Il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma ha coinciso con una forte crisi politica dell’Unione europea, il debole tentativo di rilancio della “Dichiarazione di Roma” del 25 marzo 2017 e una rinnovata vitalità della storiografia italiana sul processo di integrazione.Le celebrazioni ufficiali, le manifestazioni dei movimenti federalisti favorevoli a una maggiore coesione politica dell’Unione, le contestazioni delle organizzazioni sindacali in nome dell’Europa sociale, le prese di posizione dei partiti “sovranisti” contro la moneta unica e la “tecnocrazia” di Bruxelles hanno fatto esplodere in maniera eclatante la distanza tra le istituzioni europee, la società civile e il senso comune dei cittadini degli Stati membri.
In tale contesto politico e culturale, è sembrato utile riattraversare le fasi salienti dell’integrazione europea attraverso la chiave interpretativa delle crisi e dei rilanci che hanno scandito la costruzione della CEE e dell’Unione europea dalla guerra fredda al crollo del muro di Berlino del 1989, dalla riunificazione della Germania del 1990 alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e del blocco comunista dell’Europa orientale nel 1991, fino alla fase aperta dal Trattato di Maastricht del 1992 e ai suoi successivi sviluppi. L’avvento della moneta unica nel 2000, gli avvenimenti internazionali dell’11 settembre 2001 e l’intervento americano in Iraq nel 2003, l’allargamento ai paesi dell’Europa orientale del 2004, la bocciatura del progetto di Costituzione europea nei referendum francesi e olandese del 2005, l’inadeguatezza del Trattato di Lisbona del 2007, l’impatto della crisi finanziaria del 2008, la divisione dell’UE sui migranti rappresentano del resto temi ormai al centro della riflessione storiografica, degli studi politologici e del dibattito pubblico sull’integrazione europea.
Prendendo le mosse dagli importanti risultati del seminario di studi promosso il 9-11 giugno 2016 dal campus forlivese dell’Università di Bologna su “L’Europa e il suo processo di integrazione: il punto di vista della storiografia italiana”, è parso quindi utile chiamare studiosi di diverse sensibilità e generazioni a confrontarsi sul tema “L’integrazione europea tra crisi e rilanci (1947-2017)”, in occasione del numero monografico della rivista dedicato al sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma.
Nell’articolo di apertura del monografico, Giuliana Laschi rimarca il tornante segnato nella storiografia italiana dal seminario del 2016, in virtù del superamento delle scuole tradizionali di appartenenza, del dialogo tra storici dell’età contemporanea, delle relazioni internazionali e dell’integrazione europea, del confronto metodologico con le scienze politiche tra ricerca e didattica universitaria.Pur tenendo obbligatoriamente in conto il contesto internazionale, si tratta di “ripartire dall’Europa per spiegare l’Europa”, facendo attenzione all’interazione continua tra la dimensione sovranazionale, nazionale e regionale che caratterizza le dinamiche più profonde dell’integrazione europea, alla molteplicità degli attori statali, politici, economici, sindacali e culturali, all’evoluzione delle politiche agricole, sociali, regionali e ambientali, alle relazioni esterne e alla cooperazione internazionale, alla governance della moneta unica e alla politica estera e di sicurezza, sulla base del supporto fornito dagli Archivi storici dell’Unione Europea.
È una indicazione perseguita da Stefano Filippi a proposito del percorso di ratifica del Trattato CED attraverso gli archivi francesi e statunitensi, con alcuni documenti originali che aiutano a comprendere meglio la complessità di un passaggio nevralgico della storia dell’integrazione europea in uno dei momenti più caldi della Guerra fredda. L’incrociarsi degli sguardi reciproci tra Stati Uniti, Francia, Germania, Italia e Benelux sul nesso inscindibile tra la prospettiva della CED e quella della CPE prevista dall’articolo 38 del trattato istitutivo valorizza l’iniziativa di De Gasperi, rimarca le divergenze tra la situazione interna dei Sei ed invita a considerare in una prospettiva di lungo periodo il significato politico di ogni atto della CEE e dell’UE nel campo delicato della difesa e della sicurezza internazionale.
Partendo dalla battuta d’arresto della CED nell’agosto 1954, Sante Cruciani ricostruisce il rilancio di Messina del giugno 1955 e la firma dei Trattati di Roma del 25 marzo 1957, provando a mettere in luce percorsi di ricerca e chiavi interpretative innovative oltre il ristretto biennio che conduce alla nascita della Comunità Economica Europea e dell’Euratom.Le fonti pubblicate recentemente dal Ministero degli affari esteri su “Il “rilancio dell’Europa dalla Conferenza di Messina ai Trattati di Roma 1955-1957”[1] consentono infatti di verificare le “interazioni, scambi e prestiti” tra l’Italia e la Francia sullo sviluppo del Mezzogiorno e l’associazione dei paesi d’oltremare, la circolarità di elaborazioni tra le culture politiche, le istituzioni europee e gli stati nazionali nella costruzione del modello sociale europeo, la proiezione esterna della CEE di fronte alla decolonizzazione e ai rapporti transatlantici degli anni sessanta.Emerge l’esigenza di riscoprire il carattere programmatico dei Trattati di Roma, considerare l’esperienza della CEE in maniera organica, valorizzando il circuito politico transnazionale attivato dalle istituzioni europee ed intrecciando percorsi di ricerca plurali e interdisciplinari, rimasti talvolta separati nella storiografia sull’integrazione europea.
Riprendendo la storia dell’integrazione europea dopo lo stallo politico del periodo gollista, Maria Eleonora Guasconi indaga in modo approfondito la dialettica tra crisi e rilanci in occasione del vertice dell’Aja dell’1-2 dicembre 1969.In virtù delle fonti degli Archivi storici dell’Unione Europea, la strategia del presidente Pompidou, del cancelliere Brandt e del ministro degli Esteri italiano Aldo Moro per l’allargamento, approfondimento e completamento della CEE risalta come un passo imprescindibile in vista dell’ingresso di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca, dell’articolazione delle politiche europee nel campo economico e monetario, sociale e ambientale, dei giovani e dell’istruzione e di un maggiore protagonismo della CEE sulla scena internazionale.
Nonostante l’impatto distruttivo della svalutazione unilaterale del dollaro del 1971, l’eredità del Piano Werner dell’ottobre 1970 costituirà un patrimonio non trascurabile per i tentativi successivi di raggiungere il traguardo dell’unificazione economica e monetaria. La sensibilità per i temi sociali e ambientali, dei giovani e dell’istruzione sarà alla base del discorso pubblico sull’identità europea sviluppato dalla Commissione Delors nel corso degli anni ottanta. Un risultato significativo della Conferenza dell’Aja, talora sottovalutato dalla storiografia, è relativo alla consapevolezza della CEE di dover giocare un ruolo internazionale sganciato dagli Stati Uniti e all’altezza delle sfide dei rapporti est-ovest e tra il nord e il sud del mondo.Malgrado la divisione dei Nove alla Conferenza di Washington del 1973 sulle questioni petrolifere, la coesione della CEE durante la Conferenza di Helsinki e il ruolo esercitato nell’inserimento dei diritti umani nel “terzo cesto” dell’Atto finale dell’1 agosto 1975 confermano la priorità di mettere a fuoco l’azione della CEE come soggetto unitario sulla scena internazionale degli anni settanta.
Muovendosi tra le culture politiche e le istituzioni europee, Maria Paola Del Rossi analizza il contributo del laburista Roy Jenkins all’ingresso della Gran Bretagna nella CEE e le linee fondamentali del suo mandato come presidente della Commissione dal 1976 al 1979. Risalta la personalità di frontiera dell’esponente più europeista della storia politica inglese, basti pensare al voto decisivo della sua pattuglia di deputati in contrasto con la disciplina di partito nell’ottobre 1971, al ruolo di autentico leader del fronte pro-Europe nel referendum del 1975, alla visione dell’Europa espressa alla guida della Commissione a sostegno dello SME, dell’elezione diretta del Parlamento europeo, del secondo allargamento della CEE a vantaggio di Grecia, Spagna e Portogallo. Nella strategia di Jenkins, la nascita dello SME non è un obiettivo contingente per affrontare la svalutazione delle monete europee, ma la leva principale di un disegno eminentemente politico teso a tagliare il traguardo dell’Unione economica a monetaria, affrontare a livello sovranazionale la ristrutturazione capitalista degli anni settanta, dare sostanza democratica alla fine delle dittature dell’Europa mediterranea, garantire l’ancoraggio politico di Grecia, Spagna e Portogallo alla CEE e al suo sistema di alleanze internazionali.
Il rapporto tra culture politiche e istituzioni europee è al centro del contributo di Daniela Preda sull’azione di Altiero Spinelli al Parlamento europeo e la nascita del Club del Coccodrillo. Sulla scia della “Nota informativa” redatta per la rivista “PiemontEuropa” dal 1979 al 1984 dal giovane militante federalista Sergio Pistone e della serie “Crocodile: lettre aux membres du Parlement européeen” pubblicata tra il 1980 e il 1983 dallo stesso Spinelli con l’aiuto di Felice Ippolito e Pier Virgilio Dastoli, la storia del Club del Coccodrillo è ricostruita dall’interno ed offre spunti di riflessione significativi sulla posizione dei gruppi parlamentari europei e dei partiti nazionali sulla genesi del“Progetto Spinelli” del 1984 e sull’esito finale dell’Atto Unico del 1986.
Colpiscono la rete intellettuale e politica che sostiene la strategia di Spinelli per la riforma dei Trattati, la sintonia stabilitasi con la presidente del Parlamento europeo Simone Weil, l’indifferenza iniziale dei socialisti francesi e tedeschi per la tematica istituzionale, la funzione di avanguardia di alcuni eurodeputati della sinistra italiana come Leonardi, Ruffolo, Ripa Di Meana, Bonaccini, Didò, il fastidio del presidente della Commissione Affari politici Mariano Rumor per una iniziativa che toglieva dalle mani degli Stati nazionali prerogative di primo piano per il proseguimento dell’integrazione europea.Tra le pieghe delle reazioni iniziali alla nascita del Club del Coccodrillo è così individuata la tendenza di fondo che caratterizzerà la risposta degli stati nazionali al “Progetto Spinelli”, vale a dire la disponibilità ad accogliere domande oggettive di riforma e di riaffermare al tempo stesso la centralità della dimensione intergovernativa nel processo di integrazione europea.
Se la storia del processo di integrazione trova un momento alto nella prima parte della parabola della Commissione di Jacques Delors, la fine della guerra fredda e il Trattato di Maastricht del 1992 aprono una fase del tutto inedita ed imprimono una accelerazione senza precedenti alle dinamiche dell’Unione europea, dando fiato alle speranze dei movimenti europeisti e ai sostenitori della costituzionalizzazione dell’Unione europea, nonché ai contestatori dell’integrazione come progetto subalterno alla deriva neoliberista della globalizzazione.
A partire dagli anni Novanta del Novecento, guardando la cronologia, la sensazione è che i successi ‒ che in alcuni casi potrebbero essere definiti piuttosto come sfide ‒ siano stati molto più numerosi delle crisi. Per enumerare i “rilanci”, messi in moto da un evento eccezionale e simbolico come la caduta del Muro di Berlino, possiamo ricordare i principali, ossia la firma del Trattato di Maastricht con la trasformazione della Comunità in Unione e l’avvio definitivo del cammino dell’Unione economico-monetaria, oltre che la “comunitarizzazione” della politica estera e di sicurezza, la firma della Carta dei diritti fondamentali a Nizza nel 2000, la Dichiarazione di Laeken e l’avvio dei lavori della Convenzione per l’avvenire dell’Europa, che avrebbe condotto alla firma del Trattato per la Costituzione europea, l’adozione della moneta unica da parte di un consistente numero di paesi, un progressivo allargamento che dai 15 paesi membri del 1992 avrebbe portato l’Unione europea fino a 28 membri, il Trattato di Lisbona, il Premio Nobel per la pace ricevuto nel 2012 come riconoscimento della funzione di stabilizzazione svolta nel trasformare l’Europa da continente di guerra incontinente di pace, il crescente numero di adesioni all’euro, fino ad arrivare a 19 paesi.
Ad alcuni di questi snodi decisivi per la costruzione della UE, non ancora sufficientemente indagati, sono dedicati,fra gli articoli di questo numero, quelli di Riccardo Brizzi e Michele Marchi, che ricostruiscono il complesso percorso compiuto dall’Italia verso la moneta unica tra il 1995 e il 1998 focalizzandosi sull’impegno di Romano Prodi sia durante la campagna elettorale dell’Ulivo sia una volta divenuto presidente del Consiglio, e di Lara Piccardo sull’allargamento del 2004-2007, per il quale l’Unione europea si è mostrata maggiormente esigente rispetto agli allargamenti precedenti, chiedendo che gli Stati dimostrassero anche la volontà di cooperare nel processo di stabilizzazione regionale.
Molto meno numerosi sono stati, apparentemente, i momenti di crisi, che si possono identificare nella mancata ratifica del Trattato costituzionale, causa di un vero e proprio periodo di sbandamento, nella diminuzione costante della percentuale di cittadini al voto nelle elezioni europee ‒ anche in paesi come l’Italia caratterizzati in genere da una buona affluenza alle urne europee ‒, le difficoltà incontrate nelle ratifiche dei Trattati per i risultati negativi dei referendum in alcuni paesi, infine, da ultimo, la Brexit con tutto il suo carico di incertezze per il futuro.
A ben guardare, i rilanci sono dovuti a decisioni prese nei palazzi di Bruxelles, mentre tutti i momenti di inciampo o di ritardo derivano da risultati referendari, ossia dalle occasioni offerte ai cittadini per esprimersi direttamente; si potrebbe dire che ciò ha riguardato solo alcuni paesi, ma in realtà soprattutto dall’inizio del nuovo millennio le istituzioni europee e i loro responsabili hanno dovuto cominciare a confrontarsi con l’euroscetticismo e con la crescita di consensi dei cosiddetti partiti “sovranisti”, su cui oggi molto si riflette da parte degli studiosi[2], meno – a quanto sembra ‒ da parte delle istituzioni stesse o dei responsabili politici degli stati membri. Dunque, oltre agli Stati, ai partiti politici e ai movimenti federalisti, nella crisi della democrazia rappresentativa sia a livello nazionale che europeo[3] un quarto protagonista si è affacciato sulla scena, i cittadini europei, dotati di uno strumento incisivo e diretto, il referendum, uno strumento che, come sottolinea Maurizio Cotta, non consente mediazioni e assume connotati di principio[4]. Nonostante i momenti di crisi che questa nuova presenza ha determinato, non è detto comunque che si tratti di un fatto negativo; ha scritto a questo proposito Lorenzo Viviani che questa democratizzazione potrebbe risultare strumentale a una maggiore legittimazione della UE: “La politicizzazione dell’euroscetticismo può divenire uno strumento di integrazione nella polity comunitaria, inserendo nel dibattito europeo, seppur inizialmente in termini di opposizione, soggetti che altrimenti sarebbero rimasti completamente esterni ed estranei, e recuperando ai partiti politici stessi quella funzione di istituzionalizzazione del conflitto già sperimentata per le altre giunture critiche classiche”[5].
Al momento, gli ultimi eventi generano la sensazione di una profonda divaricazione tra le élites comunitarie e le aspettative dei cittadini, che evidentemente non riescono a immedesimarsi né a provare passione per la costruzione europea. In questo quadro, l’articolo di Daniele Pasquinucci mette in dubbio anche la qualità dell’europeismo dei politici italiani – quello che l’autore definisce “europeismo inerziale” –che,al momento della firma del Trattato di Maastricht e dell’impegno del Paese per l’ingresso nell’euro,sarebbero stati poco consapevoli dell’impegno necessario e superficiali nelle fasi decisive del processo decisionale; tutto questo, secondo l’autore,contribuisce a spiegare tanto la fase ascendente che quella discendente del rapporto tra l’Italia e l’Unione nella attuale fase della “europeizzazione”.
Nel progressivo avanzamento dell’euroscetticismo di cui si è detto si colloca, secondo Sandro Guerrieri,la scelta da parte dei governanti europei di cambiare rotta rispetto alla“costituzionalizzazione di tipo implicito” con cui si era proceduto fin dai Trattati di Roma, identificato nella complessa operazione di approvazione di un trattato costituzionale, di alto valore simbolico, “volta a fornire una sostanza politico-identitaria a un percorso di europeizzazione percepito come troppo tecnocratico”; Guerrieri analizza le origini della Convenzione europea, le caratteristiche del progetto costituzionale adottato e le cause della bocciatura nei referendum francese e olandese, ma anche il recupero di molte delle decisioni nel Trattato di Lisbona, che segna anche il ritorno della “costituzionalizzazione” alla sua dimensione graduale e non formalizzata.
Si pone ancora più nel solco costituzionale sognato dai federalisti come Altiero Spinelli il Progetto Penelope, proposto da Romano Prodi alla Convenzione, cui è dedicato l’articolo di Giovanna Tosatti, un progetto molto discusso per le modalità e i tempi della sua presentazione,che proponeva soluzioni per l’unificazione dell’insieme dei trattati in vigore, l’abbandono dei “pilastri” di Maastricht e l’integrazione della Carta dei diritti fondamentali, la semplificazione dei trattati, la distinzione tra disposizioni fondamentali e applicative, la risposta alle conseguenze di un’eventuale mancata ratifica da parte di uno o più Stati membri; tuttavia, la mancata ratifica del Trattato nei referendum tenuti in due dei paesi fondatori, Francia e Olanda, già ricordata, può essere considerata come una delle sconfitte più brucianti sulla via dell’integrazione europea, come il segnale che occorreva tornare a “decostituzionalizzare” la riforma dei trattati, rinunciando a risolvere, fra l’altro, il problema della governance economica, che si sarebbe gravemente riproposto con la crisi del 2008.
Oggi, mentre le istituzioni europee procedono comunque sulla via tracciata dell’allargamento (verso i paesi balcanici) e dell’approfondimento, le nuove realtà degli attacchi terroristici, della crescita impetuosa del fenomeno migratorio, della crisi dell’occupazione, solo per citare i fattori destabilizzanti più gravi al centro dell’articolo di Doriana Floris, e da ultimo la Brexit ripropongono per l’ennesima volta l’esigenza di avanzare sulla strada della unione politica,capace di sostenere anche la politica estera, quella economico-finanziaria e di difesa dell’Unione, che finora sembra però essere tale solo nel nome e sembra riflettere una concezione dell’Europa meno impegnativa di quanto fosse quella della Comunità europea.
Riprendendo in chiusura il filo del dibattito storiografico, il monografico ospita un dialogo con Antonio Varsori su Il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma e la storiografia sull’integrazione europea, nel quale il presidente del gruppo degli storici europei presso la Commissione conferma l’impressione di una certa vivacità della storiografia italiana, di un confronto serrato con le scienze politiche e la storiografia internazionale, nonché l’urgenza di un cambio di passo dell’Unione europea, se si vuole davvero riconquistare la fiducia della società civile e restituire al progetto europeo il significato di uno spazio politico di prosperità e di pace, perseguito dai padri fondatori nel contesto difficile della guerra fredda.
In tale quadro di riferimento, il monografico offre un approfondimento ulteriore su “L’immagine dell’Europa”, con l’obiettivo di prefigurare possibili percorsi di ricerca volti a connettere la storia dell’integrazione europea con il discorso pubblico sull’Europa, con attenzione ai linguaggi del cinema, delle mostre archivistiche e iconografiche, ai circuiti della carta stampata e del web, alle contraddizioni della comunicazione istituzionale dell’Unione, alle rappresentazioni della satira di una Europa in evidente difficoltà.In questo ambitosi inserisce il contributo di Agnese Bertolotti sul cinema e l’identità europea, con una comparazione tra le esperienze di Euroimages, il programma Media e il portale Cineuropa, dedicato al mondo degli audiovisivi e costantemente aggiornato in lingua inglese, francese, italiano e spagnolo.
Sottolineando il valore politico delle iniziative pubbliche messe in campo dalle istituzioni comunitarie fin dal decimo anniversario dei Trattati di Roma ben attestato dai dossier contenuti presso gli Archivi storici dell’Unione Europea, Silvia Sassano e Benedetto Zaccaria illustrano la realizzazione della mostra documentaria del sessantesimo anniversario “EvenCloser Union”, promossa dall’Istituto Universitario Europeo e fatta propria dalle istituzioni italiane e dell’Unione europea; spicca un modo accattivante di portare la storia dell’integrazione oltre gli specialisti e gli addetti ai lavori, di accostare documenti d’archivio e fonti iconografiche in un percorso divulgativo di qualità, con un successo testimoniato dalla traduzione in 29 lingue e dall’esposizione in più di 120 città e in 36 paesi del mondo, con iniziative collaterali sulla storia e il futuro dell’Europa.
L’articolo di Maria Chiara Bernardini offre un resoconto delle celebrazioni del sessantesimo anniversario attraverso un monitoraggio attento dei siti web delle più importanti testate italiane,“la Repubblica”, “Corriere della Sera” e il “Il Sole 24 ore”, attribuendo il giusto risalto ai momenti più significativi, come il discorso del presidente Mattarella nella seduta solenne del Parlamento del 22 marzo 2017, l’incontro dei leader europei con papa Francesco del 24 marzo 2017, le manifestazioni di piazza che hanno accompagnato la giornata delle iniziative ufficiali in Campidoglio e per la Dichiarazione di Roma del 25 marzo 1957.
La comunicazione istituzionale dell’Unione Europea è analizzata da Chiara Moroni attraverso la lente del deficit democratico e delle strategie di ascolto dell’opinione pubblica, in un arco cronologico compreso tra il Trattato di Maastrichte il “Libro bianco sul futuro dell’Europa” presentato dalla Commissione l’1 marzo 2017.Nonostante la consapevolezza dell’urgenza di colmare le distanze con la società civile e le opinioni pubbliche nazionali e i programmi di intervento di questi venticinque anni riguardanti circuiti mediatici, siti internet e social network, appare ancora persistente un grave cortocircuito tra la comunicazione politica perseguita da Bruxelles e l’opinione pubblica degli Stati membri. Come avverte da tempo Eurobarometro, le più abili strategie di comunicazione e il ricorso alla rete internet non possono nascondere l’attuale debolezza culturale e politica dell’Unione, in un contesto internazionale che richiederebbe una Europa finalmente attiva e coesa sui grandi temi del progetto europeo nell’età della globalizzazione.
Lo stesso cortocircuito è denunciato dalla mostra di caricature messe in scena al Memorial Museum di Mons dal 21 al 26 giugno 2016 dal titolo suggestivo “Ceci n’est pas l’Europe”, con l’apporto di matite prestigiose come il francese Jean Plantu e il belga Nicolas Vadot. Restituendo a pieno lo spirito della mostra, il contributo di Doriana Floris presenta in appendice una selezione ragionata delle caricature più significative.
Come uscire dal pessimismo e dall’evidente divisione e ripiegamento su se stessa dell’Unione? La crisi attuale, che appare più grave e profonda delle precedenti, in quanto sembra mettere in dubbio i principi stessi su cui si è fondato il cammino della Comunità/Unione europea, potrebbe anche preludere a un nuovo rilancio, e indurre, utilizzando ancora la chiave interpretativa di Viviani, “uno sviluppo non retorico […] della idea di Europa, prima ancora che di costruzione della UE”[6]. In sostanza il termine “crisi”, che abbiamo assunto come una delle due parole chiave di questo numero monografico, verrebbe interpretato non tanto come rottura, ma piuttosto con il significato di conflitto e risoluzione, come strumento di democratizzazione, purché, ovviamente, gli Stati e i partiti ne tengano conto e l’Europa trovi una generazione di leader all’altezza della posta in gioco, sia sul piano europeo che su quello intimamente correlato del governo multilaterale della globalizzazione e del sistema internazionale.
[1] Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAE), Documenti sulla politica internazionale dell’Italia – Serie A – Europa Occidentale e Unione Europea, Il “rilancio dell’Europa” dalla Conferenza di Messina ai Trattati di Roma 1955-1957 a cura di A. Varsori, F.L. D’Ovidio, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2017.
[2] Si veda su questo il recente Contro l’Europa? I diversi scetticismi verso l’integrazione europea, a cura di D. Pasquinucci e L. Verzichelli, Il Mulino, Bologna 2016, e in particolare il saggio di A. Varsori, L’euroscetticismo in prospettiva storica.
[3] Cfr. A. Martinelli, La crisi nella democrazia rappresentativa, in L’età dell’incertezza. Scenari globali e l’Italia. Rapporto ISPI 2017, a cura di A. Colombo e P. Magri, Ed. Epoké – ISPI, Novi Ligure – Milano, 2017, pp. 51-64.
[4] M. Cotta, Un concetto ancora adeguato? L’euroscetticismo dopo le elezioni europee del 2014, ivi; Cotta propone di sostituire il termine “euroscetticismo” con quello di “opposizione”, molto più neutrale sul piano valoriale e quindi “suscettibile di un utilizzo empirico meno problematico”, che evita di “relegare i fenomeni politici europei in una sorta di recinto autoreferenziale” riportandoli in una prospettiva più generale.
[5]L. Viviani, Euroscetticismo: la nascita di un nuovo cleavage?,in “SocietàMutamentoPolitica”, 2010, n. 1, p. 168.
[6]L. Viviani, Euroscetticismo: la nascita di un nuovo cleavage?,cit., p. 167.