Premessa
Il seguente saggio vuole essere un rapido excursus su alcuni punti storiograficamente nevralgici relativi alla Resistenza alla luce della documentazione conservata nei National Archives di Londra. In particolare utilizzerò i file dello Special Operations Executive (SOE)[1], l’organismo britannico creato per dirigere i movimenti di resistenza armata nei Paesi occupati dall’Asse; e che, col nome di Number 1. Special Force, in Italia fu quello più vicino alle formazioni partigiane[2]. In questo lavoro non mi sono prefissato di ricostruire episodi o di dar conto di fatti[3], ho cercato piuttosto di individuare la logica generale che è alla base delle relazioni anglo-partigiane durante la Seconda Guerra Mondiale. La documentazione dell’SOE dà un doppio contributo alla storiografia sulla Resistenza italiana non solo perché permette di leggerla come problema di relazioni internazionali[4], ma, nella misura in cui ci riporta «le condizioni reali in cui quei servizi [segreti britannici] operarono»[5], perché ci consente di vedere la Resistenza “dal di dentro”; grazie alla percezione che ne ebbero gli ufficiali di collegamento dell’SOE[6].
1. Special Operations Executive, formazioni partigiane e politica di rifornimento
Una buona parte della storiografia ha più volte insistito sul timore britannico per il rafforzamento del comunismo in Italia e per la prospettiva che la guerra di liberazione si saldasse a quella di classe; un timore che avrebbe portato a rifornire selettivamente le formazioni partigiane discriminando quelle “rosse”[7]. Dalla documentazione delle missioni Special Force, emerge piuttosto come in questo organismo le Brigate Garibaldi non venissero considerate come un pericolo. Per l’SOE il Partito Comunista oscillava tra l’essere troppo debole per fare una rivoluzione socialista con successo e l’essere compromesso con la formula togliattiana della democrazia progressiva[8]. La visione delle direttive sul rifornimento delle formazioni partigiane e della realizzazione dei lanci dimostra che non ci furono pratiche “volontarie” di discriminazione, confermando piuttosto l’impegno britannico a favore di tutti i “colori” della Resistenza[9].
Dalla primavera del 1944, quando venne deciso di inviare gli ufficiali di collegamento britannici nelle formazioni partigiane, per rispondere alle necessità di controllo/sviluppo della guerriglia e alle incognite del dopo liberazione di Roma, le bande vennero rifornite grazie al contatto che gli ufficiali avrebbero mantenuto con la Specie Force, contatto che avrebbe permesso agli Alleati di utilizzarle per operazioni belliche in coordinamento con quelle regolari. Le direttive dell’SOE dimostrano come nella valutazione delle formazioni venissero considerati tre fattori: la «forza numerica» delle bande, «il presente stato dell’organizzazione ed il grado di attività» ed «il potenziale [raggiungibile] se adeguatamente assistiti»[10]. Non veniva valutata solo la formazione, ma anche il settore strategico dove questa si trovava; una scelta che, come affermava il colonnello Cecil L. Roseberry (J), comandate della Special Force, non prevedeva alcuna «discriminazione, eccetto la possibilità di utilizzo [della formazione] e la priorità militare dell’area»[11]. Un ordine ripetuto da Our attitude towards resistance che ricordava di appoggiare chiunque, senza tener «conto del colore politico di nessuna delle organizzazioni […] previa la nostra valutazione che siano capaci e desiderosi di eseguire operazioni offensive contro il nemico»[12]. Ed effettivamente i report dei British Liaison Officers (BLO) confermano che se la posizione “tenuta” dalle formazioni era strategicamente importante, i partigiani vennero riforniti ugualmente; anche prendendo «un immenso rischio, le armi [avrebbero potuto] essere usate in altre modo»[13]. A smentire la tesi della “discriminazione programmata”, nell’estate del 1944, le aree dell’Italia che ricevevano una quantità maggiore di lanci erano quelle centrali, dove operavano formazioni politicamente più problematiche; quelle del Piemonte settentrionale o delle colline lombarde, le migliori per il grado di organizzazione, erano invece le meno rifornite[14].
Con questo non voglio sostenere che non ci furono effettive discriminazioni e preferenze, ma solo che tali episodi rientrarono nella gestione della guerra, fatta di sviste ed errori, malintesi, ritardi. Un conflitto dove, da parte britannica, la Special Force era costretta ad un compito per il quale non era preparata logisticamente e tecnicamente, mentre da parte italiana pesavano l’impreparazione e i casi in cui le formazioni cercavano di giocare le missioni[15], ed anche i lanci[16], in funzione della competizione politico-istituzionale. Rientrano in questo tragico quadro le formazioni «over-armed», o quelle costrette ad abbandonare il materiale inviato perché già equipaggiate[17]. Se è vero che in certe zone la cooperazione “terra-aria” era così valida che si parlava con tono enfatico della «Partisan Air Force»[18], in altri gli stessi BLO si lamentavano di essere abbandonati[19], e richiedevano dei lanci come unica possibilità per «save our bacon»[20]. Per la tanto perversa quanto “naturale” logica distributiva dei mezzi in un contesto di risorse limitate, ciò significò che ad un eccesso di lanci in un settore corrispondesse la scarsezza di materiale inviato ad un altro. Alla frustrazione derivante dall’impossibilità di rifornire tutte le formazioni esistenti, la Special Force faceva fronte ricordando che, anche nei casi più fortunati, i partigiani non sarebbero comunque mai stati soddisfatti «della quantità dei lanci effettuati»[21].
2. Special Operations Executive e Brigate Garibaldi: un’«ossessione comunista»?
L’SOE ebbe giudizi molto sfumati in merito alla forza dei partigiani “rossi”, alle loro propensioni rivoluzionarie, al loro modo di relazionarsi con le missioni britanniche, ed al loro stesso modo di essere comunisti. Generalmente parlando, però, per la Special Force i garibaldini non furono percepiti come una minaccia politica, ma piuttosto come un alleato prezioso. Ciò perché non c’era nessuna rivoluzione proletaria in arrivo, nessuna nuova Grecia: il comunismo italiano oscillava tra essere troppo debole ed accettare il compromesso pluralista. Baker Street, la sede centrale dell’SOE, non dette ascolto alle voci più catastrofiche che ipotizzavano sollevazioni rivoluzionarie immediatamente dopo la liberazione. Monitorò attentamente i comunisti, sia nella sua componente paramilitare, le Brigate Garibaldi, sia in quella eminentemente politica, il Partito; ma non indulse “volontariamente” in pratiche discriminatorie nei confronti delle formazioni “rosse” né contro il PC. Se e quando richiese una politica di rifornimento più attenta, peraltro compensata da una costante impegno volto ad aumentare la dotazione della Resistenza italiana, non lo fece a esclusivo scapito dei garibaldini, ma entro un approccio più generale, comprendente anche le altre formazioni. A titolo di esempio esplicativo il documento del marzo 1945, redatto significativamente in prossimità dell’insurrezione, in cui il colonnello Stevens suggerì di mantenere il medesimo quantitativo di rifornimenti, ma di inviare «tanti “osservatori” quanti possibile, e che l’armamento dei partigiani [fosse fatto] con la più grande attenzione», senza menzionare esplicitamente il divieto di rifornire i comunisti ed anzi nell’ottica di evitare il virtuale scontro tra formazioni di “destra” e quelle di “sinistra”[22]. Una richiesta tale da evitare i possibili disordini che, scevri da ogni carattere effettivamente rivoluzionario, venivano ipotizzati manifestarsi con carattere giustizialista (le «rese dei conti») o per scongiurare quella polarizzazione politica che spingeva gli stessi moderati a nascondere le armi ricevute dagli inglesi per contrastare l’eventuale golpe comunista. Non mancavano voci che suggerivano strade diverse o un maggiore controllo, ma parlare per questo di volontà di comprimere la Resistenza sarebbe eccessivo: da un lato l’SOE si doveva comunque muovere in maniera dialettica tra il supporto della Resistenza ed il suo controllo; dall’altro per gli inglesi la guerra contro la Germania nazista sarebbe continuata anche dopo la liberazione dell’Italia e quindi avevano bisogno di una pianura padana in cui la situazione socio-politica rimanesse sotto controllo.
Dalla documentazione britannica emerge anche la “problematicità” del comunismo di coloro che parteciparono alla Resistenza nella Brigate Garibaldi. Prendere atto di questi dati non significa necessariamente accreditare una paradossale trasposizione della «zona grigia»[23] dentro le formazioni che tradizionalmente sono considerate quelle politicamente più mature; ma semmai invita a riflettere sulle le forme di adesione a questa ideologizzazione. Significa, cioè, problematizzare proprio quella dicotomia tra «minoranza attiva» e «maggioranza silenziosa», aggiungendo altre dimensioni alla già poliedrica nozione di Resistenza. Entro i non politicizzati, fatti salvi coloro che si mossero per opportunismo, renitenza alla leva ed altre motivazioni “egoistiche”, si individua così anche una gamma di persone che non vissero tanto il «distacco dal fascismo ma non ancora adesione (attiva) alle forze antifasciste»[24], ma piuttosto il contrario: ovvero l’esigenza di “andare in montagna”, anche senza aver ben chiaro il fine politico, inizialmente, ma continuando a non averlo nemmeno in seguito. Pare, infatti, che per alcune formazioni quella politicizzazione del “secondo” anno sia da un lato da post-datare fino allo stesso 1945[25], e dall’altro un fenomeno che assunse comunque forme di adesione multipla alle istanze della lotta partitica. Ed in effetti, per gli inglesi, nelle Garibaldi i comunisti oscillavano dal 15% al 20%[26]. All’interno delle Divisioni convivevano gruppi ben distinti di fede politica profondamente diversa[27], e molti opportunisti dell’ultima ora[28]. Non erano comunisti nemmeno quelli che di dichiaravano tali, perché alle volte «eccessivamente giovani per avere delle opinioni politiche»[29], o perché, in altri casi, troppo ignoranti per averne[30]. Secondo la Special Force per i partigiani italiani essere comunisti voleva dire indossare delle «sciarpe rosse»[31]. D’altro canto lo stesso Commissario politico delle formazioni, anche di quelle non comuniste, era in alcuni casi il perno della collaborazione interpartitica[32], in altri poco “efficiente”, spesso non in grado di agire politicamente per carenze di organico[33], o almeno nel 50% dei casi privo di coordinate ideologiche[34].
I “rossi” erano stimati in minoranza numerica rispetto ai partigiani con altre idee politiche o apolitiche[35]. Il memorandum intitolato The Partisan Movement in North East Italy osservava che della sovrastimata cifra dei circa 90.000 partigiani in Italia, «circa il 21% sono comunisti, 64% apolitici o di opinione politica sconosciuta, 11% sono per il Partito d’Azione, 3% socialisti e il rimanente 1% democristiani»[36]. Un dato grosso modo confermato anche dai report delle missioni, secondo cui molti partigiani non erano interessati alla politica. Un documento redatto dal capitano Terry ricorda che all’interno delle formazioni solamente pochi avevano chiaro il proprio obiettivo politico. Nelle Garibaldi i “veri” comunisti non erano più del 30%. Una minoranza tutt’altro che granitica perché anche al suo interno c’era una buona metà di opportunisti: dopotutto «il Partito Comunista [era] quello che [sembrava] offrire maggiori prospettive». Ogni eventuale tentativo insurrezionale sarebbe stato fatto «con pochi uomini armati»[37]. Le dichiarazioni del maggiore Pearson sono sulla stessa lunghezza d’onda: il 60% dei partigiani non militava politicamente[38].
Nella Special Force anche gli ambienti convinti della necessità di un maggiore controllo delle formazioni “rosse”, basavano la loro posizione in relazione al pericolo di disordini nel dopoguerra più che in prospettiva di una rivoluzione comunista. Questo spiega la ragione per la quale, quando nel 1945 vennero elaborate per la Resistenza delle linee operative contrarie all’espansione della guerriglia[39], l’SOE si impegnò perché il ridimensionamento dei lanci non fosse applicato: da un lato perché profondamente scettico sulla possibilità che la «guerra civile» in atto sarebbe continuata[40], dall’altro perché preferì proseguire col lavoro di monitorazione. Già nel gennaio 1945, a pochi giorni dalla realizzazione degli accordi con il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) ed in prospettiva dell’offensiva primaverile, l’Allied Force Headquarters (AFHQ) richiese un rapporto relativo alla situazione dei comunisti nei territori ancora occupati[41]. Il risultato fu il memorandum del 7 gennaio 1945, intitolato Communism in Italy. Dal documento, frutto di informazioni ottenute negli interrogatori dei Liaison Officers, emergeva un Partito Comunista che rinunciava, seppur tatticamente, a propositi golpisti. I militanti capivano che le condizioni per la rivoluzione non erano mature, mentre la stessa leadership, sebbene fosse preparata ad una soluzione violenta, non aveva intenzione di perseguirla. La percezione britannica era quella di un PC strettamente eterodiretto da Mosca. Ciò, tuttavia, per la Special Force rappresentava una garanzia. Anche grazie a questo ultimo rapporto, emergeva che in sostanza i comunisti seguivano una strategia attenta alla politica internazionale, almeno tanto quanto alla situazione interna all’Italia[42]. Dal punto di vista politico, inoltre, il loro ingresso entro la cornice di un Governo che tentava un ridimensionamento dei CLN[43], non poteva che rappresentare la conferma della loro linea collaborativa[44]. Le formazioni in quota comunista, dunque, non avrebbero optato per trasformare la lotta partigiana in guerriglia rivoluzionaria[45].
3. Special Operations Executive e Partito d’Azione: transizione e democratizzazione
La storiografia ha osservato che gli elementi salienti della politica alleata nei confronti del Partito d’Azione furono «nessun disegno organico, un solido empirismo, una sospensione di giudizio che rinviava alla verifica dell’autonoma capacità autopropulsiva del partito ogni scelta sul suo ruolo nei progetti sui futuri equilibri politici del Paese»[46]. Altri, riferendosi alla collaborazione para-militare, hanno ridotto a collegamenti personali la relazione alleati-azionismo affermando che «la fiducia accordata da organismi inglesi a singoli esponenti azionisti […] non comportava affatto un atteggiamento di favore verso il Partito d’Azione da parte dei dirigenti della politica britannica»[47]. Le due interpretazioni restano valide, perché considerano gli organi dell’Alta politica e/o la collaborazione prettamente operativa. Con la documentazione dell’SOE, però, possono essere specificate alla luce del fatto che, con la svolta di Salerno e la nuova centralità del Partito Comunista, Baker Street provò ad impostare una timida strategia destinata, al sud, a risolvere tramite l’azionismo la “deriva” verso sinistra della situazione politica italiana, causata dalla mancanza di un forte partito democratico-progressista in grado di catalizzare le opzioni di rinnovamento, procedere ad una effettiva transizione ed isolare i comunisti. Alla mancata trasformazione di questo filo-azionismo in un appoggio politico decisivo probabilmente concorsero: la complessità della situazione partitica italiana che aumentava le difficoltà di comprensione da parte britannica, lo scavalcamento “a destra” del PdA da parte del PC[48], e l’indeterminatezza o la contraddittorietà di Whitehall, incapace di uscire da un’impostazione non punitiva nei confronti dell’Italia[49].
Nessuna «posizione churchilliana del SOE»[50], quindi; questo organismo non era affatto appiattito sulle decisioni di Londra[51]. Il “progetto” della Special Force conferma che, entro un’amministrazione britannica preoccupata per la possibile influenza sovietica in Italia[52], esistesse una pluralità di linee politiche ed approcci strategici: molto oltre le opzioni filo-moderate di Winston Churchill, quelle di Harold Macmillan, e di Noel Charles[53]. Le radici di questo atteggiamento filo-azionista stanno nel rapporto che l’SOE aveva costruito con il PdA fino dai colloqui con Filippo Caracciolo[54], relazioni che dopo l’8 settembre erano continuate con le missioni CLN in Svizzera[55], e con il supporto logistico che la Special Force forniva a quelle personalità legate all’azionismo, astenendosi comunque da qualsiasi intervento diretto nelle issues italiane.
In un primo momento si trattò di un aiuto che non aveva finalità politiche. D’altra parte, la lettura liberal-progressista della Resistenza come «Secondo Risorgimento» o come «seconda unificazione italiana» era fatta propria dagli stesso SOE[56]. Questo comportamento empaticamente e tecnicamente partecipe aveva dei margini ben definiti: evitare una eccessiva compromissione politica diretta.
Parlare dunque di opzione conservatrice tout court dentro Baker Street sembra inappropriato. Significativamente con un documento dell’ottobre 1944 che faceva l’analisi della generale situazione partitica, l’SOE chiedeva un maggiore impegno per la democrazia, motivandolo con ragioni di realismo politico: i riflessi che avrebbe avuto sulla guerriglia al nord[57]. Si trattava di una proposta per l’intensificazione di quel percorso che gli Alleati avevano già intrapreso adottando (sulla carta) una linea più conciliante verso l’Italia: una linea percepibile nella Dichiarazione di Hyde Park del 26 settembre 1944. Così come questo «New Deal for Italy» ebbe difficile applicazione[58], il monito del documento dell’SOE rimase inascoltato.
È ragionevole, piuttosto, dire che più dei comunisti l’SOE percepisse una minaccia nei gruppi monarchici. Guardava con apprensione ai tentativi di ripresa dell’entourage sabaudo. A quattro giorni dal Congresso di Bari del gennaio 1944 venne elaborato un allarmante rapporto relativo ad un non meglio precisato Monarchical Liberal Committee for Reconstruction il quale stava cercando di organizzare «squadre armate a Bari [composte da] uomini scelti, al momento del Congresso, che [avrebbero organizzato] una dimostrazione pro-monarchica […] se necessario con l’uso della forza»[59]. Sulla medesima linea “di denuncia” un documento di pochi giorni successivo, relativo al meeting di un’associazione monarchica celebrato a Napoli. Il report sottolinea gli aspetti continuativi con il passato regime e la propensione alla violenza: i partecipanti avevano chiesto di poter formare un’organizzazione paramilitare per combattere gli oppositori della Monarchia ed avevano insistito perché venisse impedita la pubblicazione di «Italia Libera»[60].
4. Il contributo militare partigiano alla guerra
Per l’SOE sarebbe appropriato parlare di un giudizio positivamente critico dell’impegno partigiano: la collaborazione con la Resistenza fu utile, ma non indispensabile. Questa valutazione si dimostra importante dal momento che ci permette di aggiungere un ulteriore “perché” alle ragioni britanniche di non appoggiare totalmente le richieste partigiane di essere considerati come un esercito parallelo a quello alleato.
Questo tipo di giudizio è dovuto in primis alla prospettiva inglese. Da un lato non bisogna dimenticare che se per Londra la Campagna d’Italia era parte della Seconda Guerra Mondiale, per gli italiani era la Seconda Guerra Mondiale tout court. Dall’altro il right or wrong my Country britannico rendeva difficilmente condivisibile la competizione partitica e politica che esisteva tra le varie anime ed organismi della Resistenza. La Special Force era consapevole che «la lotta partigiana è una lotta politica», ma affermava che «le formazioni […] non combattono solo per vincere la guerra, combattono per vincere la loro guerra particolare»[61]. Secondo gli inglesi le differenze di opinioni e di obiettivi, non solamente tra “destra” e “sinistra” ma anche all’interno di quest’ultima[62], «interferivano con l’efficienza dell’organizzazione dei patrioti»[63]. Ovviamente non mancarono documenti che registrano i moltissimi casi in cui sebbene ci fossero «rivalità politiche, la lotta [comune] veniva per prima»[64], ma è senza dubbio significativo che gli inglesi calcolassero in una riduzione del 50% dei risultati ottenuti il peso dell’«interferenza di elementi politicizzati che si sforzavano di prendere il comando delle organizzazioni della Resistenza per i loro scopi personali». È altrettanto interessante che l’SOE giudicasse una soluzione «goffa ed inefficiente» la divisione delle formazioni secondo la caratterizzazione ideologica: era «ovvio che in qualsiasi banda di 300 uomini ci [potevano] essere […] fino a 10 fazioni politiche»[65].
Baker Street considerava che il problema più grande della Resistenza italiana fosse la mancanza di un’autorità centrale che potesse prendere decisioni chiare. Secondo gli inglesi questo implicava che sulla carta funzionasse tutto bene, ma nella realtà non procedesse niente: le direttive partivano dal CLNAI raggiungendo i CLN regionali: «benché un sistema piuttosto ideale in teoria, non ha sempre funzionato in pratica»[66]. Si trattava di un problema tecnico, la difficoltà delle comunicazioni, ma in parte era anche una questione che aveva ricadute politiche. I CLN, infatti, nell’opinione britannica erano troppo spesso divisi su questioni ideologiche; così come la competizione tra i CLN era un problema nel momento in cui si voleva centralizzare la guerriglia[67].
Valutazione analoga veniva espressa in merito alle formazioni. Nel marzo del 1945, il colonnello Charles Macintosch faceva una considerazione che potremmo considerare paradigmatica dell’atteggiamento generale dell’SOE: era oggettivamente difficile valutare l’operato dei partigiani; loro più grande merito comunque era quello di aver permesso di avanzare meglio e demoralizzare il nemico[68]. Una valutazione ambigua, “residuale”, confermata nel giugno successivo da un rapporto dal direttore operativo dell’SOE, Colin Gubbins (CD). Questi riduceva l’attivismo italiano nella guerriglia, affermando che il maggiore sforzo dei partigiani era stato quello di attendere il momento in cui avrebbero potuto fornire una maggiore assistenza alle forze regolari[69]. A controbilanciare questi giudizi positivi, ma non entusiasti, Roseberry, una settimana più tardi, redigeva un elaborato encomiastico nei confronti dei dirigenti partigiani e si spingeva ad affermare che «il contributo finale della Resistenza italiana è stato grande»; sebbene circostanziasse la valutazione osservando che una parte del successo era da attribuirsi al fatto che i tedeschi di fatto erano già sconfitti[70]. Questi i giudizi dei dirigenti dell’SOE, ma i pareri dei BLO sono ugualmente contrastanti, poliedrici nelle valutazioni. Alcuni trasmettono chiaramente che l’apporto dei partigiani alla sconfitta del nemico sia stato di grande valore[71]; altri si dicono soddisfatti dell’affidabilità delle guerriglia partigiana[72], analogamente a quelli che sottolineano l’utilità bellica delle formazioni[73]. Altri documenti, però, registrano pareri opposti sulla carenza delle loro necessarie qualità militari[74]. Più uniforme il giudizio positivo sull’antiscorch[75]; nonostante ciò, anche nella questione dell’antisabotaggio non c’è unanimità di giudizio. Per alcuni BLO, gli impianti produttivi, più che per merito dei partigiani e degli industriali che li avevano aiutati[76], si erano salvati perché i tedeschi erano troppo disorganizzati per distruggerli[77], o perché avevano deliberatamente deciso di evitare la terra bruciata[78]. Insomma, era innegabile il «contributo [dei partigiani] al collasso della Germania»; ma tali successi «non [avevano] giustificato il problema [che avevano sollevato] e le spese incorse nel rifornirli»[79].
Conclusioni
I documenti britannici offrono senza dubbio un angolo di visuale da prendere in esame al momento di leggere, in sede interpretativa, la Resistenza[80]. Virtuale ridimensionamento del contributo militare partigiano, i file dell’SOE non possono essere la base per fare un bilancio negativo della Resistenza italiana[81]. Per prima cosa, infatti, è chiaro che le esperienze di guerriglia, pur di minoranza e (almeno per gli inglesi) militarmente “residuali”, maturarono una nuova coscienza sociale e politica in chi vi partecipò, direttamente o indirettamente. Secondariamente sarebbe riduttivo limitare lo sguardo al solo aspetto “bellico” per giungere ad un bilancio storico sulla Resistenza; un concetto che non si esaurisce nella guerra per bande. L’ampliamento dell’interesse storiografico, infatti, da tempo ha superato la centralità dell’evento militare nella Resistenza e ha contribuito ad allargarne il concetto[82].
La documentazione britannica è importante soprattutto perché può aiutare ad avanzare delle ipotesi sui motivi per cui gli inglesi non appoggiarono totalmente i piani più ambiziosi di alcuni dei massimi dirigenti della Resistenza italiana, individuandoli in questioni tanto di carattere interno quanto di carattere internazionale. Da un lato, la sottovalutazione delle possibilità di mobilitazione antifascista che derivava dagli scarsi risultati della sovversione guidata dall’SOE durante il primo triennio di guerra[83]. Dall’altro, è bene ricordare che la Special Force era stata concepita, ed organizzata, per combattere un altro tipo di conflitto[84]; gli irrealizzabili progetti inglesi in merito alla guerra clandestina vennero cancellati già con la “nascita” della Grande Alleanza. Da quel momento l’SOE avrebbe dovuto concentrarsi su azioni di guerriglia condotte a livello tattico e non strategico[85].
Imputare quindi agli inglesi di non aver appoggiato la creazione di un esercito resistenziale su vasta scala sarebbe eccessivo. Anche in prossimità dell’insurrezione finale, preferirono semmai mantenere l’«hardcore della guerriglia» giudicando militarmente irrilevante l’aumento indiscriminato delle formazioni progettato dai partigiani[86]. Nel corso del triennio 1943-1945, comunque, Baker Street aveva già rivisto al rialzo i propri progetti strategici iniziali relativi alla guerriglia in Italia. I partigiani, infatti, “costrinsero” gli inglesi all’inseguimento[87], e trovarono sponda nei settori dell’SOE che avevano sempre pensato alle operazioni irregolari in termini quantitativamente più ampi[88]. Questi settori, però, non riuscirono ad avere l’appoggio degli organi dirigenti alleati per la trasformazione del movimento partigiano italiano in una forza armata più strutturata. Come detto, questo è da imputare a variabili esogene ed endogene alla dinamica resistenziale. In merito alle prime possiamo considerare la marginalità strategica del teatro bellico italiano[89], la diffidenza dei militari “regolari”[90], la cronica scarsità di mezzi disponibili[91], e l’impianto punitivo nei confronti degli italiani[92]. In merito a quelle endogene si deve prendere comunque in considerazione la responsabilità che ebbero gli stessi partigiani, per gli inglesi militarmente poco preparati e soprattutto troppo spesso impegnati in questioni di stretto respiro o nella competizione politica[93].
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Mireno Berrettini
Dottore di ricerca presso l’Università Cattolica di Milano, si interessa di rapporti tra inglesi, antifascismo e Resistenza. Tra le sue pubblicazioni: La Gran Bretagna e l’Antifascismo italiano. Diplomazia clandestina, Intelligence, Operazioni speciali (1940-1943), Firenze 2010 e La Resistenza italiana e lo Special Operations Executive britannico (1943-1945), Firenze 2014.
[1] Tutti i documenti analizzati in questo saggio sono conservati nella sere Records of the Special Operations Executive (SOE), SOE operations. Western Europe (HS 6) oppure in quella denominata SOE headquarters records (HS 8). Non è inconsueto trovare documenti privi di autore o di destinatario. In questi casi ho provveduto a segnalarne la mancanza con un punto interrogativo «?».
[2] In questo senso ho seguito il suggerimento di David Ellwood, Washington 1943-45. confitti di potere e evoluzione dell’intervento americano in Italia, in Italia e Alleati 1943-1945, Modena, Quaderni dell’Istituto Storico della Resistenza in Modena e Provincia, 1976, pp. 13-36, che invita ad un’analisi centrata sulla proposta politica degli organismi non statuali. Considererò dunque l’SOE non come un mero servizio segreto, ma come un’agenzia politico-militare, capace di avere una proposta diplomatica autonoma.
[3] Su questi si vedano David Stafford, Mission Accomplished. SOE and Italy 1943-1945, London, The Bodly Head, 2011 e la storia ufficiale delle attività SOE nella Penisola, Roderick Bailey, Target Italy: The Secret War against Mussolini, 1940-1943, London, Faber & Faber, 2014.
[4] Per questo rimane fondamentale Massimo de Leonardis, La Gran Bretagna e la Resistenza partigiana in Italia, Napoli, ESI, 1988, a cui di deve aggiungere Id., Gli accordi del dicembre 1944 tra Alleati e CLNAI visti attraverso i documenti del Foreign Office, in Le missioni alleate e le formazioni dei partigiani autonomi nella Resistenza piemontese, a cura di Renzo Amodeo, Cuneo, L’Arciere, 1980, pp. 337-352; Elena Aga Rossi, La politica angloamericana verso la Resistenza italiana, in L’Italia nella Seconda Guerra Mondiale e nella Resistenza, a cura di Francesca Ferratini Tosi, Gaetano Grassi e Massimo Legnani, Milano, Franco Angeli, 1988, pp. 141-154; Tommaso Piffer, Gli Alleati e la Resistenza italiana, Bologna, Il Mulino, 2010 ed Ennio Di Nolfo, La gabbia infranta. Gli Alleati e l’Italia dal 1943 al 1945, Roma-Bari, Laterza, 2010.
[5] John M. Stevens, Giuseppe Vaccarino e Franco Venturi, L’Inghilterra e la Resistenza, “Movimento di Liberazione in Italia”, 80 (1965), p. 84.
[6] L’attenzione ai documenti delle missioni britanniche sul campo tenta di recepire l’insegnamento metodologico di Guido Quazza, La Resistenza italiana. Appunti e documenti, Torino, 1966, Einaudi, p. 121, quando afferma che «i grossi problemi militari e politici della Resistenza non si possono assolutamente conoscere se ci si limita a guardare le cose dall’alto degli organi dirigenti».
[7] La letteratura in merito è enorme. Possiamo prendere come esempi di due posizioni diverse Giuseppe Vaccarino, I rapporti con gli Alleati e la missione al Sud (1943-1944), “Il Movimento di Liberazione in Italia”, 52-53 (1958), pp. 50-71 e Massimo Salvadori, Storia della Resistenza italiana, Venezia, Neri Pozza 1955.
[8] Si veda Mireno Berrettini, La Special Force britannica e la “questione” comunista nella Resistenza italiana, “Studi e Ricerche di Storia Contemporanea”, 71 (2009), pp. 37-62.
[9] Su questo argomento anche Mireno Berrettini, Le missioni dello Special Operations Executive e la Resistenza italiana, “Quaderni di Farestoria”, 3 (2007), pp. 27-47.
[10] 6/776 11-7-44, Supplement to paper dated July 1st, 1944. Gubbins aveva chiesto questo report in cui venisse esplicitato concretamente «il volume e il valore del movimento di resistenza italiano e una previsione di come si propone di svilupparsi nel suo futuro». Il rapporto doveva valutare la Resistenza evidenziando «a) Le aree principali dove la resistenza sta fiorendo; b) una breve affermazione del potenziale di ciascun area insieme come il numero di risorse, apparecchiature radio, eccetera, che sono state inviate; c) una stima del numero di lanci e tonnellaggio di pacchi che è stimato essere richiesto da ognuna delle aree»; significativa la mancanza di una valutazione sulla natura politica delle formazioni, in 6/776 7-7-44, CD/G a AD/H.
[11] Peraltro si trattava di una scelta elastica perché non escludeva che gli arerei potessero svolgere delle piccole azioni di rifornimento anche per «servire altri terreni entro raggio tattico», in 6/785 29-11-44, J a Berna.
[12] 6/862, Appendix C, Our attitude towards resistance in North Italy.
[13] 6/791 10-5-45, Holland a Tac HQ N.1 Special Force, Partisan Activities.
[14] 6/776 11-7-44, Supplement to paper dated July 1st, 1944; 6/776 11-7-44, J a AD/H.
[15] In genere questa tentazione era tipica delle formazioni più a destra nell’arco politico che interpretavano la presenza di un ufficiale britannico come un bilanciamento della presenza comunista nell’area. Un esempio in 6/840 16-6-45, Amoore a ?.
[16] In alcune aree le formazioni partigiane erano solite rubarsi i lanci a vicenda con una frequenza tale da indurre il BLO di riferimento a minacciare che se tale pratica non fosse cessata «immediatamente non ci sarebbero stati più lanci», in 6/861 12-11-44, Temple a ?, Flap Mission.
[17] Il termine è in 6/843 26-5-45, McMullen a ?. Altri rapporti che parlano di formazioni sovra-equippaggiate in 6/856 22-3-45, Stevens a Commander SOM e 6/844 15-6-45, Snapper a ?.
[18] 6/854 30-5-45, Brietsche a ?; 6/853 30-9-4?.
[19] Nella guerra partigiana ogni errore, anche il più banale, aveva conseguenze drammatiche, si veda 6/831 del 20-12-44, Lett a McKirth. «In agosto avevo richiesto» un lancio di scarpe, «sono passati 3 mesi e abbiamo avuto poco». Nell’ultimo erano stati inviato loro 78 paia di stivali, ma di una misura troppo grande.
[20] 6/831 30-11-44, Lett a Charles.
[21] 6/853 29-11-44, Vincent a ?. Report from BLO in North East Italy; 6/832 20-1-45, Oldham-?.
[22] 6/856 3-3-45, Stevens a ?, Condition in Piedmont.
[23] Su questo concetto si rimanda ovviamente a Renzo De Felice, Rosso e nero, Milano, Baldini & Castaldi, 1995 e Id., Mussolini. L’alleato (1940-1945), II, La guerra civile (1943-1945), Torino, Einaudi, 1997.
[24] Gian Enrico Rusconi, Resistenza e postfascismo, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 22.
[25] Santo Peli, Il primo anno della Resistenza. Brescia 1943-1944, Brescia, Micheletti, 1994.
[26] 6/840 23-6-45, Le Brocq a ?; 6/840 16-6-45, Amoore a ?; 6/795 8-10-44, Lees (Flap Mission) a ?, General report on Area Piemonte covered by Flap Mission.
[27] 6/791 7-5-45, Davies a ?, Interim report on organisation and activities of Modena Partisan Feb-Apr 1945; 6/847 13-6-45, Bentley a ?; 6/847 13-2-45, Report on the situation in Western Liguria.
[28] 6/854 31-5-45, Lingen a ?.
[29] 6/854 30-5-45, Brietsche a ?.
[30] 6/863 30-5-45, Oughtred a ?.
[31] 6/843 22-5-45, Gordon a ?.
[32] 6/844 15-6-45, Snapper a ?, Envelope Blue.
[33] 6/844 15-6-45, Snapper a ?.
[34] 6/840 12-7-45, Terry a ?.
[35] 6/866 19-5-45, Czernin a ?.
[36] 6/853 15-11-45, Vincent a Holdsworth, The Partisan Movement in North East Italy.
[37] 6/840 12-7-45, Terry a ?.
[38] 6/866 24-5-45, Pearson a ?.
[39] Linee solo apparentemente restrittive come considera anche T. Piffer, Gli Alleati e la Resistenza italiana, cit.
[40] 6/786 17-3-45, Roseberry a Ross e 6/786 29-3-45, ? a SOM Liaison Staff.
[41] Sappiamo questo da 6/875 16-1-45, GI1(b) a AD/P.
[42] Roberto Gualtieri, Il PCI, la DC e il “vincolo esterno”. Una proposta di periodizzazione, in Il PCI nell’Italia repubblicana 1943-1991, a cura di Roberto Gualtieri, Roma, Carocci, p. 50, infatti, considera «la stagione dell’unità antifascista» come «l’unico grande momento in cui gli aspetti nazionali e quelli internazionali della strategia politica del PCI non furono in contraddizione tra loro né con l’assetto complessivo dei rapporti internazionali».
[43] Riferendosi alla manovra di Bonomi, di «piccolo colpo di forza anti-CLN» ha parlato Antonio Gambino, Storia del dopoguerra. Dalla Liberazione al potere della DC, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 23.
[44] Roberto Gualtieri, Togliatti e la politica estera italiana. Dalla Resistenza al Trattato di Pace, 1943-1947, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 54, afferma che nella prospettiva comunista e della dialettica interna al partito «non partecipare al secondo governo Bonomi avrebbe […] significato scegliere la strada che avrebbe portato all’insurrezione o comunque a forzare notevolmente la situazione al nord».
[45] 6/875 8-1-45, AM.200 a D/H.928, Communism in Italy.
[46] Giovanni De Luna, Storia del Partito d’Azione 1942-1947, Editori Riuniti, Roma, 1997, p. 113.
[47] Massimo de Leonardis, La Gran Bretagna e la Resistenza, cit., p. 190.
[48] Nicola Gallerano, La lotta politica nell’Italia del Sud dall’armistizio al congresso di Bari, “Rivista storica del socialismo”, 28 (1966), p. 4, ha osservato che «all’intero programma azionista tolse spazio politico il programma “democratico” del PCI».
[49] Su questo Antonio Varsori, Italy, Britain and the problem of a separate peace during the Second World War: 1940-1943, “The Journal of Italian History”, 3 (1978), pp. 455–491.
[50] Raimondo Craveri, La campagna d’Italia e i servizi segreti. La storia dell’ORI (1943-1945), Milano, La Pietra, 1980, p. 127.
[51] In questo senso non concordo con Frederick W. Deakin, La Gran Bretagna e la Resistenza europea, “Il Movimento di Liberazione in Italia”, 65 (1961), p. 13, quando afferma che «mai il SOE fu un’organizzazione indipendente che conduceva la propria guerra, anche se in alcuni casi si poté creare, ma solo temporaneamente, un’impressione del genere».
[52] Il tardo strutturarsi del problema comunista solo dopo al riconoscimento sovietico di Badoglio in Bruno Arcidiacono, La Gran Bretagna e il pericolo comunista in Italia: gestazione, nascita e primo sviluppo di una percezione (1943-1944), “Storia delle Relazioni Internazionali”, 1 (1985), pp. 29-65 e 2 (1985), pp. 239-266.
[53] Questa l’opinione di Llewellyn Woodward, British foreign policy in the Second World War, Volume III, HMSO, London, 1973, pp. 480-484. Per uno studio che analizza la contraddittorietà della politica britannica, centrata sulla Monarchia ma svuotata da iniziative che ne minavano il rafforzamento si veda Massimo de Leonardis, La Gran Bretagna e la monarchia italiana (1943-1946), “Storia contemporanea”, 1 (1981), p. 74, il quale sostiene che non si può «minimamente parlare di solidarietà conservatrice con il Re e Badoglio, ai quali non si perdeva occasione di ricordare la loro condizione di vinti»; Id., Gran Bretagna, Governo del Re, Resistenza partigiana (1943-1944), in 1944. Salerno capitale. Istituzioni e società, Napoli, ESI, 1986, pp. 161-180.
[54] Su questo Mireno Berrettini, Gli inglesi, la diplomazia clandestina e l’Italia badogliana. Lo Special Operations Executive e la missione di Filippo Caracciolo, “Nuova Storia Contemporanea”, 1 (2008), pp. 31-44. Per i legami precedenti già attivati con altri esponenti dell’azionismo si veda Mireno Berrettini, Diplomazia clandestina: Emilio Lussu e Inghilterra nei documenti dello Special Operations Executive, introduzione a Emilio Lussu, Diplomazia clandestina, Firenze, Il Ponte, 2009, pp. 7-19.
[55] Carlo Musso, Diplomazia partigiana. Gli Alleati, i rifugiati italiani e la Delegazione del CLNAI in Svizzera (1943-1945), Milano, Franco Angeli, 1983.
[56] Le due citazioni in 6/901 9-12-42, CD a Cadogan e 6/843 26-5-45, McMullen a ?.
[57] Nel documento si affermava che gli unici veri nemici politici degli Alleati erano gli angloamericani stessi: «pochi credono che nell’Italia liberata possa esserci un’insurrezione o uno slittamento a sinistra [dell’asse politico], ma ci sarà se gli Alleati faranno una politica non democratica dando spazio alle forze della reazione che stanno aspettando», si veda 6/899 10-1-44, Italy analysis of new Political Parties.
[58] Sulle diverse interpretazioni da dare alla linea e sulla soluzione raggiunta solamente nel gennaio 1945, si veda C. R. S. Harris, Allied Amministration of Italy 1943-1945, London, HMSO, 1957, pp. 234-237.
[59] 6/899 24-1-44, Monarchical Liberal Committee for Reconstruction.
[60] 6/899 29-1-44, Meeting of Monarchist association in Naples 27/1.
[61] 6/843 26-5-43, McMullen a ?.
[62] 6/840 16-6-45, Amoore a ?, segnala rivalità tra i garibaldini ed i giellini.
[63] 6/830 2-6-45, Henderson a ?, Blundell Violet.
[64] 6/844 21-11-44, Davies a ?, Envelope Blue. Report on the Parma Mission for August, September and October.
[65] 6/862, Appendice C, Our attitude towards resistance in North Italy.
[66] 6/853 15-11-45, Vincent a Holdsworth, The Partisan Movement in North East Italy.
[67] Si vedano le analoghe considerazioni di Giudo Quazza, Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, Feltrinelli, 1976.
[68] 6/791 17-5-45, Macintosh a ?, Report on Tac HQ N1 Special Force.
[69] 6/902 2-6-45, CD a US of S.
[70] 6/843 13-6-45, J a D/EV, Note by Roseberry, Head of Italian Section, on Report by McMullen on his mission in Liguria.
[71] 6/866 24-5-45, Pearson a ?.
[72] 6/856 18-6-45, Ballard a ?.
[73] 6/848 28-6-45, Orr Ewing e Woods a ?.
[74] 6/791 14-5-45, Davies a ?, Final report on Partisans in Modena province e 6/856 3-3-45, Stevens a ?, Consitions in Piedmont.
[75] Valutazioni positive in 6/853 30-6-45, Macpherson a ?; 6/830 28-6-45, Lett a ?, Blundell Violet; 6/856 18-6-45, Ballard a ?; 6/856 10-6-45, Stevens and Dodson a ?; 6/840 12-6-45, Neale a ?; 6/848 28-6-45, Orr Ewing e Woods a ?; 6/843 26-5-45, McMullen a ?; 6/854 30-5-45, Brietsche a ?; 6/839 2-6-45, ? a N 1 Special Force Milan; 6/847 13-6-45, Bentley a ?; 6/842 1-4-45, Hope a Stevens; 6/864 26-5-45, Irwin a ?; 6/838 9-6-45, Johston a ?; 6/837 7-6-45, Barton a ?; 6/865 24-5-45, Matthews a ?; 6/791 10-5-45, Holland a ?, Partisan Activities. Giudizi positivi erano stati espressi già durante la guerra, si veda: 6/794 13-10-44; 6/791, Report on work of the real Det from 5 SFSS; 6/791, Mac Dermott operating with V Army; 6/797 14-10-44, Sandro a ?; 6/797 4-11-44, AM.69-?; 6/796 28-4-45, SOM a London; 6/853 29-11-44, Vincent a ?. Report from BLO in North East Italy.
[76] 6/841 22-6-45, Bell a ?.
[77] 6/791 14-5-45, Davies a ?, Final report on Partisans in Modena province; 6/796 5-5-45, Stevens a ?, e 6/854 31-5-45, Lingen a ?.
[78] 6/843 20-5-45, Richards a ?.
[79] 6/868 27-5-45, Leng a ?.
[80] Una proposta più articolata in Mireno Berrettini, La Resistenza italiana e lo Special Operations Executive britannico (1943-1945), Firenze, Le Lettere, 2014.
[81] Su questo si rimanda a Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storica e critica, Torino, Einaudi, 2004.
[82] Indicazioni utili in Santo Peli, Alcune idee sullo stato degli studi sulla Resistenza in Italia, “Italia Contemporanea”, 255 (2009), pp. 244-249.
[83] Alcuni esempi in Mireno Berrettini, «To set Italy Ablaze!». Special Operations Executive e i reclutamenti di agenti tra Enemy Aliens e Prisoners of War italiani (Regno Unito, Stati Uniti e Canada), “Altreitalie”, 40 (2010), pp. 5-25.
[84] Per un quadro delle attività dell’SOE e dell’antifascismo antecedente all’8 settembre 1943 si rimanda a Mireno Berrettini, Set Italy Ablaze! Lo Special Operations Executive e l’Italia 1940-1943, “Italia Contemporanea”, 252-253 (2008), pp. 409-434.
[85] Su questo Mireno Berrettini, La Gran Bretagna e l’Antifascismo italiano. Diplomazia clandestina, Intelligence, Operazioni speciali (1940-1943), Firenze, Le Lettere, 2010.
[86] M. Berrettini, La Resistenza italiana, cit., pp. 115-124.
[87] Su questo si possono vedere già le considerazioni di Ferruccio Parri, Il movimento di liberazione egli Alleati, “Il Movimento di Liberazione in Italia”, 1 (1949), pp. 7-27 e Roberto Battaglia, I risultati della Resistenza nei suoi rapporti con gli Alleati, “Il Movimento di Liberazione in Italia”, 52-53 (1958), pp. 159-172.
[88] Si veda M. Berrettini, La Resistenza italiana, cit., pp. 19-35.
[89] Su questo Elena Aga Rossi, L’inganno reciproco. Politica interna e situazione internazionale durante la Seconda Guerra Mondiale, Napoli, ESI, 1985.
[90] Massimo Salvadori, Gli Alleati e la Resistenza italiana, in Fascismo e antifascismo (1936-1948). Lezioni e testimonianze, a cura di Leo Valiani, Ernesto Ragionieri, Ferdinando Vegas e Riccardo Bauer, II, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 506, ricorda che «spesso il Comando Alleato rifletteva l’antipatia che ufficiali di un esercito regolare provano di solito per gli irregolari».
[91] M. Berrettini, La Resistenza italiana, cit., pp. 41-54.
[92] Si veda Antonio Varsori, L’atteggiamento britannico verso l’Italia (1940-1943). Alle origini della politica punitiva, in 1944. Salerno capitale istituzioni e società, cit., pp. 147-158.
[93] Franco Venturi, Ferruccio Parri, La Resistenza italiana e gli Alleati, “Il Movimento di Liberazione in Italia”, 63, (1961), pp. 18-55, ricordano che la Resistenza si presentò spesso divisa nei confronti degli Alleati, indebolendo così proprio potenziale contrattuale.