Lo storico che si avvicini per la prima volta a compiere un’indagine nei confronti di un complesso sistema culturale come le festività religiose e tradizionali, si troverà innanzitutto a dover dipanare la questione delle fonti, la cui frammentarietà ha in effetti molto a che fare con il problema della definizione dell’“oggetto folklorico” in quanto tale, prima ancora che nelle sue forme storiche e culturali. L’approccio qui suggerito mette insieme alcuni elementi di multidisciplinarietà al fine di restituire la complessa stratificazione di un oggetto folklorico e di quella che è usualmente definita “tradizione” o ancora più in generale “usi e costumi tradizionali”; si porterà avanti un’analisi storico culturale di un caso di studio, applicando via via gli strumenti metodologici affinati da quella branca di studio nota come “demologia” o “storia delle tradizioni popolari”[1] di cui l’analisi visuale è parte integrante e costitutiva[2]. Alcuni aspetti della storia della scuola demologica italiana saranno essi stessi oggetto di interesse per ricostruire il contesto culturale pertinente al tema al centro della nostra analisi.
Da un punto di vista antropologico l’immagine fotografica ha rivestito da sempre un ruolo fondamentale, al fine di testimoniare l’autenticità e l’autorevolezza della ricerca scientifica, basata sulla presenza dell’osservatore sul campo (fieldwork): ogni etnologia o etnografia è sempre collegata a un’appendice visuale e iconografica, per la maggior parte fotografica. Anche la spedizione di Ernesto De Martino in Lucania fece ampio uso della macchina fotografica e del filmato, costruendo un apparato visuale che sarebbe in seguito divenuto un simbolo per gli studi folklorici italiani. Tuttavia, una fotografia antropologica è scattata dallo stesso “osservatore” che conduce la ricerca e dunque fa parte dei dati del campo di ricerca stesso: assieme al celebre “diario di campo”, alle interviste, ai video, le fotografie sono la struttura dell’autorevolezza scientifica e svolgono quindi una funzione non solo documentaria; la fotografia storica, invece, non sempre presenta traccia dell’autore della fotografia, rendendo difficile ricostruire quale fosse il punto di vista del fotografo, modalità e occasione dello scatto e collocazione temporale precisa.
Utilizzare materiale fotografico per un’analisi storico-culturale è dunque un processo complesso che deve essere costruito di volta in volta, a seconda del materiale presente. Una prima possibilità di analisi, ad esempio, consiste nell’utilizzare la fotografia come fonte documentaria tout court alla pari delle altre fonti iconografiche, spesso comparandole fra loro: questo genere di approccio (che in questa sede sarà applicato per delineare continuità e discontinuità nelle rappresentazioni della Befana) permette di elaborare diacronicamente diverse rappresentazioni di uno stesso oggetto o di uno stesso luogo e di intuire il processo di trasformazione che tale oggetto ha subito nel tempo. D’altro canto, analizzare una fotografia da un punto di vista “etnografico” o “antropologico” comporta oltrepassare il valore denotativo dell’immagine per addentrarsi nei più impervi sentieri della retorica dell’immagine, le rappresentazioni culturali e discorsive ad essa soggiacenti, l’uso a cui una simile immagine era destinata, gli elementi del potere, dell’immaginario collettivo, del momento storico. Combinare entrambe le prospettive può, in determinate circostanze, svelare alcuni aspetti che né l’una né l’altra prospettiva da sole possono affrontare: il caso di studio qui presentato si presta infatti a una felice interdisciplinarietà dei piani di lettura: documentario, retorico, culturale, demologico, storico. L’analisi multipla qui presentata costituisce un possibile approccio sperimentale allo studio del fatto folklorico italiano nel passaggio fra Otto e Novecento, attraverso un’analisi del discorso[3] che il potere politico ha costruito attorno ad esso.
In questa prospettiva l’analisi comparata delle immagini fotografiche conservate all’Istituto Luce e delle incisioni più antiche significa permettere una lettura del fenomeno non certo “sul campo”, ma “al di qua” della linea dell’osservazione, oltrepassando ciò che rappresenta e proiettandosi verso il come lo si rappresenta. Il caso di studio qui presentato, inoltre, offre un punto di vista particolare sulla storia degli studi e allo stesso tempo permette di contestualizzare in modo comparativo l’evoluzione nel tempo di una pratica sociale come quella del complesso festivo natalizio a Roma e ancora più specificatamente della festa dell’Epifania, e del processo di strumentalizzazione e ridefinizione che essa subì da parte del Regime Fascista.
La scelta di porre al centro dell’analisi materiale iconografico, prima ancora che di tipo testuale, si è rivelata un utile metodo di indagine per approcciare al problema delle rappresentazioni della festa nell’immaginario mediatico italiano, di come essa sia stata ridisegnata e delle motivazioni che hanno portato alla nascita di quel fenomeno politico-sociale noto ai più come “Befana Fascista” o “Befana del Duce”. In particolare, avvalendosi delle risorse archivistiche digitali, la ricerca è stata intenzionalmente condotta attraverso altre forme di media come il Web e le risorse digitali. Il risultato è un’analisi di un fenomeno culturale e, più specificatamente, di come il sistema dei media contribuisca al processo di produzione culturale in tutta la sua complessità; come ulteriore livello di analisi soggiace l’uso dell’archivio digitale come mezzo esso stesso di diffusione e perpetuazione di rappresentazioni culturali. A questo proposito ho analizzato alcune immagini conservate presso diversi fondi dell’Istituto Luce[4]: inserendo i termini “befana”, “epifania”, “Piazza Navona” ed incrociando i risultati ottenuti, è possibile isolare alcune immagini che presentano interessanti continuità con altre e più antiche rappresentazioni della stessa festa, nello stesso luogo.
Procedendo con ordine, in primo luogo occorre qui ricordare che con il termine “Befana” si intende la rappresentazione tradizionale di una vecchia vestita di stracci che la notte fra il 5 e il 6 gennaio, si reca di casa in casa a consegnare ai bambini dolciumi o carbone, a seconda della loro condotta. Questa interpretazione della leggenda è tipica della tradizione di Roma e della Provincia, mentre nel resto d’Italia e d’Europa proliferano diverse versioni di questo stesso personaggio al quale è tuttavia connesso un comune panorama mitico-rituale. Al di là delle declinazioni locali, la Befana ha sempre le fattezze della “vecchia”, figura che nelle tradizioni popolari è connessa all’immagine dell’anno vecchio che se ne va, dell’inverno che finisce, dei riti di passaggio, della morte e della rinascita ed è collegata a ben più antichi riti rurali e legati alla fertilità. Questo particolare aspetto costituisce un primo elemento di connessione e continuità con le celebrazioni e le festività carnevalesche ed i loro “antenati” pagani: i Saturnalia, i Lupercalia, le festività di Strenia[5].
La figura della Befana si ritrova infatti in tutta Europa in diverse declinazioni del rito del “brucia la vecchia”[6] o dei riti di fine anno legati al fuoco come le “ritualità del ceppo”[7] o del “rogo del Carnevale”, in cui viene dato alle fiamme un fantoccio di stracci.
La figura della “vecchia” dunque – che fu identificata anche da Propp come un personaggio tipico dei racconti fiabeschi[8]- indica l’anno appena trascorso[9] e la sua uccisione costituisce una forma rituale tipica della cerimonialità propiziatoria arcaica, legata alla semina e alla stagione invernale.
Non è certo un caso che il termine “Befana” derivi verosimilmente da “Epifania”, ricollegandosi al senso etimologico di “manifestazione divina”: in origine il giorno della natività cristiana non era infatti festeggiato il 25 dicembre bensì proprio il 6 gennaio. Con la diffusione del cristianesimo e la necessità di contrastare l’uso antico di festività pagane, la Chiesa di Roma mise in atto un vero e proprio processo di assimilazione dei riti pagani all’interno di festività cristiane, in modo da “traghettare” il popolo da una religione a un’altra mantenendo tuttavia intatta la struttura rituale. Così il giorno della Natività fu anticipato al 25 dicembre, giorno di celebrazione del Natalis Solis Invicti, culto di tipo solare diffusissimo a Roma a partire dal III secolo d.C.; in questo modo la celebrazione del “Sol Invictus” si sarebbe semplicemente trasformata nel giorno della Natività di Cristo, figura spesso associata alla luce e al sole, come ad esempio nelle raffigurazioni dell’aureola. Quello tra il 17 e il 31 dicembre inoltre era tradizionalmente il periodo destinato alle celebrazioni dei Saturnalia, riti in onore di Saturno, caratterizzati dal ribaltamento dei ruoli sociali, il caos, l’ordine sociale infranto, la licenza sessuale, il mascheramento e lo scambio di doni e cibo[10]. Gennaio, secondo il calendario romano, simboleggia proprio il passaggio dal vecchio al nuovo anno in quanto mese dedicato a Giano Bifronte[11], in cui la dualità del rito di passaggio[12]è rappresentata dalla divinità che custodisce ogni tipo di passaggio.
Dicembre era invece il periodo dei Lupercalia , festività che celebravano il culto di Romolo e che presentavano notevoli affinità con la rappresentazione della natività di Cristo come ad esempio l’idea di un infante nato in una grotta, un infante destinato a diventare un personaggio regale e spirituale allo stesso tempo. Vorremmo qui ricordare che lo stesso Ianus è stato spesso associato alla figura della regalità, di origine più antica del pantheon latino: era considerato il “primo re del Latium”, in un tempo precedente a quello di Iuppiter, il tempo indefinito delle origini italiche a cui fa capo anche l’antico Lupercale[13]. In questo modo attraverso un processo di cristianizzazione progressiva, il calendario giuliano si dotava di nuovi “idoli”, mantenendo più o meno intatti i “tempi del sacro” che scandivano la vita quotidiana.
Senza entrare nel merito dell’antropologia paleocristiana e delle origini delle festività liturgiche in epoca precristiana, ciò che è rilevante ai fini del caso di studio qui presentato sono alcuni elementi di continuità fra mondo rituale pagano e celebrazioni cristiane, che si combineranno in modo originale di luogo in luogo, costituendo gli elementi costitutivi di quelle che sono note agli accademici come “tradizioni popolari”, di cui la Befana fa senz’altro parte. L’isolamento di elementi di continuità strutturale fra i due mondi (pagano e cristiano) sono di ulteriore importanza se consideriamo che il nostro caso di studio è circoscritto alla realtà di Roma, le cui tradizioni preservano uno specialissimo legame con le strutture rituali più arcaiche.
Se dovessimo dunque iniziare a enucleare queste continuità, dovremmo concentrarci non tanto sulla forma del rito, quanto piuttosto sulla sua simbologia: la figura della vecchia è stata identificata come simbolo dell’anno vecchio che se ne va in diverse aree geografiche non solo nazionali ma europee, l’uso di donare dolciumi, datteri, arance, frutta secca in occasione delle celebrazioni propiziatorie per il nuovo anno è un elemento comune alle ritualità del mondo rurale europeo, il rogo di un fantoccio per segnalare l’attraversamento della fase liminale, per dirla con Van Gennep[14] e sancire un cambiamento (di status, di tempo, di stagione, etc.) costituisce una forma standardizzata e diffusa che utilizza il fuoco (il ceppo ardente, il rogo, le lanterne, i falò. etc.) come atto di purificazione necessario per rifondare l’ordine sociale; infine a questi festeggiamenti che possono svolgersi lungo tutto il periodo invernale sono spesso associate forme di mascheramento e di messa in scena (anche violenta, come nel caso dello charivari[15]) del disagio sociale, dei comportamenti devianti, spesso attraverso il ricorso al grottesco e al comico in senso lato[16], infine il legame con il mondo rurale e la stagionalità (e in particolare il periodo della semina), la fertilità, la propiziazione, l’abbondanza.
Ma torniamo alla figura della Befana: essa presenta dunque alcuni degli elementi tipici delle trasformazioni che i culti pagani hanno subito nei secoli, fino a costituire lo scheletro di una nuova (ma sempre antica) tradizione popolare. La Befana infatti è estremamente legata all’idea di nascita e ri-nascita, tanto che si festeggia l’antico giorno della natività, prima che fosse riformato e unificato il calendario cristiano; si collega alle festività della semina e del passaggio dal vecchio al nuovo anno: frutta e dolciumi in dono in segno propiziatorio, uso del fuoco e del rogo (per la Befana si lascia infatti acceso un “lumicino”), uso di far doni ai bambini, manifestazione del sacro, passaggio dal “tempo del Natale” al “tempo del Carnevale” che prima del Concilio Vaticano II era stabilito che fosse il periodo di tempo compreso fra la “Pasqua Epifania[17]” e il primo giorno della Quaresima.
Inoltre, ciò che è stato conservato nel passaggio da un secolo all’altro è il legame della figura della vecchia con il mondo della magia e, più in particolare, della stregoneria[18]: la notte fra il 5 e il 6 gennaio in effetti tre maghi (o “Re Magi”) si recavano a rendere omaggio a Cristo neonato, inseguendo una stella cometa e recando doni preziosi (oro, incenso e mirra, da sempre connessi con le forme della ritualità solenne cristiana). Nella stessa notte la tradizione romana vuole che una vecchia a cavallo di una scopa si intrufoli nelle case per riempire di dolciumi, arance e carbone le calze che i bambini appendono al camino, riproponendo l’elemento del fuoco nella tradizione di Roma – anche se non nella forma dirompente del “rogo” della vecchia dell’Italia e dell’Europa settentrionale. Come i Re Magi la Befana porta anche in dono bambole e giocattoli ai bambini, e si ferma ad assaggiare il cibo che i bambini lasciavano per lei. L’uso di scambiarsi doni il giorno dell’Epifania è dunque assai antico e originariamente coinvolgeva non solo i bambini, ma anche i giovani e gli sposi. La Befana a Roma non viene però bruciata, anzi omaggiata dello stesso fasto e abbondanza che anticamente veniva destinato alle feste invernali della semina e dell’anno nuovo.
La Befana ha riassunto in sé l’elemento “pericoloso” da un punto di vista rituale della fine dell’anno e delle aspettative per il successivo, prendendo la forma di una vecchia strega secondo i canoni più classici: una vecchia, dunque, naso adunco, vestita di stracci[19], vola su una scopa (ma messa al contrario, per mostrare che non è una strega malefica), esiste solo di notte dopo mezzanotte, l’ora degli spiriti e delle streghe; essa non è un’entità né malevola né propriamente benefica, porta sì doni ai più piccini ma al tempo stesso punisce la cattiva condotta riempiendo le calze di carbone, patate, cipolle anche se solo per finta (la Befana porta sempre e comunque dolciumi e balocchi).
La Befana dunque è una figura legata all’abbondanza e al dono e rappresenta, nelle sue forme folkloriche, una forma di ritualità arcaica legata più al concetto di “spiritello” che di “teofania”[20].
Così appare nella figura n. 1, in una celebre illustrazione di Bartolomeo Pinelli, associata ai banchi di dolciumi e torroni che popolavano Piazza Navona durante il periodo compreso fra il 25 dicembre e il 6 gennaio. La Befana dunque mantiene nella sua forma tradizionale i caratteri rituali delle figure più arcaiche che ritroviamo nell’immagine. Pinelli inoltre restituisce a chi osserva anche la dimensione fortemente urbana e quotidiana della festa, che coinvolge ogni classe sociale.
Fig.1 La Befana, incisione di B. Pinelli, (1835) apparsa in L’Italia, 1836 a cura di Audot Padre
L’incisione del Pinelli fa parte in effetti di una raccolta a cura di Audot Padre, ed è una delle numerosissime testimonianze dell’interesse che le festività tradizionali suscitavano nei viaggiatori stranieri: il motivo storico di tanto interesse è ricollegabile al concentrarsi dell’attenzione romantica al concetto e alla definizione di “patria” intesa come l’unione di Heimat (“territorio”), Volk (“popolo”) e Sprache (“lingua”) che insieme contribuivano a costituire quella che in seguito avrebbe preso il nome di Weltanschaaung[21], “visione del mondo”, la cultura. Dunque quello che i viaggiatori ottocenteschi si proponevano di ricercare erano le “radici della cultura europea” che essi identificavano con la cultura classica e, animati di buone intenzioni, si recavano in Italia alla ricerca delle loro stesse origini, anche se poi l’incontro con l’Italia reale arretrata e “selvaggia” avrebbe dato vita a un vero e proprio “interesse etnologico” nei confronti degli usi e costumi delle diverse realtà regionali[22]. Senza dilungarsi ulteriormente, soffermarsi sullo sguardo che simili osservatori hanno dedicato alle tradizioni popolari italiane è il sintomo del ben più ampio interesse che a partire dall’Enciclopedismo illuminista fino a raggiungere il suo culmine con il Romanticismo, animò studiosi di ogni paese alla ricerca delle “leggi del comportamento del popolo” o folklore. La nascita degli studi folkloristici meriterebbero in effetti una trattazione a parte, ma ci basti sottolineare che mentre il resto d’Europa si cimentava con la ricerca delle radici culturali dello spirito della (propria) nazione, l’Italia avrebbe abbracciato questa nuova prospettiva con notevole ritardo, concorrendo alla creazione di un fenomeno molto successivo ma senza dubbio connesso strutturalmente come la “Befana Fascista”.
In effetti è stato Stefano Cavazza ad identificare[23] come fin dal Risorgimento i movimenti culturali in Italia, in relazione alle tradizioni e al folkore, oscillarono sempre fra nazionalizzazione e regionalismo. La continuità con il passato, che l’idea stessa di tradizione popolare rappresenta è stato uno degli elementi cardinali per la costruzione dell’ideologia nazionalista del fascismo ed è in questo contesto che la Befana come elemento costitutivo della tradizione fu recuperato, modellato e ricostruito in modo strumentale durante il Ventennio, in favore di un nuovo sentimento nazionale.
Gli studiosi di folklore, o demologi, considerati all’origine dell’interesse italiano per lo studio della cultura[24] vantano tra le loro fila nomi come Raffele Pettazzoni, Giuseppe Cocchiara, Paolo Emilio Pavolini, Giuseppe Pitrè[25]; ma se nel Secondo Dopoguerra la demologia – soprattutto a seguito di De Martino e della sua spedizione lucana – si fa sempre più di ispirazione marxista e gramsciana (tanto che in Alberto Maria Cirese “il demologico” divenne inscindibile dai concetti di coscienza di classe, egemonia e subalternità[26]), tra il 1919 e il 1938 in Italia studiosi di differenti discipline diedero vita a un vero e proprio “movimento folklorista” che non solo non si collocava in contrasto ma fece attivamente parte del progetto culturale fascista.
Nel 1927, l’Opera Nazionale Dopolavoro aveva dato il via a una ben strutturata “attività folkloristica” che comprendeva non solo la promozione di realtà tradizionali ma anche la ricerca, la raccolta e la catalogazione di canti, fotografie, costumi, oggetti. L’Opera Nazionale Dopolavoro aveva inoltre aderito alla neonata Commissione Nazionale per Le Arti Popolari legata agli accordi della Commision Internationale de Coopération Intellectuelle e dunque parte del disegno della politica culturale fascista, sia in Italia che all’estero: i demologi divennero quindi i garanti della “vera” tradizione italiana, anche se questo significava recuperare e diffondere delle ricostruzioni storiche al posto delle tradizioni vere e proprie.
L’idea dei demologi era dunque quella di far dialogare il regionalismo e il nazionalismo, portando avanti l’idea (in contrasto con le più ampie tradizioni europee) di una definizione “prenazionale” del folklore, come affermava Raffaele Pettazoni nel 1911, durante il primo congresso nazionale di etnografia, in cui i folkloristi si affiancarono ad ospiti illustri e ai più esigui etnografi, in un unico grande programma; indiscutibile infatti è la predominanza della demologia rispetto all’etnografia nella propaganda culturale fascista sebbene fosse lo stesso Governo a finanziare le missioni etnologiche in Africa che furono condotte all’epoca per la prima volta.
Il 1928 fu l’anno in cui Augusto Turati propose, attraverso la promozione dell’Opera Nazionale Dopolavoro, l’istituzione di una “Befana Fascista” (poi nota anche con la denominazione di “Befana del Duce” o “Natale del Duce”) che consisteva nella raccolta e nella distribuzione di pacchi dono di vario genere, al fine di coinvolgere e promuovere la presenza femminile nelle iniziative culturali.
L’archivio fotografico dell’Istituto Luce costituisce a questo proposito un corpus di circa 500 elementi fra cinegiornali e fotografie, di cui alcune particolarmente significative per identificare quali elementi precedenti al Fascismo furono recuperati e rielaborati nella trasmutazione della nuova “Befana”, secondo le ben note dinamiche di “invenzione della tradizione”[27] connesse alla costruzione e al mantenimento dell’identità collettiva.
Quello che si propone in questa sede è una lettura di tipo comparativo, una proposta di analisi a partire da dati di natura iconografica, al fine di ripercorrere le tappe principali del processo di riassorbimento e di ridefinizione della tradizionale “Befana” all’interno del Ventennio Fascista.
Se riprendiamo la fig.1, l’incisione di Pinelli, possiamo confrontarla con alcuni materiali iconografici conservati presso diversi fondi dell’Archivio Luce al fine di isolare continuità e discontinuità e proporre una linea di interpretazione storico-culturale di continuità e discontinuità fra Otto e Novecento dell’oggetto folklorico in questione.
Fig. 2 Piazza Navona. Baracche per la Befana (4.01.1922) Archivio Storico Luce, Fondo Pastorel, c.f. FP00000602
In primo luogo occorre contestualizzare il luogo e il contesto urbano e sociale della festa dell’Epifania nel periodo precedente all’iniziativa di Turati: nel suo lavoro del 1908, Usi Costumi e Pregiudizi del Popolo di Roma, Giggi Zanazzo affermava che i festeggiamenti dell’Epifania (in occasione del quale si acquistavano doni per i bambini, come testimoniato anche dai citati sonetti del Belli) avvenivano dapprima in Piazza Sant’Eustachio, mentre già dal XVI secolo il centro dei festeggiamenti era ormai diventata Piazza Navona e il Rione Parione, che vanta antichissime tradizioni come teatro di feste e cerimonie sacre e profane[28].
Fig. 3 Befana in Piazza Navona (6.01.1929) Archivio Storico Luce, Fondo Pastorel, c.f. A00007138
Sia la rappresentazione di Pinelli che queste fotografie (figg. 2 e 3), una precedente all’intervento di Turati, l’altra immediatamente successiva, testimoniano come la piazza presenta più o meno lo stesso paesaggio urbano e sociale: banchi e banchetti di giocattoli e dolci, bambini, famiglie e avventori che si affannano per l’acquisto; un clima di festa e soprattutto in assenza di un cerimoniale o di una dimensione di “ufficialità”.
E’ doveroso qui rammentare che le celebrazioni dell’Epifania a Roma non furono mai direttamente inserite nella dimensione sacra, ma mantennero una connotazione profana che affiancava la liturgia della Chiesa, attenta a mantenere il “timone” della dimensione sacra. In questo senso la scelta della Befana da parte dell’Opera Nazionale Dopolavoro è emblematica, in quanto se da un lato recupera la tradizione folklorica nazionale (come abbiamo visto, la befana è a tutt’oggi un elemento assai diffuso in numerose realtà regionali della Penisola) in quanto elemento profano, di festa e dunque anche culturale, dall’altro affianca la liturgia tradizionale secondo un principio ben noto alla stessa Chiesa che aveva fatto l’inverso affiancando e inserendosi nelle celebrazioni pagane d’inizio d’anno.
Secondo un procedimento che si servì dei demologi per isolare e documentare tradizioni e costumi, la propaganda fascista mise in atto un processo di assimilazione della tradizione della Befana, rendendola non solo ufficiale nella sua nuova dimensione di Festa Nazionale, ma favorendo anche una rivisitazione strumentale di alcuni elementi della leggenda, al fine di sostenere più o meno direttamente altri aspetti della sua stessa propaganda.
Fig.5 (6.01.1929) Archivio Storico Luce, Rep. Attualità, c.f. A00007137.JPG
Fig. 4 (6.01.1929) Archivio Storico Luce, Rep. Attualità, c.f. A00007134.JPG
Se ci concentriamo sulle immagini che si accompagnano alla “Befana Fascista” possiamo notare un diretto contrasto fra le due iconografie, una ufficiale, l’altra “spontanea” sebbene entrambe abbiano come protagonisti donne e bambini (che sono i reali protagonisti della ritualità folklorica, come nel caso della fig.1):
Fig.6 (6.01.1929) Archivio Storico Luce, Rep. Attualità, c.f. A00007139.JPG
Andando invece ad analizzare la costruzione di una “retorica iconografica” (di cui la propaganda fascista faceva largo uso) ecco che l’immagine mostra assembramenti oceanici (fig.7) oppure interni bene organizzati con tanto di uomini in posa nell’atto di compiere il saluto fascista sullo sfondo della consegna dei doni (fig. 8). Infine il luogo demandato alla consegna dei doni del “Natale Fascista” non avviene là dove la tradizione continua a celebrare le sue feste, ma all’interno degli organi locali legai all’Opera Nazionale Dopolavoro, o in rioni diversi da Parione.
Fig. 7 Befana ai figli degli impiegati della Cassa Nazionale Infortuni (30.12.1928), Archivio Storico Luce, Rep. Attualità, c.f., A00007051.JPG
Fig. 7bis Mussolini distribuisce la Befana Fascista al Rione Trastevere (13.01.1929), Archivio Storico Luce, Rep. Attualità, c.f., A00007195.JPG
Come possiamo notare in queste due immagini, la “retorica del potere” e del nazionalismo ha trasformato gli elementi “tradizionali” in strumenti di rafforzamento di un’idea di potere e di autorità inserita nella società: i bambini sono qui “Piccoli Balilla”, le donne sono giovani attiviste, gli uomini lungi dall’acquistare balocchi e dolciumi si irrigidiscono nel saluto fascista. La distribuzione dei doni sfrutta l’elemento femminile solo in parte, opponendovi invece la figura del Duce come elemento maschile predominante. La Befana dunque diventa anche il simbolo della nuova corrente delle tradizioni popolari, di un “movimento folklorista” che portava avanti l’idea secondo la quale ogni tradizione, ben lungi dall’essere solo una semplice “sopravvivenza” del passato, sia in realtà una pratica culturale viva e sempre attualizzata, messa in scena in modo diverso perché è diverso il gruppo sociale che ne è il protagonista.
Ed è questo forse l’elemento più interessante che l’analisi del discorso iconografico permette di mettere in risalto, ovvero la peculiare fluidità del fatto folklorico e della ritualità popolare che rendono possibile la continuità nel tempo della tradizione stessa, attraverso l’illusione dell’immutabilità. Spesso quando si parla di “tradizione” si fa riferimento alla sua etimologia, dal latino tradĕre, consegnare, intendendo con il termine la trasmissione e la perpetuazione nel tempo di usi, costumi, tradizioni e saperi, definendo dunque la tradizione come qualcosa di strettamente conservativo. Gli studi folklorici e sulle tradizioni popolari[29] hanno sottolineano invece la grande plasticità delle tradizioni popolari che si adattano al mutare del contesto socioculturale di riferimento: poiché forma di interpretazione del mondo, queste mutano con il mutare di esso. Il tentativo da parte del potere costituito di appropriarsi e di strumentalizzare una tradizione al fine di incrementare la propria presunta autorità e autorevolezza sulla popolazione non è certo una novità, anzi fa parte del più ampio sistema del folklore in quanto tale; altrettanto consequenziale è il fatto che la tradizione muta con il mutare del tempo e vive in un certo senso di vita propria, sfuggendo a qualsiasi manipolazione intenzionale o “artificiale”, seguendo in modo plastico il flusso degli eventi e adoperandosi a servizio della comunità che la mette in scena.
Il tentativo di rilettura e di appropriazione della tradizione da parte del fascismo, attraverso la demologia, i musei, le inchieste, ma anche attraverso la distribuzione dei doni e la raccolta delle stesse fotografie è una retorica del tutto diversa da quella della tradizione (che per sua natura è effimera, vive nella memoria delle persone che la perpetuano) e mira a indurre un cambiamento, laddove invece la tradizione tende ad assecondarlo, offrendo l’illusione di rimanere sempre uguale a se stessa[30]. Di fatto la tradizione, ben lungi dall’essere solo “egemonica” o solo “subalterna”, “popolare” o “intellettuale”, sfugge a ogni definizione netta e si inserisce in quella dimensione vissuta della cultura che è la vita sociale nel suo insieme, creando un dialogo e non un opposizione fra élite e popolo, retorico e reale, finzione e testimonianza.
L’interpretazione di testimonianze iconografiche legate al tema della tradizione della Befana a Roma e del processo di appropriazione e reinterpretazione della forma culturale da parte del regime fascista (ad esempio attraverso l’istituzione della demologia come disciplina scientifica, attraverso la musealizzazione e lo studio sistematico e classificatorio delle tradizioni popolari) è qui contestualizzata in una prospettiva culturale; sebbene susciti numerose questioni specificatamente legate alla storia del Fascismo e dei regimi totalitari, il fil rouge della nostra analisi è infatti cercare di mostrare come da un punto di vista storico-culturale, l’icnografia sia uno strumento epistemologico fondamentale per costruire un’analisi comparativa di una prassi rituale, permettendo di isolare gli elementi di continuità nel tempo o nello spazio.
L’esperimento interpretativo fin qui condotto, quindi, sebbene forse non esaustivo da un punto di vista della storia del Fascismo, ha avuto come fine principale quello di presentare un metodo di indagine interdisciplinare che trovasse nell’immagine fotografica non tanto un oggetto di studio in quanto tale, quanto piuttosto uno strumento trasversale per definire un possibile metodo storico-antropologico.
In conclusione, analizzando la figura della Befana nella sua evoluzione storica e culturale, non possiamo fare a meno di notare che se da un lato la Befana ha subito un processo di reinterpretazione e ridefinizione da parte della politica culturale fascista, dall’altro essa (come nel caso di Roma e di Piazza Navona) ha mantenuto fino a oggi intatti alcuni dei suoi elementi più antichi, risalenti a una ritualità pagana e arcaica persino, che la distingue dal cerimoniale fascista, costruito artificialmente e secondo altre retoriche discorsive.
Una lettura iconografica permette di ricostruire questa peculiare flessibilità della forma tradizionale, contestualizzandola nel più ampio continuum storico-sociale e offrendo una chiave interpretativa degli eventi e dei protagonisti, e offrendo nuovi punti di partenza per gli studi storici e sulla retorica del potere.
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Caterina Giannottu
Si è laureata con lode in Discipline Etnoantropologiche all’Università di Roma “La Sapienza” con una tesi in antropologia della scrittura. Attualmente è dottoranda in “Storia d’Europa. Società, politica, istitituzioni” presso l’Università della Tuscia, in cotutela con l’Université Libre de Bruxelles e lavora sulla satira a Roma tra il 1798 e il 1870, in particolare su Pasquino. Ha collaborato con l’École Française de Rome al progetto di ricerca “Place Navone d’hier à aujourd’hui” e fa parte un gruppo di lavoro internazionale sulle statue parlanti.
[1]
[1] Fabio Dei, « Lo statuto conoscitivo della demologia », La Ricerca Folklorica, 1986, no 13, p. 83-84.
[2]
[2] L’antropologia e gli studi di folklore hanno utilizzato la fotografia fin dalla fine del XIX secolo, al fine analitico e comparativo di materiale documentario su usi costumi, tradizioni e “sopravvivenze” culturali. Per quanto rigurda l’esperienza italiana in questo campo, si veda l’ampia documentazione della rivista Archivio per la antropologia e la etnologia, fondata da Felice Finzi e Paolo Mantegazza nel 1869, che sarà successivamente ospitata nelle sedi fiorentine dell’illustre Società italiana di antropologia, etnologia e psicologia comparata.
[3]
[3] M. Foucault, L’Archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1999.
[4]
[4] I materiali risultanti dalle parole chiave inserite si sono rivelati facilmente reperibili e circolanti attualmente nella rete. La loro presenza online e al tempo stesso il fatto di essere in ogni caso di provenienza accertata e storicamente valida, ha costituito il criterio di selezione per le immagini qui proposte, al fine di mantenere al centro della ricerca il mezzo mediatico e i processi discorsivi e di diffusione delle rappresentazioni culturali. Il catalogo digitale dell’Archivio fotografico luce è consultabile sul sito www.archivioluce.com .
[5]
[5] Sulla storia e il significato dell’Epifania e della Befana esiste un’ampia letteratura, per citare alcuni esempi rilevanti si rimanda a De Robeck, N., La Befana. Leggenda italiana del Natale, Firenze, Giulio Giannini & Figlio, 1933; Manciocco, C.; Manciocco, L., L’incanto e l’arcano. Per una antropologia della Befana, Roma, Armando, 2006; Manciocco, C.; Manciocco, L., Una casa senza porte. Viaggio intorno alla figura della Befana, Roma, Melusina., 1995.
[6]
[6]Sulla “vecchia di mezza quaresima” e le tradizioni ad essa collegate cfr. Beduschi, L., « La vecchia di mezza quaresima », La Ricerca Folklorica, 1982, no 6, p. 37-46; più in generale sulle feste tradizionali in Italia faccio particolare riferimento a A. Marinoni, « Popular Feasts and Legends in Italy », The Sewanee Review, 1916, vol. 24, no 1, p. 69-80;
[7]
[7]Sulle ritualità legate al fuoco e al “ceppo” cfr. il celebre testo James G. Fraze, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Torino Bollati Boringhieri, 1973, IIvol., pp943-989.
[8]
[8]I temi legati all’analisi strutturale della fiaba e della leggenda si ritrovano in numerosi lavori di Propp come ad es. Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 1983 o Le radici storiche dei racconti di fate, Torino, Bollati Boringhieri, 2012.
[9]
[9] a questo proposito cfr. Beduschi, L., cit., p.38.
[10]
[10] Carnevale, Epifania e Natale sono tutte festività che facevano parte di un unico grande corpus di riti legati alla semina e al nuovo anno, fra cui i già citati Saturnali e Lupercali. Fu in effetti all’inizio del Medioevo che la Chiesa preferì scindere in tre fasi queste ritualità pagane, per poi associarle ad ulteriori cerimonie religiose, al fine di “cristianizzare” gli usi pagani che ancora imperversavano, in particolar modo a Roma; sulla relazione fra Lupercalia e Natale, ad esempio e(e in particolare sull’usanza del “presepe”) Andrea Carandini fa risalire al II secolo d.C. la rappresentazione della natività nella Grotta di Betlemme e la successiva associazione con la grotta dei Luperci ai piedi del Campidoglio, in Carandini, A., La casa di Augusto. Dai Lupercalia al Natale, Roma-Bari, 2008, p. 105-120, Sul carnevale romano e la relazione con gli antichi Saturnalia invece cfr. Clementi, F., Il carnevale romano nelle cronache contemporanee, con illustrazioni riprodotte da stampe e quadri dell’epoca, I, Città di Castello,1939, p. 1-30 e Giorgio Brugnoli, « Il carnevale e i Saturnalia », La Ricerca Folklorica, 1984, no 10, p. 49-54.
[11]
[11]Il dio Giano era considerato nella tradizione latina come il primo re del Latium.
[12]
[12] Per una definizione di “rito di passaggio” nelle sue forme tradizionali cfr. Van Gennep, A., I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 1981.
[13]
[13] Cfr. Carandini, A., cit., pp. 116-118.
[14]
[14] Van Gennep, A., op. cit.
[15]
[15] Cfr. Beduschi, L., cit., p.38.
[16]
[16] Sul comico, il riso e il grottesco è necessario qui segnalare Bachtin, M., L’opera di Rabelais e la cultura popolare, riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino 1979; Minois, G., Storia del riso e della derisione, Edizioni Dedalo, Bari, 2004; Propp., V., Comicità e riso, Torino, Einaudi, 2000.
[17]
[17] Nella Roma dell’Ottocento con il termine Pasqua si indicavano tutte le feste “di precetto”, anteponendolo al nome della festa stessa.
[18]
[18] Sulla stregoneria e la magia in età antica e moderna cfr. Frazer, J.,G., Il ramo d’oro, cit. ma anche Ginzburg, C., Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino, Einaudi, 1998; Rossi, P. Il tempo dei maghi. Rinascimento e modernità, Milano, Raffaello Cortina, 2006 e per una dimensione europea Levack, B. P., La caccia alle streghe in Europa.
[19]
[19] La deformità e la bruttezza grottesca è spesso associata a doti soprannaturali, possessione, profetismo e stregoneria. Cfr. ad es.. Vernant, J.-P Mito e pensiero presso i greci. Studi di psicologia storica, Einaudi, Torino, 1970 (trad. it.); Vernant, J.-P, Vidal-Naquet,P., Mito e tragedia due. Da Edipo a Dioniso, Einaudi, Torino, 1991 (trad. it.); Visca, D., Dei profeti dell’Occidente, tre variazioni sul tema del profetismo in antropologia storica, Bulzoni, Roma, 2007.
[20]
[20] La tradizione è bene attestata e testimoniata anche tra la fine del XVIII e la prima matà del XX secolo, come Domenico Maria Manni (1792)[20] o i celebri sonetti del Belli (La Viggijja de Pasqua Bbefanìa e La Notte de Pasqua Bbefanìa, entrambi del 6 gennaio 1845)[20] , l’opera monumentale di Giggi Zanazzo (1908)[20], ma rimase anche impressa nella memoria e nel corpus delle tradizioni italiani anche agli occhi di viaggiatori e residenti stranieri come la folklorista britannica Rachel Harriette Busk (1874)[20]. Arrivando alla dimensione iconografica, al centro delle rappresentazioni ottocentesche vi sono sempre i bambini ed una figura velata e senza volto, ambigua, e circondata da dolci e bambolotti e di bambini anelanti, come ha mostrato la penna di Bartolomeo Pinelli in un’illustrazione di un volume sull’Italia. L’incisione di Pinelli qui riportata è tratta da un volume a cura di Audot Padre, L’Italia, la Sicilia, le Isole Eolie, l’Isola d’Elba,La Sardegna, Malta, l’Isola di Calipso, ecc., Tomo III, parte I, Torino, Giuseppe Pomba Editore, 1836.
[21]
[21] Fabietti, Storia dell’antropologia,Bologna, Zanichelli, 2001, pp.62-63.
[22]
[22] Sull’interesse dei viaggiatori europei sui costumi degli italiani cfr. ad es. Brilli, A., Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale , Bologna, Il Mulino, 2006 e Formica, M., (a cura di), Roma e la Campagna romana nel Grand Tour, Roma-Bari, Laterza, 2009.
[23]
[23] Cavazza, S.,« La folkloristica italiana e il fascismo. Il Comitato Nazionale per le Arti Popolari », La Ricerca Folklorica, 1987, no 15, p. 109-122 e « Tradizione regionale e riesumazioni demologiche durante il fascismo », Studi Storici, 1993, vol. 34, no2/3, p. 625-655.
[24]
[24] Cfr. S.,« La folkloristica italiana e il fascismo.», cit.
[25]
[25] Cfr. ad es. William E. Simeone, « Italian Folklore Scholars », The Journal of American Folklore, 1961, vol. 74, no 294, p. 344-353.
[26]
[26] Sull’interpretazione di ispirazione gramsciana della cultura popolare come “cultura subalterna” cfr. il noto Cirese, A. M., Cultura egemonica e culture subalterne, rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale, Palumbo Editore, Palermo 1973
[27]
[27] Sulla definizione del processo di “invenzione della tradizione cfr. Hobsbawm, E. J., e Ranger, T. (a cura di), L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 2002.
[28]
[28] Tra le occasioni di festa che avevano luogo in Piazza Navona ricordiamo qui le festività domenicali (tra cui il gioco noto come albero della cuccagna) e in occasione dell’Epifania, entrambe poi abolite durante l’impero napoleonico. Cfr. ad es. Nasto, L., Le feste civili a Roma nell’Ottocento, Gruppo Editoriale Internazionale, Roma, 1994. Sul carnevale romano invece faccio riferimento in particolare ai lavori di Martine Boiteux: Le feste : cultura del riso e della derisione, in Vauchez, A., Storia di Roma dall’antichità ad oggi. Roma medievale, Roma-Bari, 2001, pp.291-316 ; della stessa autrice Fêtes et cérémonies romaines au temps de Carrache, dans Les Carrache et les décors profanes. Actes du colloque de Rome (2-4 octobre 1986), Roma, 1988 (Collection de l’École française de Rome, 106), p. 183-214 e Carnaval annexé. Essai de lecture d’une fête romaine, dans Annales. Économie, Sociétés, Civilisation, XXXII,2,1977, p. 356-380, oltre ai citati lavori di Martine Boiteux sulle feste e le cerimonie romane cfr. Visceglia, M. A., La città rituale. Roma e le sue cerimonie in età moderna, Roma, Viella, 2002. Sulla vita quotidiana a Roma e in particolare nel rione Parione cfr. Romano P., Tre secoli di vita romana, Roma, 1941 Romano, P. e Partini,P., Strade e piazze di Roma, 1874-1961.
[29]
[29] Cfr. Jean Cuisenier, Manuale di tradizioni popolari, cit.
[30]
[30] Fra gli studi recenti sulla cultura popolare e il folklore è necessario segnalare, oltre al già citato lavoro di Cirese, anche Dei, F., Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare, Meltemi, Roma 2002 e Clemente, P.; Mugnaini, F., (a cura di) Oltre il forlklore. Tradizioni popolari e antropologia nella società contemporanea; Roma, Carocci, 2001.