Recensione: P. Bertella Farnetti, A. Mignemi, A. Triulzi, L’impero nel cassetto

Il volume presenta una serie di riflessioni su quella che per brevità possiamo definire “fotografia coloniale italiana”, in particolare relativamente ai territori che, in epoca fascista, furono riuniti sotto il nome di Africa orientale italiana. Si tratta senz’altro di un utile contributo per definire lo stato dell’arte dopo alcuni anni di rinnovato interesse per l’argomento; contemporaneamente il testo può essere una buona introduzione anche per chi si avvicini per la prima volta al tema più generale della fotografia come fonte storica dal momento che molti dei saggi, in particolare nella loro sezione introduttiva, ripercorrono tappe e modi dell’utilizzo storiografico delle immagini fotografiche fin dalle origini proponendo, nel loro complesso, una sorta di bibliografia di testi che sono ormai diventati dei classici imprescindibili sul tema. Il centro focale attorno al quale ruotano le autrici e gli autori del testo, e i loro contributi, è il progetto “Returning and sharing memories”, partito da un censimento lanciato nel 2006 a Modena per promuovere l’emersione di materiale privato relativo all’esperienza coloniale in Etiopia rimasto chiuso nei cassetti di famiglia.

 

Il progetto, innescato su impulso dell’associazione no profit Moxa, attiva nei paesi del Corno d’Africa, ha prodotto una mole di documentazione talmente vasta e significativa da suggerire la costituzione di un gruppo di lavoro ad hoc. Obiettivo principale dell’operazione è la condivisione e la restituzione delle fonti alle popolazioni che hanno subito la colonizzazione italiana nella «consapevolezza che questa memoria non appartenga soltanto a noi, ma anche ai popoli che l’Italia ha colonizzato», (1) come spiega in apertura Paolo Bertella Farnetti, animatore del progetto che, dal 2010, ha ampliato i suoi orizzonti proponendosi di «individuare e recuperare archivi privati in tutto il territorio nazionale». (2) I documenti ottenuti vengono scansionati, resi disponibili online (3) e predisposti per la «”restituzione” alle popolazioni ex colonizzate» anche se, naturalmente, esclusivamente in formato digitale. Come spiega ancora Bertella Farnetti, infatti: «Non solo siamo andati a imporre il nostro “posto al sole” agli etiopi, ma ce ne siamo andati, con la forza, portandoci dietro tracce ricordi documenti foto che raccontavano la nostra storia ma anche la loro». (4) La questione degli archivi coloniali e, più in generale, degli archivi contesi tra due stati, è sempre, del resto, complessa e delicata come mostra benissimo Giulia Barrera nel suo saggio Carte contese: la spartizione degli archivi coloniali e i contenziosi internazionali in materia di archivi. Barrera ripercorre, in modo sintetico ma chiaro ed efficace, le vicende dei conflitti internazionali in tema di archivi e i tentativi di risolverli sul piano giuridico, resi più problematici dalla duplice natura dei giacimenti documentali che hanno carattere di «strumento pratico, per attestare diritti, documentare fatti giuridici, mantenere memoria certa, pubblica o privata e così via» (5), ma sono anche dei beni culturali. In particolare, Barrera sottolinea fortemente il ruolo degli archivi nella costruzione delle identità nazionali a partire dalla Rivoluzione francese, caratteristica che rende ulteriormente spinosa e imbrogliata la loro gestione in caso di conflitto. Il volume comprende, poi, una presentazione più tecnica del progetto “Returning and Sharing Memories” affidata a Elisabetta Frascaroli, Il progetto e i primi fondi censiti, prima di presentare più nel dettaglio alcuni dei materiali emersi, sia dal lato italiano che dal lato etiope. Shiferaw Bekele (Preliminary notes on Ethiopian sources on the Italian Invasion of the Country and the Subsequent Occupation) e Haile Muluken (The Historiographical Value of Private Photographic Sources for the Colonial History of Africa), nei loro contributi in lingua inglese, si occupano delle fonti, rispettivamente scritte e iconografiche, di parte etiope. Si tratta di un quadro molto interessante che comprende tanto fonti più propriamente archivistiche ancora inedite, delle quali spesso vanno ancora indagati i contorni, quanto fonti edite, in particolare memorialistica e autobiografie. Per quanto riguarda queste ultime è davvero significativo notare che quando esistono delle traduzioni si tratta per lo più di versioni in lingua inglese e non in italiano. Un percorso in questo senso andrebbe invece senz’altro intrapreso, non solo per ragioni scientifiche ma anche per dare un ulteriore, marcato segnale di svolta alla riflessione sul periodo coloniale.
Di particolare interesse, dato il forte ruolo della parola non scritta nelle culture africane, risultano anche le fonti orali, raccolte nel tempo da commissioni governative o attraverso il lavoro dei media. Da questa prima analisi emerge già con chiarezza come la stessa memoria etiope sia, anche internamente, una memoria fortemente divisa: le testimonianze raccolte o pubblicate sotto forma di volumi sono, infatti, i racconti dei resistenti; la memoria di chi ha collaborato con gli italiani ha, invece, subito una duplice forma di rimozione ed è, in molti casi, ormai persa per sempre. Haile Muluken focalizza il suo intervento sulle immagini fotografiche private. Dopo aver brevemente ripercorso la storia della rappresentazione fotografica dell’Etiopia, sottolinea la necessità di allargare l’attenzione alla fase precedente l’occupazione italiana. Per mostrare il valore euristico di questa documentazione, propone un esame delle fotografie conservate nel fondo Gomez, fascista entusiasta della prima ora; emerge così come il loro valore documentale non sia limitato alla storiografia dell’occupazione italiana ma sia utile, in senso più lato, per ricostruire la storia dell’Etiopia tout court: la storia dell’urbanizzazione, dell’ambiente, dei costumi, dello sport, dell’architettura, della famiglia e così via. Meno convincente, se posta in termini così perentori, la sua affermazione, ripresa da Christraud Geary ma ribadita da Haile Muluken in più passaggi, che «le collezioni fotografiche private siano più affidabili per una corretta documentazione, garantiscano una migliore conservazione e una maggiore accessibilità di quelle pubbliche» (6). Luigi Tomassini, anziché riflettere ancora una volta in generale sul valore storiografico delle immagini ai sali d’argento, si concentra sul tema decisamente più nuovo de L’album fotografico come fonte storica. Si rivela molto utile, quindi, la lunga introduzione teorica e metodologica in cui l’autore inquadra l’oggetto della sua riflessione e le differenti tipologie di album, prima di addentrarsi nelle specificità degli album cosiddetti coloniali e di proporre alcuni casi di studio. Gabriele Proglio porta la riflessione su un piano più squisitamente teorico, vicino all’approccio antropologico e a quello dei visual studies, insistendo sulla necessità di inserire le immagini «in un preciso contesto […] che è composto da una realtà fatta di pratiche e rappresentazioni ma anche di immaginari» (7) e sul concetto di sguardo e di non neutralità della visione, seguendo le tracce della riflessione femminista e post-coloniale. Un metodo di analisi differente innerva il saggio immediatamente successivo, intitolato Mirror with a memory? La confezione dell’immagine coloniale, in cui Silvana Palma, una delle massime esperte di fotografia coloniale, seguendo la vita di due immagini, una che rappresenterebbe “la balia del negus” e un falso ritratto del dajjach Bahta Agos costruito negli anni trenta su uno scatto degli anni novanta dell’ottocento, offre un bell’esempio di lavoro storiografico sulle fotografie. La studiosa riporta in primo piano il valore della presa in carico della “corporeità” delle immagini fotografiche e seguendo gli usi, i riusi e le risignificazioni a cui questi due ritratti vengono sottoposti nel corso del tempo evidenzia perfettamente come la vita delle fotografie corrisponda a una molteplicità di “nascite”, delle quali il momento dello scatto non è che la prima. La sua attenta e puntuale analisi consente di riflettere sulle modalità pratiche di costruzione delle immagini, e dell’immaginario che ne consegue e che, nel contempo, le precede e le sottende, attraverso le diverse contestualizzazioni a cui vengono sottoposte e grazie alle relazioni che si producono con la parola scritta. Il suo contributo offre anche l’opportunità di mettere in luce la molteplicità di competenze storiche e relative alla storia e tecnica della fotografia di cui è necessario disporre per portare avanti il paziente e meticoloso lavoro, tra archivi e biblioteche, indispensabile per utilizzare efficacemente queste peculiari fonti. Più concentrato sul momento dello scatto e dell’avvio del ciclo di produzione delle fotografie l’interessante saggio di Benedetta Guerzoni dedicato a La collezione fotografica di Gino Cigarini tra pubblico e privato. Guerzoni presenta le vicende del giovane soldato del Genio e ricostruisce la prassi operativa della 14° squadra cinefotografica dell’8° reggimento alla quale Cigarini venne assegnato. Il lavoro si snoda quindi in una riflessione che intreccia il piano privato e quello più direttamente collegato all’incarico militare, aiutando a comprendere meglio la compresenza di strati differenti, ma con una forte relazione osmotica, su cui vanno disposti materiali privati e produzioni ufficiali. Guerzoni si concentra, in particolare, sulla rappresentazione della violenza, esibita senza alcuna forma di censura né di autocensura, e sul parallelo tentativo dei militari di trovare spazi di convivialità nel corso dei mesi di guerra. Anche Adolfo Mignemi rimane sul tema della produzione in bilico tra privato e ufficialità ma appuntando la propria attenzione sui corrispondenti di guerra, esaminando gli scatti di giornalisti che spesso sono nomi ben noti nella storia letteraria italiana come Dino Buzzati e Curzio Malaparte.
Di grandissimo interesse le immagini che Mignemi è riuscito a rintracciare lavorando per la massima parte negli archivi privati e familiari. Questo notevole risultato conferma la necessità, alla base del progetto “Sharing and Returning Memories”, di andare oltre i giacimenti documentali ufficiali più noti, non solo per ricostruire la memoria e la rappresentazione delle persone “qualunque” ma anche, cosa più sorprendente, per recuperare documentazione di figure pure assai note nel panorama culturale nazionale. Mignemi, analizzando queste immagini, sostiene in modo convincente che «il progetto propagandistico del regime ha coinvolto, quando anche non avvelenato, non solo le masse popolari ma anche gli osservatori più disincantati, i frequentatori degli spazi dei retroscena dove i meccanismi di controllo del consenso erano allestiti, collaudati e messi in opera, al punto da potersi facilmente scambiare, ad esempio nel caso dei giornalisti, le loro raccolte personali con quelle di un generico soldato». (8) Il saggio conclusivo, conformemente con l’obiettivo del progetto da cui ha avuto origine il lavoro, sposta in avanti il limite cronologico della riflessione, sottolineando come la condivisione di un passato coloniale non si chiuda con la fine dell’occupazione italiana ma abbia prodotto un ineludibile legame tra paese colonizzato e colonizzatore sul quale è opportuno lavorare collaborando. Alessandro Triulzi riflette, allora, sulle Voci dal post-impero: percorsi altri delle memorie migranti in Italia, presentando l’esperienza dell’Archivio delle memorie migranti che si propone di «riunire ricercatori e testimoni migranti nella raccolta e produzione di narrazioni orali e scritte, documentari audio e video, in modo da far partecipare i migranti in prima persona alla definizione dei criteri di raccolta, archiviazione e diffusione delle loro storie e testimonianze». (9) I testi di apertura e chiusura rivendicano lo sforzo di unire alla dimensione più propriamente scientifica un approccio etico e politico che renda la ricerca storica una modalità di reale conoscenza reciproca e di costruzione di relazioni diverse tra popolazioni che hanno un trascorso, per quanto difficile e problematico, comune. I due saggi danno, inoltre, una cornice comune a interventi che, per la loro ampiezza e ricchezza, mostrano qualche discrepanza di ordine metodologico e sembrano talvolta portare la riflessione in direzioni discordanti. Coerentemente con l’argomento e l’impianto del volume, sono parte integrante del testo centoquarantotto immagini relative agli anni dell’occupazione italiana di grandissimo interesse, spesso inedite. Proprio per via del valore dell’apparato iconografico, sarebbe forse stata opportuna una maggiore cura editoriale nella pubblicazione, in modo da consentire ai fruitori del libro una percezione più ricca dei documenti. L’auspicio è, naturalmente, che il progetto riesca a proseguire e ad ampliarsi. Si tratta di un disegno ambizioso e di grande respiro che dovrebbe essere esportato in altre zone d’Italia, soprattutto in quelle che meno di frequente compaiono nelle narrazioni storiografiche, anche al fine di verificare se e in che modo le differenze nazionali, così rimarcate dalla pubblicistica coeva con forti accenni di denigrazione della componente meridionale, portassero con sé uno sguardo diverso sulla realtà della colonia. Un segnale positivo viene dalla Sardegna dove un percorso analogo, “Sardegna d’oltremare”, è stato promosso dall’Università di Cagliari con il fine di recuperare e conservare «le memorie dei sardi che andarono nelle colonie africane». (10)

 

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Monica Di Barbora
Documentalista specializzata nella gestione di archivi fotografici storici e ricercatrice. Ha lavorato presso diversi enti di conservazione e istituti di storia contemporanea. Ha pubblicato saggi e articoli, in particolare sui rapporti tra fotografia e storia e nell’ambito della Storia delle donne e di genere

 

 

1) Ibidem, p. 7.

2) Ibid., p. 9.
3) Il materiale è visionabile online all’indirizzo memoriecoloniali.org ma, per ora, si tratta soltanto una minima parte di quello acquisito.
4) Ibid., p. 8.
5) Ibid., p. 15.
6) Ibid., p. 157, tr. dell’autore.
7) Ibid., p. 72.
8) Ibid., p. 161.
9) Ibid., p. 194.
10) Informazioni sulla pagina facebook del progetto: https://www.facebook.com/sardegnadoltremare?filter=3. Consultata il 5 marzo 2014.

 

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