Il ricco volume di Guerzoni sarà sicuramente a lungo un punto di riferimento imprescindibile per chi vorrà occuparsi delle immagini del genocidio armeno. Si tratta, infatti, del primo tentativo di censire tutte le possibili fonti fotografiche per lo studio di questo vicenda.
Il primo, fondamentale, risultato di questo sforzo, come evidenzia l’autrice nella Prefazione, è proprio quello di “aver riunito in un solo lavoro materiale proveniente da archivi diversi, molto spesso non studiato e inedito […]” (p. 11). Si tratta, infatti, di una ricerca che, sempre nelle parole della giovane studiosa, ha preferito “privilegiare l’esaustività piuttosto che un approfondimento delle singole collezioni” (p. 31) Un lavoro di reperimento dei materiali lungo ed estremamente complesso, sia per le difficoltà più generali, intrinseche al lavoro negli archivi, soprattutto fotografici, sia per le difficoltà specifiche nel ripercorrere le vicende di materiale che è stato utilizzato con disinvoltura per fini pubblici opposti e disperso in collezioni conservate in paesi diversi, sulle tracce della diaspora del popolo armeno.
La storia delle fotografie del genocidio armeno coincide, infatti, con l’uso politico delle vicende del genocidio stesso, elemento che rende particolarmente difficile districarsi tra i documenti. Al punto da portare alla conclusione che “le precarie condizioni di conservazione del materiale, per non parlare delle fotografie di cui è impossibile rintracciare gli originali, sono lo specchio […] e la metafora, della questione armena nella storiografia internazionale” (p. 32). In particolare, il mancato riconoscimento del genocidio e la sua rimozione dallo scenario internazionale a seguito del trattato di Losanna del 1923 hanno implicato una rinuncia politica alla raccolta di “prove” da utilizzare di fronte alla giustizia internazionale.
Le fotografie del genocidio armeno sono, quindi, un ottimo esempio del modo in cui la storia delle immagini si intreccia con le vicende storiche e politiche, ne è talvolta addirittura motore e, sempre, strumento ampiamente sfruttato; al tempo stesso la storia delle immagini non può che essere indelebilmente marcata dal contesto storico e politico in cui si inseriscono la loro produzione e circolazione. Più di altri documenti, infatti, le fotografie sono soggette ad un forte uso pubblico; questo attribuisce loro una visibilità decisamente più elevata rispetto ad altre tipologie documentali ma, al tempo stesso, le sottopone al rischio di venire private di un reale spessore documentale, anche quando la loro manipolazione avviene in totale buona fede. Ne è esempio proprio lo stesso forte utilizzo delle immagini da parte della diaspora armena che ha finito per costruire una visione fortemente simbolica della persecuzione e del genocidio, non tanto come testimonianze di singoli fatti ed eventi specifici ma piuttosto come icone indistinte di una narrazione il più possibile “spendibile” e condivisibile. In questo percorso, gli elementi storici sfumano per lasciare il posto a una vittimizzazione simbolica. Come scrive l’autrice: “Rimaste strumenti di denuncia e propaganda, sono diventate anche fonti di memoria e identità. La confusione tra i due aspetti è totale, proprio perché viene sfruttata esclusivamente la forza di evidenza delle immagini, senza preoccuparsi di definire gli elementi di identità della foto” (p. 60). Ciò ha finito per rendere estremamente difficile, quando non impossibile, l’attribuzione delle immagini a specifici luoghi e momenti della vicenda, indebolendone a tal punto il valore di documento, di “prova” appunto, da renderle vulnerabili ad attacchi politici tendenti a denunciarle come falsificazioni; accusa che ricade, poi, sulla realtà stessa del genocidio armeno. Il problema è quello, cioè, della sovrapposizione dei piani: sembra che alle fotografie si chieda sempre un po’ troppo, senza porre nella loro lettura la cura necessaria a renderle realmente portatrici di senso. “Una fotografia vale più di mille parole!” Qualsiasi approccio basato su questa apparente dichiarazione di potere delle immagini, finisce in realtà per produrre l’effetto contrario, svuotandole di senso e rendendole facile preda degli scettici, per convinzione o comodità, ad oltranza.
Il volume parte da una ricerca di dottorato che ha consentito all’autrice il tempo e la libertà di muoversi tra numerosi archivi nel tentativo di costruirne una mappatura ma anche di evidenziare i percorsi delle fotografie dalla produzione all’utilizzo alla sedimentazione e, in qualche caso, all’oblio.
Grandissima parte del materiale reperito è pubblicata nel volume, che conta trecentosettantasette riproduzioni fra fotografie e vignette o articoli. Una mole documentale ingente ed estremamente preziosa, già sufficiente di per sé a giustificare la pubblicazione. Purtroppo l’edizione delle immagini, che spesso sono già in origine di bassa qualità, è troppo di frequente non ottimale: le dimensioni sono a volte davvero troppo piccole, numerose sono le riproduzioni di 2/3 per 3/4 cm; i grigi sono spesso “impastati” o il contrasto troppo basso. Questo rende in alcuni casi le immagini e, quando presenti, le annotazioni o le didascalie su recto o verso, del tutto illeggibili o quasi. Un vero peccato dato l’enorme sforzo richiesto dalla loro raccolta e pubblicazione. Un’occasione sprecata anche perché in netto contrasto con la più volte dichiarata attenzione alla metodologia nel trattamento del materiale fotografico archivistico, che l’autrice definisce “filologia” o “archeologia delle fonti” ma che dovrebbe semplicemente essere l’applicazione della metodologia storica nell’uso delle fonti, anche qualora queste si presentino sotto forma di immagini.
Lo sforzo metodologico di Guerzoni, del resto, si legge bene anche nello spoglio di parte della stampa illustrata dell’epoca; questa ulteriore ricerca le ha consentito sia di integrare il materiale fotografico con illustrazioni e vignette satiriche sia di ricostruire in maniera più ampia il contesto visivo all’interno del quale le fotografie hanno circolato. La contestualizzazione delle immagini non si limita alla singola pubblicazione (didascalie e articoli di accompagnamento) ma cerca di estendersi al sistema mediatico più in generale, evidenziando richiami, rimandi, ripetizioni o assenze.
La struttura del volume è fondamentalmente cronologica. Dopo un capitolo introduttivo, con riflessioni metodologiche ed epistemologiche, decisamente più interessanti quando vengono applicate al caso armeno che in alcuni passaggi più generali un po’ superflui e ripetitivi, l’autrice propone un percorso che ripercorre la produzione, la circolazione e lo sfruttamento politico delle immagini del genocidio armeno a partire dai massacri di epoca hamidiana a fine ottocento (1894-96) fino agli anni sessanta del XX secolo. La traiettoria evidenzia la vera e propria costruzione di un racconto intorno ad elementi narrativi fissi: “[…] massacri, separazione degli uomini dalle donne, allontanamento dal villaggio d’origine, campi, fame, violenze, malattie, momento della fuga, dell’incontro o dell’evento che ha permesso di sopravvivere e raccontare […]” (p. 61). La forza di questo schema narrativo è tale da assorbire forzosamente al suo interno qualsiasi documento, a costo di stravolgerne il significato e costringerlo a testimoniare il falso. Guerzoni cita l’esempio di una immagine con una colonna di persone in marcia attraverso il deserto. Utilizzata a più riprese come rappresentazione “autentica” di una marcia della morte, cioè di una colonna di armeni deportati verso l’interno della Turchia, essa documenta in realtà l’evacuazione di cinque dei ventiduemila bambini che l’associazione Near East Relief riesce a far uscire dagli orfanotrofi turchi alla volta di Siria e Grecia tra il 1922 e il 1923. Questo annullamento dell’aspetto documentale, schiacciato da quello propagandistico, produce, come sottolinea a più riprese l’autrice, un effetto boomerang che finisce per screditare integralmente la documentazione e lasciare gioco ai negazionisti.
Dopo la sintetica e chiara contestualizzazione storica, in cui bene si evidenzia come la nascita della “questione armena” si inserisca come arma diplomatica nelle relazioni tra le potenze europee e tra queste e l’impero ottomano, l’attenzione si concentra sulle prime violenze verso la comunità armena, compiute sotto la direzione del sultano Abdul Hamid II tra il 1894 e il 1896. L’autrice ne segue la rappresentazione e la diffusione, tramite fotografie, illustrazioni e vignette, sulle pubblicazioni dell’epoca rilevando come sia già possibile identificare le “coordinate di un immaginario occidentale che rimarrà invariato per decenni” (p. 73).
La creazione di modelli di rappresentazione iterati non riguarda solamente i contenuti, ma si attua anche a livello delle modalità di rappresentazione; in particolare, si cristallizza fin da subito l’immagine degli armeni esclusivamente come vittime passive. “L’uso di stereotipi iconografici ricorrenti, che designano i turchi come ‘diversi’ e ‘barbari’, e gli armeni come innocenti nuovi martiri cristiani, impersonati quasi sempre da donne e bambini, costruisce un immaginario che ben corrisponde agli interessi occidentali […]” spiega Guerzoni (p. 81). Del resto, gli stessi processi di produzione della documentazione visiva non sono neutri: le illustrazioni vengono costruite per lo più sulla base delle testimonianze orali di diplomatici e missionari presenti sul posto, i giornalisti e la Croce Rossa non arriveranno che più tardi a portare il proprio sguardo professionale.
Il periodo in esame è estremamente interessante anche dal punto di vista della storia dei mezzi di comunicazione: le immagini fotografiche sono al loro esordio sulla stampa periodica, la tecnica che ne rende possibile la pubblicazione è nata solo qualche lustro prima, ed esse si trovano ancora a condividere lo spazio mediatico con incisioni e vignette satiriche. Ciò si traduce in una “complementarità della modalità di comunicazione, i disegni sono indispensabili per raccontare gli avvenimenti e spiegare che cosa è successo; le fotografie sono la prova dei fatti […] diventano ostensioni della violenza, atti d’accusa” (p. 85). Alla fotografia si richiede una testimonianza; se ne sottolinea cioè il valore indicale e non la capacità di racconto. Anche le immagini del genocidio armeno paiono confermare, almeno in questa prima fase, quello che per lungo tempo è stato “lo sguardo ritardato” della fotografia sui grandi eventi: quello che viene immortalato non è tanto il momento della violenza quanto il suo risultato, gli effetti che la violenza ha prodotto.
Il 1908-09 si pone come un’altra fase significativa nella costruzione dell’immagine del genocidio armeno: le fotografie delle violenze politiche e della repressione, con la successione di impiccati, entrano a far parte “dell’iconografia e della memoria visiva della questione armena nella diaspora” (p. 109) prima del culminare della tragedia nel genocidio del biennio 1915-16 la cui rappresentazione si inserisce nello scontro fra l’Intesa e gli Imperi centrali; mentre la Germania cerca di nascondere gli eventi, le forze dell’Intesa utilizzano le immagini della violenza contro gli armeni come arma di denuncia della brutalità dei nemici. Lo stesso Consiglio nazionale armeno partecipa a questa opera di accusa pubblicando nel 1917 un album con testi e didascalie in armeno e in russo e trenta fotografie che documentano le vittime, i campi profughi e alcune attività di aiuto umanitario. Nonostante questo fervore, già da queste prime pubblicazioni monografiche apparse durante la prima guerra mondiale, sottolinea Guerzoni, “inizia il processo di impoverimento del documento fotografico del genocidio degli armeni” (p. 207): il corpus di immagini ricorrenti è, cioè, molto più ristretto di quello effettivamente disponibile. Si tratta, di nuovo, di un processo frequente anche in altri eventi storici ma è di grande interesse seguire le motivazioni e il percorso che, nei diversi casi, portano alla selezione di alcuni documenti a scapito di altri.
Alla chiusura del conflitto, cadute le ragioni della censura, le immagini che denunciano il genocidio hanno maggiore possibilità di circolazione. Tra le figure impegnate in prima linea nel loro recupero un posto di grande rilievo merita senza dubbio Armin Wegner, militare tedesco di stanza nell’Impero ottomano durante la prima guerra mondiale e attivista per i diritti umani. A lui si deve la collezione più estesa di immagini dello sterminio utilizzate anche in una serie di attività di denuncia della tragedia, tra cui una famosa conferenza illustrata. Un ruolo importante è svolto anche dalle associazioni umanitarie, in particolare dalla già citata Near East Relief e dell’American Committe for Armenian and Syrian Relief che nel 1916 pubblica “The Cry of Millions”, un opuscolo più volte riedito ampiamente illustrato.
Proprio il forte peso delle associazioni umanitarie nella denuncia del genocidio armeno è una delle ragioni dello sfruttamento intensivo delle immagini di donne e bambini nelle pubblicazioni prodotte. Entrambi descritti tradizionalmente come vittime “ideali”, figure deboli e capaci di suscitare un forte coinvolgimento emotivo, sembrano i soggetti perfetti per richiamare l’attenzione sulla crudeltà degli eventi e sulla difficoltà della ripresa di una vita normale, e quindi per raccogliere fondi a questo fine. L’immagine dei più piccoli come strumento di denuncia rimanda chiaramente alla tradizione della comunicazione concerned, sia letteraria che giornalistica che fotogiornalistica, di fine ottocento, soprattutto nei paesi anglosassoni. Per quanto riguarda, invece, l’utilizzo dell’immagine femminile è facile vedere all’opera stereotipi orientalisti, per cui la minaccia incombente sulle giovani armene, appartenenti a una popolazione di cui si sottolinea costantemente l’appartenenza alla comune religione cristiana, è quella della sessualità aggressiva e fuori controllo del mondo al di fuori dei protettivi confini “occidentali”, identificata con la stereotipata immagine dell’harem.
Il crollo dell’Impero ottomano chiude la questione ottomana e, con essa, la “questione armena”. Concluso il periodo della tragedia e dell’emergenza, le immagini delle violenze e del genocidio acquisiscono un nuovo valore per la popolazione della diaspora, diventando elementi di costruzione e ricostruzione identitaria. Nelle parole dell’autrice, “la rappresentazione simbolica del genocidio attraverso le immagini del passato offre l’opportunità di proporre un immaginario coerente e univoco contro la frammentazione e la dispersione” (p. 343).
Il testo si chiude con un percorso tra le immagini del genocidio armeno pubblicate online: ancora una volta si rilevano all’opera intenti opposti di denuncia e costruzione di memoria da una parte e finalità negazioniste dall’altra, sotto una comune, colpevole, disattenzione per lo spessore documentale delle immagini utilizzate. Le ultime pagine del lavoro sono dedicate ad alcune riflessioni conclusive che riprendono le osservazioni disseminate lungo il corposo volume.
La sua impostazione estensiva, rivendicata dall’autrice, è senza dubbio il principale, e notevole, pregio del testo. Tuttavia il rischio di smarrirsi nelle complesse vicende e nella mole di documenti e spunti proposti è reale. Avrebbero forse giovato al testo uno snellimento e una riorganizzazione del materiale. Oltre a una più precisa definizione di alcuni dei termini e delle categorie utilizzate, come per esempio quelle di “denuncia” e di “violenza politica”. Nonostante queste debolezze, che d’altro canto testimoniano anche il palpabile entusiasmo della studiosa per la propria ricerca, il testo è senza dubbio di grande interesse per chiunque si occupi della questione armena o di utilizzo pubblico delle fotografie storiche.
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