Credo che la ricerca di Michelangela Di Giacomo su movimento operaio e immigrazione meridionale a Torino negli anni del boom economico si possa annoverare tra gli esempi di sintesi riuscita tra storia sociale e storia politica (ma anche economica e sindacale). Si tratta peraltro di un libro non solo ben documentato, ma anche scritto con uno stile fresco e vivace; qualità, com’è noto, non così frequenti nei libri di storia.
Al centro del volume sono appunto gli immigrati meridionali nel capoluogo piemontese, il loro rapporto con il movimento operaio organizzato, ma sullo sfondo si intravede un tema più vasto: le dinamiche del cambiamento sociale e la capacità di adeguamento (o meno) delle strutture politiche e sindacali. Questo mi pare il tema più interessante, e anche più attuale, del libro, che fa riflettere sui ritardi della politica e del sindacato attuali, ad esempio rispetto all’immigrazione dall’estero o anche rispetto al precariato, mentre alcuni fenomeni, in forme nuove, tornano a riproporsi, dal ricatto occupazionale all’instabilità del lavoro. L’operaio meridionale neo-assunto in fabbrica a Torino, racconta l’Autrice, “lavora troppo, accetta tutti i turni, tutti i trattamenti. Ha bisogno di quell’impiego ed è sotto il ricatto del licenziamento o del contratto in scadenza. […] La sera arriva sempre più stanco. Ne parla con i compagni, si avvicina a qualche sindacalista. Ma non c’è tempo ancora per la politica. È tutto troppo precario” (p. 32). Sembra il ritratto di un lavoratore o di una lavoratrice dei nostri giorni.
La difficoltà economica e la marginalità sociale, insomma, non favoriscono la lotta, ma la scoraggiano. E non a caso la mobilitazione riprende a partire dal 1960-62, allorché i frutti del “miracolo economico” cominciano a essere maturi, e poi ancora nel 1966-67.
La vicenda descritta è quindi quella di un intenso processo di alfabetizzazione politica e sindacale da parte dei nuovi immigrati, ma anche quella dello sforzo di analisi e di adattamento rispetto alla nuova situazione da parte dell’organizzazione politica – “il Partito” – e del sindacato. È dunque la storia di un duplice “processo di apprendimento”, anzi di un processo triplice, perché anche i lavoratori del Nord imparano gradualmente a conoscere i loro compagni meridionali, a superare le diffidenze e i pregiudizi, a costruire assieme a loro una nuova soggettività operaia.
Gli immigrati descritti dall’Autrice giungono a Torino spaesati, disorientati, cosicché inizialmente si organizzano per “clan”, per appartenenze locali o regionali, ma nel giro di pochi anni diventano attivisti, militanti e in qualche caso dirigenti sindacali e politici, dando nuova linfa al movimento operaio torinese e acquistando essi stessi una nuova identità, una identità di classe che va al di là e talvolta sostituisce le vecchie appartenenze.
D’altra parte, Di Giacomo descrive bene anche i metodi Fiat: paternalismo e salari superiori alla media, da un lato, e intimidazione e reparti-confino, dall’altro. Gli operai meridionali neo-assunti sono stretti a lungo in questa tenaglia, anche perché di solito sono quelli meno specializzati e sindacalizzati: sono i tipici “operai massa”, sebbene giustamente l’Autrice metta in discussione questa categoria, dietro la quale si cela una realtà molto articolata.
Quanto alle risposte politiche e sindacali alla nuova realtà dell’immigrazione, la Fiom-Cgil inizia il suo adeguamento strategico già all’indomani della sconfitta nelle elezioni per le Commissioni interne del 1955: si avvia la linea del “ritorno in fabbrica”, ma al tempo stesso Cgil e Pci tendono sempre di più anche a uscire dalla fabbrica, per seguire i lavoratori “sempre più dispersi nel territorio” (p. 48), legando cioè la condizione operaia ai problemi della casa, dei trasporti, della congestione urbana, dei servizi; e su questi temi elaborano proposte, costruiscono iniziativa politica, ponendo così le basi per un nuovo radicamento sociale del partito e del sindacato. L’immigrazione, cioè, “era il punto centrale di un discorso di tipo sindacale e politico e creava il nesso tra rivendicazioni nei luoghi di lavoro e rivendicazioni in città” (p. 130).
Il 1960 è l’anno della svolta, caratterizzato dalla lotta degli elettromeccanici, dal “Natale in piazza Duomo”, oltre che dai fatti di Genova, Reggio Emilia e Sicilia, che mandano in tilt il vecchio equilibrio centrista. Ma la svolta, che poi si manifesta anche a Torino, oltre che nelle migliori condizioni create dal boom economico che rendono possibile un diverso rapporto di forza sul piano sociale, ha la sua origine anche in un altro elemento, che l’A. mette in luce, ossia nella ricostruzione di un tessuto unitario tra i lavoratori, di una nuova unità d’azione innanzitutto a livello sindacale. Fa un certo effetto, in questa fase in cui la logica del maggioritario e di presunte autosufficienze ha stravolto tutto, ripensare alla posizione del leader della Cisl Giulio Pastore, che nel 1958 si schiera perché all’interno della Fiat sia garantita la libertà di voto per le Commissioni Interne, o alla lotta unitaria condotta dalla Fim-Cisl alla O.M. di Brescia, o ancora alle prese di posizione avanzate e unitarie delle Acli di Livio Labor. E in effetti la ricostruzione di quello che allora si chiamava un “fronte unitario di classe” appare il presupposto fondamentale della controffensiva degli anni ’60.
L’Autrice dedica poi molta attenzione anche al lavoro di inchiesta condotto da partito e sindacato. Di Giacomo cita a più riprese i casi di questionari che vengono elaborati da Pci, Cgil, Acli ecc. e diffusi presso iscritti e lavoratori: anche da questa iniziativa capillare deriva una conoscenza delle realtà in trasformazione, della rivoluzione tecnologica in corso, e piani di lavoro ad hoc. Esemplare il caso dell’inchiesta condotta da Adalberto Minucci sull’“Unità” che – come egli stesso avrà modo di raccontare successivamente – comincia a evidenziare l’esigenza di strutture di tutti i lavoratori (non solo di quelli sindacalizzati) come saranno poi i Consigli di fabbrica a partire dalla fine degli anni ’60.
I risultati di tutto questo lavoro politico – il libro lo documenta bene – non tardano peraltro a giungere: nel Pci torinese entrano nel solo 1961 ben 1300 lavoratori meridionali, nel 1962 alla Fiat scioperano in 60.000, nel ’63 il voto degli immigrati premia il Partito comunista, e due anni dopo la Fiom torinese vede aumentare del 6% i suoi voti tra gli operai. E questa nuova ondata trascinerà con sé nella lotta anche la Uil e, nel ’66, persino il sindacato aziendale della Fiat.
Il libro di Michelangela Di Giacomo, dunque, oltre a fornire uno straordinario spaccato dell’immigrazione meridionale a Torino e della capacità di rigenerazione del movimento operaio, conferma un dato storico centrale e oggi forse un po’ dimenticato, e cioè che il lavoro politico e sindacale – organizzato, capillare e costante – costituisce un elemento decisivo della ripresa di mobilitazione e della crescita civile dell’Italia degli anni ’60 e ’70. Ed è anche grazie a questi immigrati meridionali se in quella fase è l’intero modello di sviluppo a essere messo in discussione: un risultato non da poco, per giovani e lavoratori che erano arrivati a Torino pochi anni prima senza punti di orientamento, spesso ancora con le valigie di cartone e tra i pregiudizi e la diffidenza degli autoctoni. Il volume di Michelangela Di Giacomo ci aiuta quindi a ridare il giusto valore a questo contributo e a questa storia, e nel farlo ci offre diversi elementi di riflessione preziosi anche per l’oggi.