La Sicilia alla metà degli anni cinquanta avanzava faticosamente lungo il difficile percorso della ricostruzione materiale e della modernizzazione sociale ed economica. Un progresso lento e contraddittorio, aggravato dalle devastazioni materiali della guerra. La regione, d’altra parte,era stata colpita duramente. Erano andati distrutti, o erano stati gravemente danneggiati, 250 mila vani, il 10% degli edifici pubblici, 20 km di banchine ed edifici portuali, 2300 km di strade e un centinaio di ponti; la rete ferroviaria aveva subito danni per 11,2 miliardi di lire, più del 50% del patrimonio turistico aveva subito danneggiamenti, così come il 44% delle centrali elettriche, aggravando una situazione di già carente dotazione energetica. Anche l’agricoltura appariva in ginocchio con un patrimonio zootecnico contrattosi del 20%, con 6,4 mila ettari di superficie produttiva divenute inutilizzabili, 8 milioni di viti e un milione di piante tra agrumi e olivi andati perduti[1]. Un quadro desolante che inaspriva le lacerazioni di una società arretrata, impegnata nel difficile processo di ricostituzione delle strutture dello Stato democratico. Un percorso ostacolato nell’immediato dopoguerra dalle urgenze imposte dalla problematica gestione degli ammassi, dalla reviviscenze del banditismo e della mafia[2], dall’emersione di un movimento politico separatista, dalla stessa graduale riorganizzazione dei partiti del CLN, negli anni di transizione del 1943-46[3]. La stessa emersione di un vasto movimento contadino sull’onda dei decreti Gullo sulla concessione delle terre incolte e sul riparto del prodotto mezzadrile, (leggi 279 e 311 del 19 ottobre 1944), esprimeva istanze antiche finalmente dotate di una copertura legale e di una guida politica, con una classe di giovani attivisti sindacali social-comunisti in grado di unificare in una prospettiva classista e anti padronale lo stato di agitazione delle campagne isolane[4]. Una Sicilia in ebollizione in cui attecchiva e si diffondeva un sentimento di rivalsa contro lo Stato centrale, considerato causa dei mali dell’isola, brandito con una certa radicalità dal notabilato separatista e poi rielaborato in chiave autonomista, anti-separatista e unitaria, in particolare, da democristiani e comunisti. Un autonomismo che indicava nei torti subiti dall’isola da parte dello Stato centrale le cause principali della sua arretratezza e che invocava risorse aggiuntive e l’istituzione di una Regione con competenze eccezionali in materia economica e fiscale. Su questa base rivendicativa e riparazionista, mutuata in parte dal pensiero sturziano e in parte dalle teorizzazioni di Enrico La Loggia[5], nel maggio 1946 veniva approvato con decreto luogotenenziale lo statuto speciale che attribuiva alla Regione competenze in materia di politiche industriali, agricole, minerarie e includeva tra le altre cose l’art. 38, che imponeva allo Stato il pagamento di una somma a titolo di solidarietà nazionale da impiegarsi in lavori pubblici[6]. La Regione siciliana, dunque, a differenza di altri consolidati autonomismi europei non aveva trovato legittimazione in una qualche identità etno-culturale difesa storicamente da qualche soggetto politico di massa. Al contrario, era stata l’esito di un processo politico tumultuoso promosso da partiti nazionali – come la DC, il PCI, e con qualche esitazione dal PSI – al fine di integrare l’isola al resto del Paese in termini di sviluppo economico e di modernizzazione[7]. In altre parole, al di là del forte afflato riparazionista e nonostante la minaccia separatista, il fondamento dell’autonomia siciliana coincideva con il raggiungimento di obiettivi economici e sociali tangibili. Era il progresso la vera legittimazione identitaria della Regione e della sua classe politica.
Su queste basi si consolidava una dialettica politica regionale tra partiti di opposizione e di governo, che alimentava narrazioni autonomiste antitetiche, che si sovrapponevano alle rigide contrapposizioni della guerra fredda. Se da una parte la DC, al governo sin dalla prima legislatura con l’appoggio delle destre, cercava di evidenziare il buon funzionamento dell’ente regionale mettendo in evidenza l’attività legislativa, le risorse stanziate, i primi traguardi raggiunti; dall’altra, socialisti e comunisti, al contrario, contestavano l’azione di governo democristiana, mostravano le miserie e le ingiustizie subite dai siciliani o denunciavano il tradimento dell’autonomia e degli interessi locali subordinati ai centri di potere del Nord. Autonomismi contrapposti, insomma, che facevano blocco solo transitoriamente in occasione dell’approvazione di leggi ritenute essenziali per la Regione o nel caso di gravi conflitti con il governo nazionale[8], ma che nella battaglia politica quotidiana, si conformavano anche ad una dinamica politica coerente con il quadro nazionale. In un contesto simile le cronache dell’autonomia assumevano un valore essenziale e per varie ragioni. Innanzitutto perché le vicende siciliane si intrecciavano con i dibattiti sul nuovo meridionalismo[9], sugli indirizzi della Cassa del Mezzogiorno, e, soprattutto dopo la scoperta del petrolio nell’isola, con il lacerante dibattito sul primato dell’iniziativa privata o sulla preminenza dell’industria di Stato[10].
In secondo luogo, quelle cronache dovevano essere la più diretta evidenza della grande trasformazione in atto nel Paese, dovevano contribuire a rendere visibili obiettivi, speranze, realizzazioni dei governi democristiani. In questo senso, anche le immagini della «nuova Sicilia autonomistica» che apparivano frequentemente nei cinegiornali de La Settimana Incom o nei tanti documentari prodotti nel corso degli anni ’50, potevano avere un valore eccezionale, rappresentando in maniera più che diretta i mutamenti in corso e il loro carattere epocale e irreversibile. I nuovi lavori, il ruolo delle donne in una società modernizzata, i quartieri in costruzione, i consumi, il turismo popolare, le grandi opere pubbliche, il petrolio, le raffinerie, (etc..), erano d’altra parte la faccia più comprensibile e immediata dell’autonomia, contribuendo per certi versi al processo di apprendistato democratico in atto[11]. D’altro canto, queste narrazioni attribuivano legittimità alla classe politica siciliana, cementavano un’identità regionale che abbisognava di realizzazioni e che trovava come unico fondamento il perseguimento dello sviluppo economico, la modernizzazione dell’isola, la piena occupazione.
Di questo ci occuperemo nelle pagine che seguono, prendendo in esame la vasta mole di documentari e di cinegiornali de La Settimana Incom conservati perlopiù dall’Archivio Storico dell’Istituto Luce. Una produzione quest’ultima che riproduce narrazioni spesso stereotipate, che oscillano tra la descrizione di un mondo immobile, arretrato e arcaico e la rivelazione trionfalistica di una realtà in tumultuosa ascesa verso il benessere, con un ripetersi di immagini, trame, soggetti più intenti a stimolare emozioni che non a informare, ma che appare comunque una sorta di «vetrina» in cui si mettono in mostra le trasformazioni del Paese[12].
La Sicilia immobile del dopoguerra (1947-1952)
L’attenzione nei confronti della Sicilia cresceva solo a partire dagli anni cinquanta, in concomitanza con le prime realizzazioni della Regione e della Cassa del Mezzogiorno e con una maggiore rilevanza della vicende isolane all’interno del dibattito politico nazionale. Nell’immediato dopoguerra, invece, la Sicilia dei cinegiornali Incom appariva ancora come uno spazio di tradizioni, una società arretrata con un’economia ancorata ad attività antichissime e in crisi, come l’estrazione dello zolfo. Una regione devotissima e folkloristica, in cui la modernità faceva capolino solo attraverso la mondanità di Taormina e dei suoi festival, o grazie al rombo dei motori della Targa Florio e del Giro aereo di Sicilia[13]. Anche la natura siciliana veniva rappresentata come una sorta di metafora delle miserie e delle sciagure che colpivano l’isola, che diventava così uno spazio eternamente dolente, in cui anche l’estrema bellezza sembrava risolversi, alla fine, in dolore. Così, ne La Settimana Incom del 6 marzo 1947[14], la forza brutale dell’Etna in eruzione diventava un castigo di Dio che distruggeva le colture e costringeva le popolazioni all’esodo, come avveniva in quei giorni – diceva la voce narrante– nelle altrettanto disgraziate terre del confine orientale. La Settimana Incom del 18 gennaio 1951[15] offriva con ancor più forza drammatica le immagini e i suoni del vulcano: la lava, le pietre, il fragore delle esplosioni, il fuoco che incalzava, uomini e donne in preghiera, un pianto disperato di bambini, le croci dei cimiteri aggredite dalla lava, il contadino che perdeva la casa e si incamminava ricurvo tra la sciara fumante. Tutte immagini potenti che restituivano la cinica bellezza e l’irrazionale ingiustizia del vulcano, di fronte alla quale gli uomini non avevano altra difesa che il proprio lavoro, la fede e la speranza nel futuro: «fragili atleti della vita di fronte agli informi strepiti della natura gli uomini vanno armi alla mano a riconciliarsi col domani».
La natura siciliana aveva però fattezze multiformi e poteva esprimere violenza e desolazione anche nelle forme aride e aspre delle montagne di Montalepre, che, ne La Settimana Incom del 31 luglio del 1947[16], in «un’aria ronzante di canicola», divenivano simbolo e habitat ideale delle attività banditesche di Salvatore Giuliano, che qui trovava rifugio come il «ramarro tra le pietre improvvisate del sole». Il binomio natura-banditismo, veniva ripreso anche nel 1949 ne La Settimana Incom dell’1 settembre. Qui le campagne «di dorsi e petraie» e «gli aridi campi e colline chiusi anch’essi in una tragica omertà» erano il violento paesaggio in cui perdevano la vita 7 militari in seguito ad un conflitto a fuoco con i banditi nella località di Bellocampo[17]. Una Sicilia che appariva, dunque, omertosa e opaca, sempre tragica,nonostante la luce abbagliante e i paesaggi sconfinati, ancorata al passato,al folklore, ai canti popolari, al duro lavoro dei siciliani, dignitoso ma incapace di far fronte alle ancestrali miserie dell’isola. Lo sciopero dei minatori raccontato da La Settimana Incom del 15 dicembre 1951 era un esempio di questa condizione[18]. La dura vertenza sindacale che vedeva contrapposti lavoratori e padronato per i bassi salari introduceva lo spettatore in un mondo di disoccupati, di anziani mutilati, di bambini scalzi, di donne affaccendate tra le strade polverose e le case semi diroccate di un paese del nisseno «così scarno che a guardarlo stringe il cuore». Una regione assillata da problemi, dunque, se non da vere e proprie disgrazie, in cui la tragica inerzia dell’arretratezza era più forte della capacità di sopportazione dei siciliani. Il progresso era ben poca cosa: qualche nuovo traghetto a coprire i collegamenti sullo stretto di Messina, o le stazioni RAI di Caltanissetta e Palermo che potenziavano le emissioni in Sicilia e in Calabria, in nome di un paese più unito. Un progresso che veniva sempre da fuori, comunque. Magari con i moderni pescherecci triestini di rotta a Lampedusa per intercettare i grandi banchi di pesce del Canale di Sicilia, raccontati dal documentario di Gianni Vitrotti Trieste a Lampedusa. Un’isola che rimaneva fuori dal tempo,con le donne che «filano la lana alla maniera di sempre», in cui le uniche attività produttive erano la pastorizia e la pesca, sempre primordiale, sempre deludente, nonostante l’immane fatica, e dove solo i triestini portavano «un po’ di vita», offrendo lavoro ai locali e un po’ di speranza[19]. Il futuro appariva in quella piccola isola, propaggine estrema del Paese, solo un riflesso di esperienze e civiltà estranee ad un mondo permanentemente uguale a se stesso.
La nuova Sicilia del petrolio
Nell’isola la prima pionieristica stagione dell’autonomia si era conclusa. La Regione si era data una struttura amministrativa e cercava la sua legittimazione approvando riforme importanti come quella sulla non nominatività dei titoli azionari del 1948 o come quella agraria del 1950 a cui si aggiungevano provvedimenti ritenuti essenziali per l’industrializzazione dell’isola come la legge n. 29 del 1950 e la legge n. 30 dello stesso anno, che regolamentava il comparto estrattivo garantendo condizioni vantaggiose per le compagnie di estrazione[20]. Tra il 1952 ed il 1953 cominciavano ad essere visibili i risultati delle politiche regionali, resi possibili anche da un contesto favorevole, con la Cassa del Mezzogiorno, con i primi stanziamenti del fondo di solidarietà (art.38 dello Statuto)[21] e con la scoperta del petrolio a Ragusa che faceva sognare un futuro texano all’isola, o persiano a seconda delle suggestioni del momento[22]. In questi anni finali della seconda legislatura regionale un centinaio di miliardi si riversavano in Sicilia e i giornali[23] dedicavano settimanalmente intere pagine ai lavori pubblici appaltati, progettati o avviati, restituendo anche nelle aree più arretrate l’immagine di un’isola capillarmente investita da un’imponente e febbrile attività.
Una nuova narrazione della Sicilia si imponeva dunque, celebrativa della Regione e del governo nazionale, fatta di cronache giornalistiche, ma anche di immagini, di cinegiornali, di documentari. Oggi in Sicilia, per esempio, era un lavoro del 1953 di Ubaldo Magnaghi in cui le immagini del paesaggio e della città diventavano metafora di una rinascita che aveva per protagonista la Regione. Non era più la Sicilia di Salvatore Giuliano, un universo arcaico e tragico, ma un luogo in cui le nuove energie del petrolio, dell’edilizia, dell’energia elettrica convivevano armonicamente con le più tradizionali attività dell’isola – le zolfare, la pesca, la conservazione del tonno, le saline, il cotone, il vino, il turismo, la ceramica ect… – divenute espressioni, ora, di una Sicilia laboriosa e vitale. I volti scavati dalla miseria, le donne dolorose nei loro veli neri lasciavano il posto a operai e operaie, a contadini e artigiani immersi nelle loro azioni[24]. Una fiducia nel futuro che diventava il leitmotiv dominante in questi anni. Nel documentario di Giacomo Pozzi Bellini, Opere in Sicilia, le immagini delle nuove strade siciliane finanziate dalla Cassa del Mezzogiorno – a congiungere paesi separati «da tempo immemorabile» o a rendere fruibili le bellezze della Valle dei Templi – si univano alle immagini delle dighe sul Belice e sul Disueri, a quelle delle bonifiche nella piana di Gela, a quelle delle tante opere in via di edificazione. Vere imprese che promettevano di restituire quell’antica opulenza dell’isola testimoniata dalle meravigliose vestigia del passato. La modernità diveniva legame tra un passato florido e un futuro che, secondo lo speaker, assumeva le forme dell’asfalto e del cemento e che vedeva nella Regione e nello Stato i loro artefici. Ma erano soprattutto i siciliani ad apparire sempre al lavoro, protagonisti finalmente del loro destino, pienamente immersi in un mutamento profondo che poteva avere le fattezze dei pozzi petroliferi o del ponte che si progettava, già allora, per unire l’isola al continente[25]. Tutto appariva improvvisamente cambiato e La Settimana Incom del 19 maggio 1954 celebrava questa nuova Sicilia autonomista al suo ottavo anniversario,coi suoi nuovi quartieri, le scuole in costruzione, le corriere che avanzavano nel traffico palermitano cariche di operai festanti, come a rappresentare il nuovo status e la nuova atmosfera de «la Sicilia in cammino»[26]. L’isola, d’altra parte, appariva un osservatorio privilegiato delle trasformazioni in atto nel Paese e il documentario di Massimo Rota, Sicilia uno e due, era un resoconto di questa mutazione[27]. Nell’isola descritta da Rota il «fervore di rinnovamento che la pervade tutta» attecchiva positivamente in una natura immota e meravigliosa, integrando nuove e antiche attività con le bellezze del territorio circostante. Il petrolchimico siracusano diveniva così «un tempio innalzato alle divinità meccaniche di questa epoca, il simbolo della tenace e costante volontà di affermazione della laboriosa gente dell’isola». Questa simbiosi tra i monumenti di un passato illustre e i simboli del progresso era un tema più che ricorrente e assumeva ancor più valore in una fase politicamente densa come quella delle elezioni regionali del 1955. La narrazione ottimistica ed elogiativa poteva così sconfinare nella propaganda. Un esempio era La Sicilia è in Cammino[28] di Giorgio Baldaccini,in cui le riprese del XV giro automobilistico di Sicilia divenivano metafora e pretesto per raccontare un’isola in rapida metamorfosi. Qui le donne, divenute operaie, potevano finalmente coronare quel «romanzo nuziale che negli anni della miseria coltivavano senza speranza». Qui, apparivano gli alberghi di lusso e i turisti sorridenti nel godere delle meraviglie dell’isola, e qui ritornavano le immagini di industrie brulicanti, di dighe imponenti, di centrali elettriche all’avanguardia. Qui si celebrava una Sicilia in movimento, abbellita dal passato e dalla sua esuberante natura, ma protesa verso il futuro. Un mondo nuovo in cui anche i vecchi contadini in sella ai loro muli su aride trazzere come secoli orsono, sempre uguali e dolenti, potevano gioire della sorte dei figli divenuti operai nei nuovi stabilimenti industriali.
Queste immagini e queste descrizioni ricorrevano in numerosi filmati e in tutti si celebrava l’azione del governo regionale che, d’altra parte, secondo L’Ora[29], finanziava direttamente quei lavori soprattutto in periodo elettorale[30]. In Sicilia Visto e sentito[31] del maggio 1955, per esempio, il progresso si rifletteva nei sorrisi e nella gioia delle donne intervistate, che descrivevano con orgoglio le loro case, che andavano in fabbrica in bici o in vespa, che indossavano abiti colorati, «senza più lo scialle nero con cui andavano a servizio o al lavatoio», o come le studentesse che giocavano a pallacanestro giovani e libere, simbolo di una Sicilia in cui scompariva «la cosiddetta malinconia del Sud». Fotogrammi e parole che confutavano gli stereotipi e attribuivano maggior efficacia al consueto repertorio di strade inaugurate (la litoranea Catania-Siracusa), di cantieri, di centrali elettriche, di alberghi, etc. Insomma anche il progresso doveva avere un contenuto sociale immediato e questo doveva essere il portato più dirompente dell’autonomia siciliana. In Evoluzione della Sicilia, Igiene e sanità del 1958, per esempio,questa nuova realtà assumeva le forme di una profonda trasformazione urbanistica fatta di scuole nuove di zecca,di ospedali efficienti e di servizi basilari – come l’acqua corrente, un wc, un lavabo – finalmente alla portata di tutti nei nuovi quartieri palermitani e catanesi. La miseria doveva apparire un retaggio del passato per tutti.
Non cambiava nulla con il Milazzismo, la nuova dirompente fase della politica siciliana, con una DC all’opposizione e un governo autonomista guidato da un gruppo di transfughi del partito cattolico e appoggiato sia dalle sinistre che dalle destre[32]. Era un vero terremoto politico, ma continuavano a scorrere le stesse immagini di una Sicilia rinnovata e in tumultuosa trasformazione. Anche se, col passare degli anni, questa narrazione del mutamento, assumeva anche nuovi contenuti. In Direzione Sud di Ubaldo Magnaghi, per esempio,le immagini di studenti stranieri in vacanza all’International Student Village di Stromboli, quelle delle famiglie accampate nei campeggi di Piano Battaglia, di Linguaglossa o ospitate dai bungalow di Taormina, o, ancora, le immagini dei tanti giovani -il «pubblico cosmopolita» – che affollavano il Village Magique di Cefalù rivelavano una Sicilia che si apriva non solo al turismo di massa, ma che sembrava voler cambiare rapidamente i propri costumi[33]. «Se ci vedessero i nostri vecchi» diceva lo speaker, mentre scorrevano le immagini di donne e uomini in costume, a ribadire un salto generazionale e una rottura col passato che appariva il vero epocale contributo del nuovo corso democratico ed autonomistico. Un dato che appariva con chiarezza nel documentario intitolato Gela 1959: pozzi a mare prodotto dall’ENI, che nel frattempo iniziava le ricerche petrolifere e la costruzione di una raffineria nella piana di Gela[34]. Nel lavoro di Vittorio di Seta la frattura tra passato e presente era nettissima. Le immagini delle operazioni di trivellazione, il contesto ultra moderno e iper-tecnologico delle installazioni, sembravano appartenere ad un mondo diverso da quello dei contadini gelesi, intenti a «zappuliare» per mille lire al giorno e per un centinaio di giorni all’anno, come se il tempo si fosse bloccato in un immobilismo rassegnato[35]. Questo lacerante dilemma tra passato e presente era raccontato, tra gli altri, anche dal documentario di Giuseppe Ferrara Gela antica e nuova. Le immagini che scorrevano e i testi di Leonardo Sciascia rivelavano una realtà ancora arcaica – l’aratro a chiodo, le case dimesse, la devozione e il folclore, simbolo di una Sicilia primordiale – ormai definitivamente contaminata dai simboli della modernità: non solo la città di acciaio del petrolchimico, con il suo carico di lavoro e speranza, ma anche i simboli diffusi di un progresso che faceva capolino nelle case e nelle strade con i primi televisori, i frigoriferi, le insegne dei negozi, le automobili, le lambrette[36]. Una Sicilia, insomma, definitivamente cambiata, condizionata dalle pesanti strutture economiche e sociali del passato, ma ormai proiettata nell’Italia del Miracolo economico, che qui aveva le fattezze dell’acciaio, del petrolio, dei nuovi lavori, dei nuovi quartieri residenziali di Catania e Palermo. Quegli stessi, come il Nuovo San Berillo e Nesima di Catania, che presto sarebbero diventati metafora del degrado urbanistico di quelle stesse dolenti città.
Una conclusione
Nel 1959 in occasione delle elezioni regionali il PCI produceva Sicilia all’addritta[37] con la regia dei fratelli Taviani e la voce narrante del poeta siciliano Ignazio Buttitta. Il filmato riprendeva la consolidata narrazione di un’isola ricca di risorse depredata da baroni, da mafiosi e dal grande capitale, i cosiddetti monopoli; una Sicilia tradita dai governi democristiani, colpevoli di aver violato l’autonomia e le speranze dei suoi cittadini. Le parole del poeta accompagnavano le immagini di una Sicilia schiacciata ancora da una desolante miseria, con gli aggrottati, i bambini cenciosi «che tarantulianu» e una lunga carrellata di ingiustizie, stenti e rovine, riscattata solo dalle lotte popolari e dal governo autonomista di Silvio Milazzo appoggiato dai comunisti. In questi anni il racconto della Sicilia immota e arretrata ritornava ripetutamente nella prosa di Sciascia e di Carlo Levi, nelle denunce di Danilo Dolci, nei reportage de L’Ora, nei documentari del già citato Vittorio De Seta ( Lu tempu di li pisci spada, Surfarara, Contadini del mare, Parabola d’oro)[38], in quelli di Gianfranco Mingozzi (Col cuore fermo, Sicilia e La terra dell’uomo su Danilo Dolci) e dello stesso Giuseppe Ferrara (Minatore di zolfara, Le streghe a Pachino, La mafia del pesce, il villaggio fantasma)[39]. La Sicilia appariva qui una metafora di Paese un paese povero, che stava cambiando pelle rapidamente, ma con tempi, forme e conflitti diversi. Nell’isola queste contraddizioni e queste ingiustizie apparivano ancor più evidenti e laceranti. Miseria antica e miti del progresso convivevano spesso uno di fianco all’altro, mescolandosi senza soluzione di continuità, creando nuove inedite contaminazioni, come l’operaio di Gela antica e nuova che smetteva la sua tuta blu per divenire devoto di Santa Maria delle Grazie ed andare in processione seguendo antiche e consolidate ritualità. Due narrazioni contrapposte dunque – quella celebrativa e quella della miseria antica – che coglievano aspetti diversi di una realtà composita e la piegavano alle divergenti esigenze del dibattito pubblico. Se L’Ora alla vigilia delle elezioni regionali del 1955 denunciava la faziosità dei documentari Incom, finanziati dalla Regione per fare della Sicilia«una pubblicità di un formaggio o di una saponetta», era pur vero che quei documentari non inventavano nulla. Esasperavano ed esaltavano una realtà che stava modificandosi rapidamente e celebravano un progresso che attribuiva legittimazione ad una classe politica, al regime autonomistico e alla democrazia. Ma in fin dei conti raccontavano, seppur in maniera parziale, i mutamenti irreversibili di una società, delle sue caratteristiche, delle sue idiosincrasie, del suo immaginario.
“Sicily on the move”. Documentaries, narratives and images of a society between backwardness and development (1953-1962)
Post-war Sicily was at the centre of a process of social and economic transformation capable of attributing meaning and legitimacy to autonomous status and the regional political class, but also full of contradictions. Backwardness and development continued to co-exist, often seamlessly, feeding different narratives about Sicily. On the one hand, the narrative of those who govern the region, who celebrated the success of autonomous status, its material accomplishments and improvements in the living conditions of the population. On the other, the narrative of the misery and backwardness which, for the communist and socialist opposition, were witness to the betrayal of autonomous status. These different representations of Sicily appeared in the literature, in journalism and also in a documentary output that had focused the spotlight on the issue of southern Italy and the Sicilian question in particular ever since the end of the Second World War. Actually, until the beginning of the 1950s, the story prevailed of a Sicily that did not change, was folkloristic, anchored in traditions and ancient economic activities. The island became almost a metaphor for the backwardness of the country. But from 1953 on wards, with the discovery of oil, with the flows of funds from the Cassa del Mezzogiorno and the Region, a new narrative of Sicily established itself. News reels and INCOM documentaries in particular showed images of dams, new roads, factories, refineries, neighbourhoods under construction and new consumption. They told a story of success that made the island almost the symbol of the new democratic course, the emblem of the successes of a political class in power, and the region the legitimation of autonomous status and its accomplishments. A celebratory and upbeat story that had nothing to do with the writing of Sciascia, the reportage of Carlo Levi, the accusations of Danilo Dolci, or the same images which, at the end of the decade and then in subsequent years, some documentary makers like Vittorio de Seta or Giuseppe Ferrara would offer. It was the latter representation that ended up prevailing, but it was the first that better recounted a short and unique season in which the story of Sicilian autonomy appeared to coincide with the hopes, expectations, the imagination of a society in rapid and contradictory transformation.
[1]AAVV, Bilancio e prospettive dell’economia siciliana, Edizioni di cultura e documentazione, Roma 1955, pp. 37-41.
[2] S. Lupo, Storia della mafia, Donzelli, Roma 2004, p. 226.
[3]Su questi temi v. R. Mangiameli, La regione in guerra, in La Sicilia. Storia d’Italia, dall’unità a oggi, a cura di M. Aymard, G. Giarrizzo, Einaudi, Torino, 1987, p. 516-533; F. Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri, Sellerio, Palermo 2003; G. C. Marino, Storia del separatismo siciliano 1943-1947, Editori Riuniti, Roma 1979.
[4] Sulla mitizzazione di questo movimento v. G. Tornatore, Baaria del 2009, e a una memorialistica locale che ha esaltato la funzione del movimento contadino come momento di rigenerazione della sinistra siciliana, collegandolo peraltro al movimento anti-mafia, v. F. Pezzino, Il lavoro e la lotta, Cuecm, Catania 1987; T. Vittorio, Una vita contro il malgoverno. Intervista con Franco Pezzino, Cuecm, Catania 1990; S. Torre, Era come un diavolo che camminava. Agitatori sindacali e dirigenti catanesi nel dopoguerra, Cuecm, Catania 2005; su un altro piano. E. Macaluso, I comunisti e la Sicilia, Editori Riuniti, Roma, 1970 e lavori storiografici come il classico F. Renda, Movimenti di massa e democrazia nella Sicilia del dopoguerra, De Donato, Bari, 1979 e T. Vittorio, Movimento Contadino e PCI in Sicilia (1943-47), in Togliatti e il Mezzogiorno, Atti del Convegno (Bari il 2-3-4 novembre 1975), Editori Riuniti, Roma 1977, vol. II, pp. 335- 351.
[5] Cfr. E. La Loggia, Ricostruire, Palumbo, Palermo 1943; un frammento significativo dell’autonomismo sturziano nel discorso di Luigi Sturzo al congresso del Partito Popolare di Venezia del 1921, L. Sturzo, La Regione, in Federalismo e autonomia in Italia dall’Unità a oggi, a cura di C. Petraccone, Laterza, Roma 1995, p. 189; su questo v. R. Mangiameli, La regione in guerra, cit., pp. 534-548.
[6] La quantificazione del fondo di solidarietà doveva basarsi sul minor ammontare di redditi da lavoro in Sicilia rispetto alla media nazionale. Un dato tutt’altro che facile da calcolare e che difatti fu oggetto di conflitti costanti tra Regione e governo nazionale.
[7] Sui partiti e le autonomie v. R. Romanelli, Storia dello stato italiano dall’unità a oggi, Donzelli, Roma 1993; per un’agile panoramica sui micro nazionalismi europei v. saggi di M. Caciagli e F. Tronconi in Autonomie. Micronazionalismi e regionalismi in Europa, a cura di R. Mangiameli, Edit, Firenze, 2011.
[8] Per esempio in relazione all’attribuzione del fondo di solidarietà o alla criticatissima abolizione dell’Alta Corte per la Regione Siciliana in seguito all’istituzione della Corte Costituzionale. Ma furono numerosi gli scontri col governo centrale che ricompattarono il blocco autonomista, nonostante le contrapposizione radicali da guerra fredda.
[9] Su questo v. P. Saraceno, Nuovo Meridionalismo, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 2005; più in generale v. S. Cassese (a cura di), Lezioni sul Meridionalismo. Nord e Sud nella storia d’Italia, Il Mulino, Bologna 2016.
[10] Su questo vedi i contributi di uno dei protagonisti di questo dibattito: D. La Cavera, Liberali e grande industria, Parenti Editore, Firenze 1966.
[11]Sui temi dell’apprendistato democratico vedi i lavori di M. Ridolfi, tra questi v.Storia politica dell’Italia Repubblicana, Bruno Mondadori, Milano, 2010.
[12] P. Sorlin, «La Settimana Incom» messaggera del futuro: verso la società dei consumi, in La settimana Incom, cinegiornali e informazione negli anni ’50, a cura di Augusto Sainati, Lindau, Torino 2001.
[13] Si vedano i vari: Dalla Sicilia Pesca del pesce-spada, La Settimana Incom del 29 agosto 1946;Dalla Sicilia La festa di S. Lucia, La Settimana Incom del 23 dicembre 1946;Dalla Sicilia visita alle miniere di zolfo, La Settimana Incom del 2 gennaio 1947;Sicilia d’oggi il premio Taormina, La Settimana Incom del 31 dicembre 1947;Nel mondo delle ferrovie le “navi traghetto, La Settimana Incom del 19 dicembre 1947;Automobilismo: il IX Giro di Sicilia, La Settimana Incom del 25 marzo 1949; Musica contemporanea 23° festival in Sicilia, La Settimana Incom del 13 maggio 1949; Sicilia: la pesca del tonno a Trapani, La Settimana Incom del 21 luglio 1949; Artigianato italiano: carretto siciliano, La Settimana Incom del 21 settembre 1949; Artigianato in Sicilia: fabbrica di laterizi, La Settimana Incom del 18 gennaio 1950;Aeronautica il 2° giro aereo di Sicilia, La Settimana Incom del 24 maggio 1950; tutti visibili in Archivio Storico dell’Istituto Luce.
[14]Natura indomita l’Etna in eruzione, La Settimana Incom del 6 marzo 1947.
[15]La tragedia dell’Etna, La Settimana Incom del 18 gennaio 1951.
[16]Lampi sulla Sicilia: lotta al banditismo, La Settimana Incom del 31 luglio 1947.
[17]Sicilia: l’eccidio di Bellocampo, La Settimana Incom dell’1 settembre 1949.
[18]Inchiesta per le solfare di Sicilia, La Settimana Incom del 15 dicembre 1952.
[19] G. A. Vitrotti, Trieste a Lampedusa, 1952.
[20]R. Mangiameli, La Regione in guerra, cit., p. 582; cfr. C. Riolo, Politica di industrializzazione e gruppi di pressione negli anni cinquanta, in Modelli di sviluppo economico in Sicilia, a cura di A. Tulumello, Epos, 1995, pp. 69-87.
[21] Legge nazionale n. 1091 del 2 agosto 1952 che stanziava i primi 55 miliardi a titolo di solidarietà nazionale per gli anni 1947-1952.
[22] La scoperta è frutto dell’iniziativa della Gulfoil Company e avviene il 27 ottobre 1953 in località Pendente. «Avremo lo stesso avvenire dei petroli della Persia o del Marocco», in Il Corriere di Sicilia, 11 marzo 1952; «Come il Texas la nostra terra ricca del nascosto tesoro petrolifero», in Il Corriere di Sicilia, 23 aprile 1953.
[23] In particolare un quotidiano come Il Corriere di Sicilia.
[24] U. Magnaghi, Oggi in Sicilia, 1953.
[25]Ricerche petrolifere in Sicilia, La Settimana Incom del 29 maggio 1953; Progetto un ponte tra la Sicilia e il continente, La Settimana Incom del 28 agosto 1953.
[26]Celebrata l’autonomia siciliana, La Settimana Incom del 19 maggio 1954.
[27]M. Rota, Sicilia uno e due, 1955; D. D’Anza, Petrolio a sud, 1955; sui documentari in questi anni v. G. D’Oriano, La Settimana Incom e l’informazione scritta: Sicilia 1955. Viaggio retorica, utopia, La Settimana Incom, cit., pp. 109-121.
[28]G, Baldaccini, La Sicilia è in cammino, La Settimana Incom del 06 aprile 1955.
[29]«Finanza regionale», L’Ora del 30 marzo 1955. La questione andrebbe approfondita.Effettivamente nel bilancio preventiva della Regione vi è erano ben 4 capitoli (88, 89, 429 e 439) della Rubrica della Presidenza della Regione,per l’ammontare di 105 milioni, dedicati alla propaganda dell’autonomia e all’organizzazione di convegni e mostre, oltre ai 500 milioni stanziati per spese elettorali, che lasciano supporre la fondatezza della denuncia del giornale palermitano,in AAVV, Per una Storia documentale del governo e dell’Assemblea regionale siciliana nelle prime due legislature (1947-1955), DAPPSI, Catania 2009, vol. II, p. 661.
[30]L’Inchiesta cinegiornalistica sull’industrializzazione della Sicilia, La Settimana Incom del 22 aprile 1955;In Sicilia visto e sentito, La Settimana Incom del 18 maggio 1955; Incremento dell’industria in Sicilia,La Settimana Incom del 22 ottobre 1955; P. Benedetti, Sicilia T.E, 1956; Progresso siciliano, La Settimana Incom del 22 gennaio 1957; R. Sileoni, Sicilia ’58, 1958; Evoluzione della Sicilia. Panorama del cammino percorso, 1958;Sicilia 1959,1959; L’autonomia e la Sicilia, 1959;Il Petrolio, 1959; L’industria,1959; Villaggi e fabbriche,La Settimana Incom del 29 marzo 1963; Lo sviluppo industriale siciliano, s.d.
[31] E. Cancellieri, In Sicilia visto e sentito, La Settimana Incom del 18 maggio 1955.
[32] Sul milazzismo v. G. Baget Bozzo, Il Partito Cristiano e l’apertura a sinistra: La DC di Fanfani e di Moro 1954-1962, Vallecchi, Firenze, 1977; cfr. P. Hamel, Dalla crisi del centrismo all’esperienza milazzista (1956-1959), Vittorietti, Palermo,1978;cfr. G. Giarrizzo, Sicilia oggi (1959-1986), in La Sicilia. Storia d’Italia, dall’Unità a oggi, cit., p. 627.
[33] U. Magnaghi, Direzione sud, sd.
[34] V. De Seta, Gela 1959: pozzi a mare, 1959. Altri documentari su Gela, v. F. Cerchio, A Gela qualcosa di nuovo, 1960; R. Sileoni, Terra di Gela,1959; G. Ferrara, Gela antica e nuova, 1964. Su questo v. E. Frescani, Cultura e oro nero. Strategie comunicative e intellettuali nell’Agip e nell’Eni di Enrico Mattei, «Storia e Futuro» n.38, giugno 2015; E. Frescani, Il cane a sei zampe sullo schermo. La produzione cinematografica dell’Eni di Enrico Mattei, Liguori editore, Napoli 2014.
[35] Sui documentari di Vittorio De Seta v. S. Gesù, La Sicilia della Memoria. Cento anni di cinema documentario nell’isola, Maimone Editore, Catania 1999, pp.47-50.
[36] G. Ferrara, Gela antica e nuova, 1964.
[37] P. e V. Taviani, Sicilia all’addritta, 1959; a questo si contrappone quello della Spes, Perché la rinascita continui, 1959.
[38] S. Gesù, La Sicilia della Memoria, cit., p 48-49.
[39] Ivi, pp. 51-57.