Recensione:Gabriele Donato, “La lotta è armata”. Estrema sinistra e violenza: gli anni dell’apprendistato, 1969

L’opera di Gabriele Donato rappresenta un tentativo riuscito di ricostruzione storica del dibattito sulla violenza politica tra e nei gruppi della sinistra extraparlamentare nei primissimi anni Settanta in Italia. La sua ricerca si concentra nell’arco di anni che vanno dal 1969 al 1972, quelli che nel titolo l’autore definisce “dell’apprendistato”, cioè dell’incubazione di una conflittualità che nasce come spontanea e che arriva a militarizzarsi mediante processi simbolici, riflessioni teoriche, eterogeneità tra gruppi e spaccature teorico-politico interne ad essi. Quali furono le ragioni che portarono molti militanti di sinistra a scegliere la violenza terroristica e ad intenderla come “legittimo strumento di lotta politica? Come si articolarono i momenti di confronto grazie ai quali si consolidarono le motivazioni di quanti – a sinistra – decisero d’imbracciare le armi?”[1] Quali argomentazioni e modelli di riferimento scegliere per ottenere un cambiamento radicale della società? Quali forme di lotta portare avanti o importare per sviluppare dei movimenti rivoluzionari in Italia?

Il libro si apre con una premessa – a tratti didascalica – del percorso metodologico seguito. Donato dedica una particolare attenzione all’esame dei linguaggi presenti nelle riviste e nelle pubblicazioni della sinistra extraparlamentare (in particolare quelle di Potere Operaio e Lotta Continua) e traccia per la sua ricerca una sorta di vocabolario storico. A piè di pagina chiarisce le categorie che utilizzerà costantemente in tutta l’opera con l’intento di orientare il lettore nei complessi ragionamenti in seno ai gruppi. Un determinato linguaggio scelto dalle formazioni è analizzato nella sua capacità di funzionare come un’ officina di parole, “delle parole nuove che preparavano alla rivoluzione” (l’autore riprende una citazione di Acquaviva)[2]. Lo studioso indaga i motivi della scelta da parte dei gruppi di alcune categorie rispetto ad altre (prediligere ad es. “lotta armata” piuttosto che “terrorismo”). Le fonti sono interrogate per comprendere quale funzione assume la violenza nel discorso pubblico di quanti si proponevano rivoluzionari e quali forme vengono considerate legittime e quali meno. Donato però non vuole affrontare una storia del terrorismo in Italia: “Lo studio che viene presentato è dedicato solo in parte al terrorismo di sinistra, le cui ‘imprese’ si moltiplicarono a partire dal biennio 1974-1975 […] non possono essere considerate terroristiche due delle organizzazioni più citate nella ricerca – LC e PO – certamente attive sul terreno delle azioni violente, ma ostili nei confronti della prospettiva della clandestinizzazione. Le BR la ritennero invece indispensabile, tanto da optare definitivamente per essa nel 1972; lo stesso fecero i Gruppi di azione partigiana (GAP)”[3].

Dall’analisi delle riflessioni interne ai gruppi (e tra le formazioni) emergono diversi punti di vista in cui la violenza è quasi sempre legittimata; cambia il dibattito intorno alle forme di lotta e al loro utilizzo: dalla “guerra di lunga durata” del CPM (Collettivo Politico Metropolitano) milanese, che confluirà nell’esperienza della rivista teorica “Sinistra Proletaria”[4], allo scetticismo di PO nei confronti dell’avanguardismo; dall’interpretazione militare antifascista d’ispirazione guevarista del conflitto sociale dei Gruppi di Azione Partigiana alle divergenze con le Brigate Rosse nel mantenimento o meno (le BR portano avanti la seconda opzione in contrapposizione ai primi) del rapporto politico diretto con le masse e concentrato tutto sul nesso “avanguardia/collettività”.

Nel confronto tra il materiale prodotto dalle diverse formazioni politiche, Donato applica una metodologia comparata che consente di analizzare la dialettica all’interno dei e tra i gruppi e rintraccia degli aspetti comuni o contrari: una prossimità delle organizzazioni e quindi un’ inevitabile competizione nei gruppi[5]; il problema del riformismo che è considerato l’avversario principale da tutte le formazioni della sinistra extraparlamentare ed è concepito – come Sorel teorizzava ai primi del Novecento – come il nemico numero uno della conflittualità sociale e che sancisce la rottura tra LC, PO e il Manifesto nel ’72; il ruolo maggiore o minore attribuito al pericolo neofascista e borghese; per i GAP è alla base della lotta contro il pericolo concreto di un golpe militare e di una dittatura fascista imminente, per LC e PO “l’impiego della violenza contro i militanti dell’estrema destra era considerato prioritario in funzione della preparazione della lotta violenta contro gli apparati dello Stato”[6]. Per LC e PO la violenza di piazza doveva confluire anche nelle azioni dei gruppi organizzati, per le BR “formazione che come tale era assente dalle mobilitazioni, l’intera attività rivoluzionaria doveva coincidere con l’impegno militare”[7].

La svolta militarista o la resa e la disgregazione delle formazioni arriva nel 1972-1973. LC e i suoi militanti riconoscono nel convegno di Rimini del 1972 il momento della “svolta militarista” e PO riflette sulla lotta armata e su quale sponda collocarsi. Non si contesta la legittimità delle azioni ma la riflessione di PO verte sull’incisività di tali procedure nei paesi democratici occidentali. Il rifiuto della completa clandestinizzazione indebolisce la sua capacità d’iniziativa; le BR – invece – che scelgono presto la via della clandestinità, riescono a concentrarsi maggiormente sulle azioni e riportano dei successi “d’immagine”. In sostanza, secondo Donato nel 1972: “Se formazioni come AO e il Manifesto avevano deciso di concentrarsi sulla costruzione dell’organizzazione politica trascurando le necessità dello scontro militare, e gruppo come GAP e BR avevano deciso, invece, di armarsi a prescindere dall’assenza di un partito rivoluzionario, PO, come del resto LC, si ostinava a cercare un’alternativa a quei percorsi, che non si risolvesse semplicemente nell’affiancare all’organizzazione politica un braccio armato”[8]. L’opera si conclude con la parabola discendente di PO, la spaccatura dell’asse Piperno-Negri, i tentativi di quest’ultimo di riflettere sulla dicotomia tra il movimento rivoluzionario di tutte le masse oppresse e quello dell’organizzazione, l’ascesa e il rafforzamento delle BR nella fase in cui gli altri gruppi perdono la capacità di attrazione e si disgregano sotto il peso dell’estremizzazione terroristica.

La comparazione con l’Irlanda e il forte ascendente che assume l’IRA nell’immaginario di LC[9] è un aspetto che si sarebbe potuto ampliare certamente di più. Donato avrebbe potuto allargare l’indagine anche verso altri Paesi quali appunto la Francia (che tratta brevemente nella parte che dedica a Sinistra Proletaria e alla Gauche Proletarienne francese) e i movimenti studenteschi di estrema sinistra di Berlino Ovest.

L’analisi del linguaggio che compie Donato si accompagna a una disamina storico-politica che rende lo studio della percezione dei gruppi un punto di vista reale e fruibile in ambito storiografico. Il problema che si riscontra in questo tipo di ricerche è la dialettica che s’instaura tra il fatto reale e l’azione percepita dai gruppi. Donato riesce a fluttuare tra una narrazione extraparlamentare e il contesto storico: emergono così – tra un’analisi e l’altra – dei “ganci” funzionali alla narrazione. Potere Operaio e, nella parte finale, un’analisi delle opere di Toni Negri (“Crisi dello Stato-piano, comunismo e organizzazione rivoluzionaria”, “Crisi e organizzazione operaia”) occupano uno spazio maggiore che Lotta Continua. Ma questo può rappresentare un merito e il libro si colloca in un settore abbastanza vuoto degli studi sui movimenti extraparlamentari degli anni Settanta dal momento che su LC esiste già un’ampia bibliografia al contrario che su PO.

La letteratura di riferimento è un po’ carente di studi internazionali seppure Donato porta con sé un bagaglio di contributi recentemente pubblicati sulla violenza politica (ricerche degli ultimi 5-7 anni) e sa mantenere l’analisi sul terreno della sociologia e storiografia più classica. In conclusione, il libro è una lettura sicuramente nuova, che approfondisce degli aspetti ancora poco chiari nell’indagine sulla violenza politica degli anni Settanta e rappresenta un ulteriore tassello storiografico rivolto a tutti gli studiosi sul tema.

 

 

Laura Di Fabio è dottoranda in Storia presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata, in cotutela con l’Università Westfälische Wilhelms-Universität (WWU) di Münster. Attualmente lavora al progetto di ricerca dal titolo: “Italia e Repubblica Federale tedesca contro il terrorismo. Una cooperazione bilaterale, uno studio comparato (1974-1982) – Italien und die Bundesrepublik Deutschland gegen den Terrorismus. Die bilaterale Zusammenarbeit, eine vergleichende Studie (1974-1982)”. I suoi ambiti di ricerca sono la storia del terrorismo, della violenza politica e dell’antiterrorismo in Italia e in Europa; la storia italo-tedesca dal secondo dopoguerra ad oggi; la storia comparata e transnazionale.

 


[1] Donato G., “La lotta è armata”. Estrema sinistra e violenza: gli anni dell’apprendistato 1969-1972, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2012, p.11-12

[2] Ivi, p. 15; l’A. cita S. Acquaviva, Guerriglia e guerra rivoluzionaria in Italia. Ideologia, fatti e prospettive, Rizzoli, Milano, 1979, p. 33

[3] Ivi, p. 18

[4] “[…] si trattava di un segno evidente dell’attenzione che il gruppo nutriva nei confronti di Gauche Proletarienne (GP), formazione maoista dell’estrema sinistra francese dichiarata illegale nel maggio del 1970”, Ivi, p. 110

[5] Ivi, p.16

[6] Ivi, p. 293

[7] Ivi, p. 296

[8] Ivi, p. 336

[9] Ivi, p.330

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