Martins, J. Mawson, The Programming of Regional Development in the EC: Supranational or International Decision-making?, in “Journal of Common Market Studies”, vol. 20, n. 3, 1982, pp. 229-244.
[xxvi] B. De Witte, The Reform of the European Regional Development Fund, in “Common Market Law Review”, vol. 23, n. 2, 1986, pp. 419-440. Sull’importanza dell’introduzione di una sezione “uori quota” per lo sviluppo di una autonoma politica regionale comunitaria, si veda anche P. Pascallon, La politique communautaire d’aménagement du territoire: du Traité de Rome à l’Acte unique, in «Revue du Marché Commun», n. 339, Août-Septembre 1990, p. 518.
[xxvii] Quattordicesima relazione generale sulle attività delle Comunità europee nel 1980, Lussemburgo, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, 1981.
[xxviii] J.-F. Drevet, Histoire de la politique régionale de l’Union européenne, Paris, Belin, 2008, p. 74.
[xxix] D. Pasquinucci, I confini e l’identità. Il Parlamento europeo e gli allargamenti della CEE 1961-1986, Pavia, Polo interregionale di Eccellenza Jean Monnet – Università di Pavia, Settembre 2013, pp. 121-180.
[xxx] Parlamento europeo, Documenti di seduta 1978-1979, Relazione presentata a nome della commissione politica sulla domanda di adesione della Grecia alla Comunità, Relatore on. G. Amadei, Doc. 670/78, 9 marzo 1979.
[xxxi] Ibidem, p. 18
[xxxii] Accordo globale fra i Nove, in “Bollettino CE”, n. 5, Maggio 1980, punto 1.1.7.
[xxxiii] Agricoltura mediterranea, in “Bollettino CE”, n. 10, Ottobre 1981, punto 1.3.1.
[xxxiv] G. Laschi, Gli allargamenti e la PAC in prospettiva storica: il caso spagnolo, in D. Pasquinucci (a cura di), Dalla piccola alla grande Europa. Gli allargamenti della CEE/UE, Bologna, Clueb, 2006, pp. 11-37.
[xxxv] Commission des Communautés européennes, Direction générale de la politique régionale, Préparation de la deuxième série d’action communautaires spécifiques, 17/07/1981, in Archivi storici della Commissione europea (ASCE), Fondo Bruxelles Archives Commission (BAC) 147/1991 252.
[xxxvi] D. Pasquinucci, I confini e l’identità, cit., pp. 164-166.
[xxxvii] H.-G. Pöttering, Report drawn up on behalf of the Committee on Regional Policy and Regional Planning on a ‘Mediterranean plan’ for the benefit of Mediterranean countries belonging to the European Community and the applicant countries Portugal and Spain on the basis of a Council regulation, Working Documents 1981-1982, Document 1-736/81, 5 November 1981.
[xxxviii] G.P. Manzella, I primi passi della politica regionale europea (1969-1985), in “Rivista giuridica del Mezzogiorno” anno XXII, n. 2, 2008.
[xxxix] Commission des Communautés européennes, Délégation pour les négociations sur l’Elargissement, Problèmes sociaux et régionaux de l’intégration de l’Espagne et du Portugal dans la Communauté, Bruxelles, 10 décembre 1979, in ASCE, Fondo BAC 147/1991 30.
[xl] Commission of the European Communities, New Regional Policy Guidelines and Priorities. Mandate of 30 May 1980. Commission communication to the Council, COM (81) 152 final, 24 July 1981, riprodotto anche “Bollettino CE”, Supplemento n. 4, 1981, pp. 57-61.
[xli] Memorandum ellenico – Posizione del governo ellenico sulle relazioni della Grecia con le Comunità europee, in “Bollettino CE”, n. 3, marzo 1982, punto 3.4.1.
[xlii] R. Bideleux, Tra Oriente e Occidente: la Grecia e l’integrazione europea, in A. Landuyt (a cura di), Idee d’Europa e integrazione europea, Bologna, Il Mulino, 2004.
[xliii] EEC Commission, Commission Communication to the Council on a Mediterranean policy for the enlarged Community, COM (82) 353 final, 24 June 1982.
[xliv] F. Rizzi, Un Mediterraneo di conflitti, cit., pp. 67-78.
[xlv] H. Bourgeau, Programmes méditerranéens intégrés: un défi pour la Communauté, in “Revue du Marché Commun”, n. 270, Octobre 1983.
[xlvi] J.-F. Drevet, Histoire de la politique régionale de l’Union européenne, cit., pp. 91-95.
[xlvii] Regulation (EEC) No 1787/84 of 19 June 1984 on the European Regional Development Fund, in “Official Journal of the European Communities”, L 169, 28 June 1984.
[xlviii] Programmi integrati mediterranei: comunicazione della Commissione, in “Bollettino CE”, n. 2, Febbraio 1985, punto 1.2.1.
, Bruxelles, 29-30 marzo 1985. Il documento è reperibile al seguente link http://www.european-council.europa.eu/media/849229/1985_marzo_-_bruxelles__it_.pdf.
[l] B. De Witte, The Integrated Mediterranean Programmes in the Context of Community Regional Policy, in M.P. Chiti, Pubblica amministrazione e integrazione europea, Roma, CNR, 1997, pp. 341-361.
[li] Regulation (EEC) No 2088/85 of 23 July 1985 concerning the Integrated Mediterranean Programmes, in “Official Journal of the European Communities”, L 197, 27 July 1985.
[lii] Commission of the European Communities, The Integrated Mediterranean Programmes, European File, n. 1, January 1986.
[liii] Commissione delle Comunità europee, I programmi integrati mediterranei – Schede europee, Lussemburgo, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali, n. 1, gennaio 1986.
[liv] Sull’importanza pionieristica dei PIM come strumenti di cambiamento dei principi e delle modalità gestionali della politica regionale, si vedano i cenni contenuti in G. Viesti, F. Prota, Le nuove politiche regionali dell’Unione europea, Bologna, Il Mulino, 20073, pp. 14-15.