La fotografia sfugge per sua natura a categorie e definizioni. Anche provare a stabilire una demarcazione tra rappresentazione pubblica e privata significa inoltrarsi su un terreno sdrucciolevole. Si tratta, infatti, di un confine poroso, difficile da delimitare. Questo per una serie di ragioni che si pongono a più livelli e che afferiscono tanto alle vicende che si snodano a partire da quello che Adolfo Mignemi definisce “l’evento fotografico”[1] quanto al contesto culturale in cui esso viene prodotto.
La “vita” del documento non sempre si conforma all’intenzione di chi scatta l’immagine e allo scopo per cui essa è stata prodotta. Immagini scattate per usi personali possono avere, nell’immediato o a distanza di tempo, circolazione pubblica. Per volontà dell’autore o indipendentemente da essa. Viceversa, è assai comune che immagini prodotte per un uso pubblico, si pensi alle cartoline fotografiche o alle immagini ritagliate da magazine illustrati, finiscano, mescolate a fotografie personali, in album privati. Il nuovo contesto sottopone l’immagine a una risignificazione che è del tutto personale. L’album privato può diventare poi un oggetto da condividere con una cerchia di familiari e conoscenti, promuovendo una nuova vita pubblica dell’immagine privatamente ricontestualizzata; o può finire nelle collezioni di un archivio e di un museo ed essere esposta o pubblicata, inserendo quello stesso documento fotografico in un ulteriore ambito di fruizione pubblica. La circolazione della fotografia, quindi, può vivere fasi diverse, in sfere comunicative distinte, secondo dinamiche non sempre previste e prevedibili dal suo autore e non sempre facilmente tracciabili dallo studioso.
Contribuisce a rendere incerti i margini tra i due ambiti anche il contesto estetico, politico e comunicativo in cui è immerso il produttore dello scatto. Chiunque scatti una fotografia dispone di una gamma di soggetti pre-selezionati, per così dire, e di modelli di rappresentazione culturalmente legittimati tra cui scegliere. Ciò induce ad orientare la propria “attenzione fotografica” verso specifici elementi del reale e ad interpretarli attraverso modalità culturalmente costruite e certificate. E’ una delle ragioni per cui il confronto fra immagini pubblicate e scatti che possiamo supporre come considerati privati dal loro produttore consente solo in minima parte di ampliare la gamma dei soggetti fotografici relativi a un evento. Si rivela spesso, invece, più utile allo scopo di verificare quanto la rappresentazione pubblicamente diffusa sia stata incorporata nella visione privata.
Va inoltre notato come, frequentemente, proprio la volontaria infrazione del confine tra ambito privato e ambito pubblico dell’oggetto fotografico sia alla base della significazione dell’immagine: si pensi, ad esempio, alla natura stessa della fotografia pornografica in cui un’immagine che per convenzione viene presentata e letta come privata è invece esplicitamente prodotta per una diffusione pubblica e proprio in questo gioco di piani risiede gran parte del suo richiamo voyeuristico.
Altrettanto insidioso è il tentativo di applicare questa distinzione tra pubblico e privato alla classificazione dei soggetti.
Nella circolarità di riproduzione e conferma di immagini pre-codificate, sul crinale tra rappresentazione privata e pubblica, rientra pienamente anche la costruzione degli stereotipi di genere. L’ambito del visivo, infatti, è forse il luogo per eccellenza in cui si manifestano e cristallizzano i dispositivi di dominio, che si radicano fortemente nella costruzione, anche e soprattutto iconografica, dell’alterità. Gli studi di Berger, Mulvey e Pollock[2], per non citare che alcuni tra i più significativi, si sono concentrati già a partire dai primi anni settanta sulla variabile del genere. Nel corso degli ultimi anni, poi, le studiose e gli studiosi hanno ampliato la riflessione, sottolineando come l’analisi dell’immaginario costruito sul genere non possa essere separata dal discorso sulla costruzione della razza, tanto più pericoloso nel nostro paese quanto più rimosso dalla consapevolezza sociale e culturale.[3] Rimozione che deriva in gran parte dall’autoassolvimento rispetto al passato coloniale nazionale, fondato sull’inossidabile mito degli italiani brava gente.
Riflettere sulle immagini scattate nelle colonie africane del fascismo, in cui tutti questi elementi emergono chiaramente è, quindi, un percorso di approccio significativo alle questioni poste fin qui. Ancora più eloquente se questi processi vengono seguiti su una temporalità più distesa che arriva fino ai giorni nostri. L’interesse di questo approccio è stato, del resto, ben colto dalle storiche e dagli storici italiani che hanno ampiamente studiato la diffusione e l’utilizzo delle fotografie di donne africane, sottolineando il carattere di appropriazione violenta che esse sottendono, in continuità con la violenza coloniale vera e propria.[4]
La mia riflessione si concentrerà, in particolare, sulla rappresentazione fotografica delle donne in quei territori che, dopo la proclamazione dell’impero nel maggio 1936, avrebbero preso il nome di Africa orientale italiana, allargandosi alla rappresentazione delle donne bianche, percorso meno battuto dalla storiografia italiana. La generica categoria “donne” risulta utile, da un punto di vista operativo, all’interno di una riflessione che si concentra sui modelli socialmente e culturalmente imposti, per definizione schematici e destinati a produrre un ordinamento classificatorio. Si tratta, tuttavia, di una categoria che, anche utilizzata in questo senso ristretto, necessita di ulteriori specifiche. Se, infatti, restituisce la comune esposizione a rapporti di potere fortemente squilibrati, vigenti nei rispettivi ambiti di provenienza, comprende in sé tanto le colonizzate che le colonizzatrici. Donne, quindi, con posizionamenti assai diversi rispetto a colore della pelle, potere all’interno della società coloniale, credo religioso, appartenenza, spesso ceto sociale. Oltre che, naturalmente, diverse per i percorsi individuali di vita. Abbiamo a che fare, quindi, con una categorizzazione che si pone al centro di tensioni e linee di forza che vanno sempre tenute presenti.
Per quanto riguarda l’arco cronologico di analisi, esso include gli anni dal 1935 al 1941, quando la sconfitta con gli inglesi nel teatro di guerra africano, durante la seconda guerra mondiale, chiude la drammatica avventura coloniale del fascismo.
Individuare e vedere all’opera alcune delle dinamiche che ho brevemente delineato in questa schematica introduzione è obiettivo primario di questo lavoro.
Analizzata in questo contesto, la fragilità della linea di confine tra rappresentazione pubblica e privata ha ulteriori ragioni di essere. Anzi tutto, l’intera breve vita dell’Africa orientale italiana si inscrive in un clima di guerra: ai nove mesi di vera e propria guerra di occupazione segue un costante stato di conflitto, con le forze italiane impegnate nel tentativo di ottenere un effettivo controllo del territorio a scapito dei resistenti etiopi. Questa fase sfocia senza soluzione di continuità nella seconda guerra mondiale e nello scontro con le forze britanniche che, nel giro di pochi mesi, mette fine all’esperienza dell’Aoi.
La forte militarizzazione del contesto ha come conseguenza una struttura sociale che, per quanto riguarda la comunità italiana, è composta in forte prevalenza da militari e giornalisti. I fondi fotografici privati a nostra disposizione, quindi, sono prodotti in larghissima parte proprio da soggetti che rientrano in queste categorie[5]. Questo si riverbera, naturalmente, sulla tipologia delle immagini prodotte che, rientrando in un genere a cavallo tra la fotografia di guerra e quella di scoperta, tendono a porsi sistematicamente al confine tra rappresentazione pubblica e privata.
Un’altra conseguenza è il fatto che gli autori delle immagini siano nella pressoché totalità uomini. Allo scoppio della seconda guerra mondiale sul territorio sono presenti 91.203 militari italiani, secondo Giorgio Rochat.[6] Per quanto riguarda i civili, i pochi dati ufficiali a nostra disposizione dicono che ancora nel giugno del 1940 in Etiopia vi erano 42.365 italiani, l’81% dei quali (34.339) uomini e solo 8026 donne. Una composizione sociale fortemente sbilanciata, quindi, che non può che riflettersi in una rappresentazione altrettanto sbilanciata. Che, inoltre, fa i conti con un lungo e costante lavoro di propaganda e, per quanto riguarda le pubblicazioni ufficiali[7], di selezione e censura.
Va evidenziata, inoltre, la quasi completa impossibilità di accedere a fonti fotografiche di origine etiope. Questo sia per il loro numero esiguo, dovuto alla scarsa diffusione dell’apparecchio fotografico anche negli strati dell’élite, sia alla critica situazione attuale degli archivi etiopi.
Nel corso della mia ricerca ho lavorato principalmente su due tipologie documentali: le immagini conservate in una serie di fondi personali, tra cui quello del giornalista Ciro Poggiali[8], e quelle pubblicate in diverse riviste illustrate edite nell’arco cronologico individuato[9]. Tra queste ultime, un posto di rilievo spetta a “La Domenica del Corriere” che, attestando la sua tiratura, nel periodo in esame, sul milione e trecentomila copie circa, rimane uno dei “luoghi” più interessanti in cui leggere la costruzione dell’immaginario degli italiani sulle terre dell’espansionismo fascista.
Già un primo confronto fra i documenti conferma la porosità tra rappresentazione pubblica e privata di cui si parlava all’inizio. Tra le fotografie dei fondi privati e le immagini che compaiono sui periodici non si legge una reale cesura. Tanto i soggetti che le modalità di rappresentazione sono ricorrenti. “La Domenica del Corriere” gioca anzi esplicitamente su questo piano, istituendo una rubrica che, con qualche cambiamento di intestazione[10], godrà di discreta fortuna. I militari impegnati nelle operazioni in Etiopia sono invitati a spedire al giornale le proprie fotografie. Queste immagini, prodotte come documentazione e testimonianza personale della propria “avventura” africana, scattate per essere conservate come traccia esperienziale ed essere poi mostrate, una volta tornati a casa, ad amici e parenti, slittano verso un utilizzo pubblico attraverso il quale il giornale prova a costruire una memoria condivisa dell’esperienza e a creare un legame tra gli italiani combattenti e l’opinione pubblica sul suolo italiano. La qualità delle immagini è piuttosto buona, tecnicamente si tratta di immagini che non si differenziano in alcun modo da quelle che accompagnano gli altri articoli.[11] Lo stesso vale per i soggetti. La rappresentazione dell’esperienza è condotta secondo le linee narrative e iconografiche costruite a partire dall’ottocento nel corso dei viaggi di esplorazione. Poco spazio è riservato all’esperienza bellica in sé. Ci si limita a qualche immagine di allegro cameratismo. L’aspetto più cruento della guerra è appena evocato da poche inquadrature di soldati, sempre sorridenti, in posa accanto a del materiale bellico. Fulcro della rappresentazione è, invece, il personale incontro con “l’Africa”, secondo moduli narrativi che denunciano chiaramente l’assorbimento di modelli antecedenti. Abbondano le immagini di soldati orgogliosamente ritratti con animali uccisi durante le frequenti battute di caccia.
[Foto 1] “Domenica del Corriere”, 26 maggio 1936, p. 3.
[Foto 1] Numerose, in un inquietante parallelismo, anche le immagini degli etiopi, scelti per il loro aspetto “pittoresco” in una sorta di “safari fotografico”. Anch’essi messi in posa, da soli o più raramente con i commilitoni del fotografo, secondo il più tipico modulo etnografico, a figura intera o in primo piano, rigidi, lo sguardo in macchina. Non mancano le scenette di costume. Molte raffigurazioni di donne rientrano in questo ambito. Si tratta, per lo più, di rappresentazioni di “tipi regionali” o di quadretti di genere, con le donne al mercato, alla fontana, o raccolte in piccoli gruppi sedute a terra tra i tucul. Una figura estremamente ricorrente è quella della madre con il proprio piccolo al seno o portato nella fascia sul dorso. Un’immagine, quest’ultima, che colpisce largamente l’immaginazione dei lettori, come documenta anche questa vignetta [Foto 2] apparsa su l’”Illustrazione italiana”.
[Foto 2] “Illustrazione Italiana”, 5 novembre 1939, penultima pagina, non numerata.
La medesima iper-rappresentazione della maternità che si individua nelle immagini dei soldati[12] si ritrova anche nelle altre pagine de “La Domenica del Corriere” che, ad esempio, pubblica addirittura un servizio di due pagine, corredato da otto fotografie, interamente dedicato all’argomento. Intitolato Madri e maternità nella nuova Etiopia appare poco dopo la fine del conflitto e la proclamazione dell’Impero.
[Foto 3] Ottorino Cerquigni, Madri e maternità nella nuova Etiopia, in “Domenica del Corriere”, 8 novembre 1936, pp. 6, 7.
[Foto 3] Gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare.
Anche se in forme apparentemente poco aggressive, dato il pubblico a cui il periodico si rivolge, si ripropone anche lo stereotipo della “Venere nera”. Giovani e belle donne vengono fotografate a figura intera e in primo piano, magari mentre inviano un bacio in direzione della macchina fotografica. Più raramente sono riprese accanto ai soldati, che le osservano con espressioni scherzose e ammiccanti o guardano in camera come a richiedere la complicità dello spettatore.
[Foto 4] “Domenica del Corriere”, 12 aprile 1936, p. 3.
[Foto 4] Nonostante non si tratti di immagini apertamente licenziose, la loro circolazione in un ambito comunicativo sessualmente caratterizzato, già ampiamente descritto da diverse autrici e autori[13] e sul quale torneremo più avanti, riverbera sul loro contenuto iconografico invitando a una lettura connotata in senso erotico.
Dato il contesto, non sorprende eccessivamente che nelle centinaia di immagini inviate al giornale dall’Africa orientale non compaiono mai donne bianche. L’unica donna europea che si ritrova nelle fotografie scattate dai militari è Maria Josè di Savoia[14]. La principessa belga, moglie di Umberto, è una vera icona mediatica dell’epoca. La sua immagine, solitamente in divisa da crocerossina, riempie le pagine dei giornali lungo tutto l’arco cronologico preso in esame. Rappresentazione continuamente riproposta di compostezza, partecipazione, femminilità aggraziata ma austera. Vero modello per le donne italiane della capacità di prendere parte agli eventi senza perdere la propria muliebre bellezza e, soprattutto, senza uscire dagli ambiti di cura tradizionalmente riservati al genere. L’immagine di Maria Josè è considerata tanto efficace da troneggiare sulla copertina del numero doppio speciale che “Africa italiana” dedica alle donne in colonia[15].
[Foto 5] “Africa italiana. Pubblicazione mensile dell’Istituto Fascista dell’Africa Italiana”, a. III, n. 2-3, febbraio-marzo 1940.
[Foto 5] La sovraesposizione mediatica della principessa belga e il suo chiaro utilizzo come figura emblematica di riferimento per le donne italiane meriterebbe un più esteso approfondimento. Tanto più che è curioso che la stampa, tanto attenta a ribadire con convinzione l’assoluta peculiarità della donna italiana[16], scelga per rappresentarla una giovane di origine straniera.
Tra le molteplici riflessioni possibili, vale la pena di sottolineare la rilevanza di un elemento ricorrente nella rappresentazione di Maria Josè di Savoia ma, più in generale, delle donne italiane in Aoi: la divisa. La frequenza con cui le donne fotografate in Africa indossano una divisa, di qualsiasi genere essa sia, è tale da non potersi leggere come una semplice coincidenza. Pare, piuttosto, un indizio interessante rispetto alla costruzione di un modello proposto al mondo femminile che è legato alla vicenda africana ma è, nel contempo, fortemente suggestivo anche per le donne della penisola. Un modello che intreccia strettamente genere, bianchezza e decoro borghese. In questo senso, la divisa si costituisce come una specie di barriera che si frappone fra la donna italiana e l’esuberanza minacciosa e incontrollata del continente africano. Non a caso, oltre a Maria Josè in abito da crocerossina, la rappresentazione pubblica delle donne italiane in colonia si limita, praticamente, alle suore missionarie. Le sole, peraltro, a essere fotografate durante le attività quotidiane e anche in compagnia di africani. Come se quella particolare divisa che è l’abito monacale, con il suo velo, privasse il loro corpo di qualsiasi connotazione sessuale e, conseguentemente, di genere, e lo rendesse rappresentabile anche in un contesto chiaramente percepito come minaccioso per l’integrità e la purezza della donna.
Per le donne che dovrebbero trasferirsi in colonia viene anche studiata un’apposita divisa. Nonostante non mi risulti che vi siano fotografie di donne in divisa coloniale fotografate in Africa (ad eccezione delle immagini scattate nei campi precoloniali in Libia, in un ambiente, quindi, assolutamente circoscritto e protetto, destinato a proporre un’esperienza vicaria della vita in colonia più che un’effettiva esperienza coloniale[17]), la raffigurazione sembra essere sufficientemente forte da essere entrata nell’immaginario della madrepatria. Ne è un esempio questa pubblicità di una pasta dentifricia.
[Foto 6] “Illustrazione italiana”, 17 agosto 1941, p. I.
[Foto 6] Che, tra parentesi, per evocare l’Africa sceglie comunque il più turistico e rassicurante Egitto.
La divisa ha anche un’ulteriore funzione, quella, cioè di inserire la presenza femminile all’interno di un contesto professionale. Rivestendo il corpo lo protegge e, contemporaneamente, gli attribuisce un ruolo pubblico. Anche in questo senso la divisa contribuisce a legittimare, in qualche misura, la rappresentazione della donna in uno spazio coloniale sentito come potenzialmente pericoloso per il decoro della donna italiana.
L’impressione che si ricava scorrendo le immagini è che, nella rappresentazione mediatica delle donne italiane in Aoi, venga obliterato tutto ciò che potrebbe rinviare alla sfera privata.
La modesta rappresentazione di donne italiane in Africa orientale è dovuta, certamente, al loro esiguo numero ma questa spiegazione non è sufficiente a motivare la loro pressoché totale rimozione, fatta salva qualche, rara, immagine di cerimonie ufficiali in cui sono minuscole figurine a mala pena individuabili. Soprattutto perché questo annullamento persiste anche quando il regime pone tra le sue priorità l’invio in colonia di un consistente contingente femminile. Neppure in questa circostanza la propaganda decide di utilizzare immagini di donne residenti in Aoi attraverso le quali proporre un modello appetibile alle italiane che si vorrebbe andassero a raggiungerle.
Le modalità di rappresentazione, poi, sono estremamente rigide e codificate. Appaiono già compiutamente delineate nell’articolo di due pagine, intitolato “La donna italiana, dolcissima in pace, fortissima in guerra”, su “La Domenica del Corriere” del 31 maggio 1936.
[Foto 7] Ottorino Cerquigni, “La donna italiana, dolcissima in pace, fortissima in guerra”, in “La Domenica del Corriere”, 31 maggio 1936, pp. 6-7. Non sono indicati gli autori delle immagini che accompagnano l’articolo.
[Foto 7] Le immagini di accompagnamento forniscono una griglia narrativa e iconografica che rimarrà valida lungo tutto l’arco cronologico considerato. Si tratta di sei fotografie. Tre sono immagini di donne che donano le fedi alla patria, durante la “Giornata della fede” tenutasi a Roma nel dicembre dell’anno precedente: oltre alla regina d’Italia, Elena del Montenegro, nell’immagine compaiono delle donne in abito nero, vedove di guerra o madri che in guerra hanno perduto i propri figli. In due delle fotografie ritorna l’onnipresente principessa Maria Josè, nella sua candida uniforme di crocerossina, ritratta in un ospedale e mentre riceve un mazzo di fiori da una bimba a Massawa. In entrambi gli scatti, il casco coloniale indossato dalla principessa è l’unico segno che ci consente di collocare geograficamente, almeno in modo generico, la scena. L’ultima immagine è una foto di gruppo di alcune infermiere della Croce rossa. L’inquadratura è stretta e non lascia apparire che i loro visi sorridenti. La didascalia ci informa che l’immagine è stata presa in Africa orientale ma aggiunge, tra parentesi, “Nave ospedale Gradisca”. L’ambientazione è sempre asettica: la patria o, comunque, uno spazio chiuso, protetto. Siamo ben lontani dalla potenza della natura e dagli ambienti pittoreschi comunemente utilizzati per evocare l’Africa. Qui, l’Africa è del tutto assente. Vi si legge, invece, perfettamente definito, un modello ricorrente della “donna italiana”: linda, dignitosa, dolce e controllata, interamente votata alla causa. In netto contrasto con le modalità di rappresentazione utilizzate per le donne africane. Stereotipo contro stereotipo. Peraltro, sia detto per inciso, il testo fornisce una rappresentazione completamente diversa della donna italiana, sottolineando il coraggio, anche fisico e guerresco, delle eroine della storia, dalla virgiliana Camilla alle patriote risorgimentali.
Fin dall’avvio dell’esperienza in terra africana viene, dunque, fissato un modello di rappresentazione delle donne italiane in colonia che, con scarsissime variabili, resterà valido durante tutti gli anni in esame, ribadito ancora nel già citato numero che “Africa italiana” dedica alle donne in colonia, ormai nel 1940.
Questo stesso modello si ritrova senza grandi variazioni anche nel fondo Ciro Poggiali, che pure include anche immagini più personali della sua esperienza in Africa orientale. La maggior parte delle fotografie rappresenta le donne italiane in un contesto ufficiale, durante delle manifestazioni pubbliche o delle serate mondane. [Foto http://www.archiviresistenza.it/?fondo=Poggiali&serie=A00_03061_0057] Sono pochissime e del tutto accidentali le immagini di donne che camminano per le strade della capitale etiope, inquadrate casualmente ai margini della fotografia concentrata sulla rappresentazione della città. [Foto
Infine, una serie di fotografie documenta una gita fuori porta a cui il giornalista ha partecipato con alcuni dei residenti italiani ad Addis Ababa. Della compagnia fanno parte delle giovani donne, sorridenti, eleganti e graziose, hanno l’aria di divertirsi e di essere completamente a loro agio. [Foto http://www.archiviresistenza.it/?fondo=Poggiali&serie=A00_03061_0052] Si tratta di donne dell’alta borghesia, dell’ambiente diplomatico e dirigenziale della colonia, che sembrano vivere l’esperienza come una vacanza, ricreando le medesime consuetudini della vita in Italia. Nonostante compaia, sullo sfondo, un panorama naturale, le donne sono al centro di un folto gruppo di conterranei, quasi una barriera che le isola dalla natura circostante. Si tratta, comunque, di un’Africa priva dei suoi abitanti. La segregazione fotografica tra donne bianche e uomini neri è totale. Non solo nelle immagini di Poggiali ma anche nelle immagini degli altri fondi privati citati e nelle fotografie pubblicate sui periodici. E’ forse il caso di parlare di vero e proprio tabù. Non solamente è inconcepibile pensare a delle relazioni tra donne italiane e uomini africani, pare persino disdicevole che essi condividano la medesima inquadratura. La fotografia, controllando la rappresentazione spaziale dei corpi e definendo la possibilità o meno della loro contiguità, partecipa di quella “spatial expression of race”
Nel fondo Poggiali vi sono solamente due immagini che applicano modelli parzialmente differenti. Una è l’immagine di una donna bionda, alta, in abiti molto semplici, si direbbe una contadina, in posa con il marito davanti a un edificio rurale. [Foto http://www.archiviresistenza.it/?fondo=Poggiali&serie=A00_03061_0053] L’altra è un’immagine di un accampamento di giornalisti nella savana. Tra di loro, seduta davanti a una tenda, una donna, in tenuta coloniale. Con ogni probabilità si tratta della giornalista francese Marie Edith de Bonneuil. [Foto http://www.archiviresistenza.it/?fondo=Poggiali&serie=A00_03061_0003] Evidentemente non si possono trarre delle conclusioni da un campione così ristretto, tuttavia la comparazione con le immagini pubblicate e con gli altri fondi citati ci autorizza almeno a riflettere sul fatto che, in entrambi i casi, si tratti di donne straniere. Del resto, abbiamo già avuto modo di osservare come la propaganda insistesse sulla peculiare femminilità non genericamente bianca o europea ma specificamente “italiana”.
La questione dell’arrivo in colonia di prostitute è un altro interessante indicatore di questa ulteriore discriminazione. Se la loro presenza è considerata necessaria per limitare i contatti con le donne locali, essa al tempo stesso rischia di sminuire l’immagine della donna italiana agli occhi dei colonizzati. Il primo espediente a cui si cerca di ricorrere è quello dell’”importazione” di prostitute straniere. Poggiali, nel suo diario, racconta la storia di un gruppo di prostitute francesi inviate nell’Etiopia italiana. Il gruppo è bloccato a Gibuti dalle autorità francesi e rinviato in Francia per evitare che nuoccia all’immagine nazionale all’estero. Poggiali è scandalizzato da questa reazione, che pure è esattamente parallela a quella italiana, tanto da commentare: “La Francia che pure, per vecchia tradizione, riforniva delle sue etere tutti i lupanari del mondo, senza farsene alcuno scrupolo, ma anzi disciplinando quella materia come qualsiasi altra materia mercantile di alto reddito, volle fare la schizzinosa nei confronti dell’Italia e della sua nuova colonia.”[19] Vi si legge, senza dubbio l’eco delle polemiche sulle sanzioni imposte all’Italia ma anche la tendenza a distinguere tra “le nostre donne” e “le donne degli altri”. Le contingenze, tuttavia, possono cambiare e, il giornalista racconta il seguito della vicenda: “Si attese che una vita discretamente normale si fosse organizzata nei centri maggiori dell’Impero, che la femminilità italiana vi avesse già fatto prestigiosa comparsa nelle sue forme elette ed oneste, perché anche l’altra femminilità, meno edificante ma che rappresentava una ineluttabile necessità, vi figurasse alla sua volta.”[20] In ogni caso, non mi risulta che rimanga una traccia fotografica dell’arrivo e dell’attività di queste donne italiane in colonia.
Di fronte a questa scarsissima rappresentazione delle donne bianche in colonia, assistiamo, invece, a una fortissima esposizione delle donne africane. Lo squilibrio è del tutto evidente nelle immagini pubblicate ma la situazione non cambia nelle immagini dei fondi privati dei militari che abbiamo indicato. Anche esaminando il fondo Poggiali, la situazione è solo leggermente più bilanciata. Sul totale delle 476 immagini conservate nel suo fondo sull’Aoi, solamente il 14% presenta dei soggetti femminili; la percentuale si riduce drasticamente se consideriamo le donne bianche di origine europea che compaiono solamente in nove fotografie, cioè l’1,8% del totale.
Nonostante l’abbondante presenza di immagini di donne africane, tuttavia, i modelli rimangono limitati, facilmente individuabili e ricorrenti. Si possono far rientrare, sostanzialmente, in due tipologie: l’immagine pornografica e l’immagine etnografica. Le immagini sessualmente esplicite di donne nere, che si possono collocare all’incrocio tra i due stereotipi della “Venere nera” e dell’immaginario orientalista, sono largamente diffuse in epoca coloniale; si ritrovano praticamente in tutti i fondi personali. Conseguenza anche della produzione di vere e proprie serie di cartoline che vengono distribuite tra i soldati in partenza per la guerra. [Foto http://www.archiviresistenza.it/?fondo=Poggiali&serie=A00_03061_0080 e le seguenti appartenenti alla medesima serie] Immagini pornografiche espressamente prodotte e diffuse attraverso un canale pubblico. Queste immagini contribuiscono a diffondere l’idea di una terra popolata da donne bellissime e disponibili, pronte ad essere possedute dal virile uomo italiano.[21] Vengono sfruttate come allettamento alla conquista per giovani uomini abituati alla rigida morale dell’Italia dei primi decenni del novecento e finiscono per innescare una serie di reazioni a catena. Anzi tutto, creano un clima in cui la violenza e l’aggressività dell’uomo bianco verso la donna nera sono considerati del tutto accettabili. Nei fondi privati non mancano immagini di militari in pose ammiccanti o sessualmente aggressive accanto a donne etiopi chiaramente terrorizzate. La riduzione delle donne africane a corpi disponibili per il conquistatore italiano è costruita su uno squilibrio di potere in cui razza, genere e classe creano un intreccio dal quale è estremamente difficile liberarsi.
In secondo luogo, la larghissima circolazione di questo materiale crea un contesto comunicativo fortemente erotizzato, all’interno del quale vengono lette anche immagini femminili più neutre, come i ritratti di stampo etnografico.
La creazione di un immaginario così sessualmente caratterizzato ha una forte presa tanto da persistere anche quando la propaganda, preoccupata dal proliferare di relazioni tra italiani e donne nere e dalla questione del meticciato, spinge verso un cambio di rotta. “Faccetta nera” viene messa al bando e l’invito è a descrivere gli aspetti meno attraenti delle donne dei paesi conquistati. Se la nuova linea viene applicata negli scritti del periodo, le immagini presentate sui rotocalchi continuano ad enfatizzare la bellezza dei corpi femminili africani[22]
[Foto 8] “Illustrazione italiana”, 18 maggio 1941, p. 749.
[Foto 8] e non c’è motivo di ritenere che la circolazione delle cartoline pornografiche, ormai ampiamente diffuse in colonia e nella madrepatria, sia cessata. Le conseguenze sono di lungo periodo e risultano nella costruzione, nel corso di un periodo che travalica quello del colonialismo fascista, di modelli fortemente imbevuti di razzismo e ideologia patriarcale rivelatisi estremamente tenaci e duraturi.
Se infatti è ben noto come la guerra crei una situazione particolarmente difficile per le donne, instaurando un clima di violenza e di sopraffazione e spezzando i tradizionali vincoli familiari e sociali che funzionano anche da rete protettiva per i soggetti più deboli, bisogna, tuttavia, rilevare come la spiccata erotizzazione delle donne africane non sia venuta meno con il passare del tempo e il ritorno alla pace. Anzi, essa si dimostra uno degli stereotipi più aggressivi e persistenti. Cito, ad esempio, almeno i titoli di due articoli comparsi rispettivamente su “Tempo” e “L’Europeo” negli anni settanta. In un reportage in più puntate intitolato Etiopia – Trentacinque anni dopo, un articolo su Le donne dell’impero ha come occhiello: La donna etiopica è chiamata, con pieno diritto, la svedese d’Africa: evoluta e disinvolta, prende l’iniziativa anche in campo sentimentale[23]; e Viaggio nell’Africa sconosciuta. Tutto il potere alle donne. I costumi matriarcali dell’Alta Etiopia hanno anticipato di cinque secoli il movimento di emancipazione femminile: matrimoni senza obbligo di fedeltà sessuale, libero aborto, divorzio”[24]. Titolo, quest’ultimo, sia detto per inciso, che è assai interessante anche per il modo in cui un periodico come “L’Europeo” riassume gli obiettivi del movimento di emancipazione femminile. Ma anche le immagini pubblicitarie continuano ad essere veicolo dei più triti stereotipi razzisti.[25] Si tratta, insomma, di una rappresentazione che ha radici molto antiche nel tempo[26] e che, attraverso le narrazioni degli esploratori e degli antropologi ottocenteschi prima e quelle delle vicende coloniali liberali e fascista poi, è arrivata sino a noi.
In conclusione, nonostante tutte le distinzioni che abbiamo esposto, è facile leggere nelle fotografie che documentano la presenza femminile nelle colonie africane dell’Italia una rappresentazione stereotipa, tanto delle donne europee, con una ulteriore specificità per quanto riguarda le donne italiane, che delle donne africane. Questa modalità di raffigurazione pare effettiva tanto nelle immagini pubbliche e destinate a una larga diffusione che nelle immagini private che tendono a raccogliere e fare propri i codici narrativi più diffusi. Esito della propaganda fascista che ha, però, buon gioco nell’insistere su modelli già proposti in epoca liberale. L’intreccio fra sessismo, razzismo e classismo che sta alla base di questi stereotipi li rende, però, difficili da decostruire ed è alla radice di una loro frequente riproposizione, solo leggermente ammorbidita nei toni, per così dire, anche in tempi recenti.
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Monica Di Barbora
Documentalista specializzata nella gestione di archivi fotografici storici e ricercatrice. Ha lavorato presso diversi enti di conservazione e istituti di storia contemporanea. Ha pubblicato saggi e articoli, in particolare sui rapporti tra fotografia e storia e nell’ambito della Storia delle donne e di genere.
[1] Adolfo Mignemi, Lo sguardo e l’immagine. La fotografia come documento storico, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 24.
[2] John Berger, Ways of seeing, London, Penguin, 1972; Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, in “Screen”, vol. 13, n. 6, autunno 1975, pp. 6-18; Griselda Pollock, Vision and Difference, New York, Routledge, 1988.
[3] Alessandra Gribaldo, Giovanna Zapperi, Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità, Verona, ombe corte, 2012; Vincenza Perilli, «Sexe» et «race» dans les féminismes italiens, in “Les cahiers du CEDREF”, 14, 2006, mis en ligne le 03 décembre 2009, http://cedref.revues.org/420, consultato il 9 novembre 2012.
[4] Tra le prime studiose ad occuparsi della rappresentazione fotografica delle colonie africane, Silvana Palma, della quale si veda, ad esempio, Fotografia di una colonia: l’Eritrea di Luigi Naretti (1885-1910), “Quaderni storici”, 37 (1), 2002, pp. 83-147; utile per avere un’idea dei temi al centro del dibattito, con una particolare attenzione alla letteratura di ambito anglosassone, anche Elisabetta Bini Fonti fotografiche e storia delle donne: la rappresentazione delle donne nere nelle fotografie coloniali italiane, relazione presentata al Convegno SISSCO Cantieri di Storia II, Lecce, settembre 2003. Ha studiato la rappresentazione fotografica delle colonie africane dell’Italia anche Alessandro Triulzi, del quale citiamo Fotografia coloniale e storia dell’Africa, “AFT”, IV, n. 8, 1988; L’Africa come icona. Rappresentazioni dell’alterità nell’immaginario coloniale italiano di fine Ottocento, in Adua. Le ragioni di una sconfitta, a cura di Angelo Del Boca, Roma Bari, Laterza, 1997, pp. 255-281; La costruzione dell’immagine dell’Africa e degli africani, in Alberto Burgio, Nel nome della razza, Bologna, il Mulino, 1999; Triulzi ha curato anche il volume collettaneo Fotografia e storia dell’Africa, che raccoglie gli atti del convegno internazionale Napoli, Roma 9-11 settembre 1992, Napoli, Istituto universitario orientale, 1995. Di quest’ultimo volume fa parte anche il saggio Considerazioni generali sulla fotografia privata coloniale italiana, di Luigi Goglia che dell’immaginario coloniale si è occupato anche in Nota sulla cartolina fotografica coloniale italiana, in “Rivista di storia e critica della fotografia”, n. 5, 1983, pp. 8-12; Le cartoline illustrate italiane della guerra etiopica 1935-36: il negro nemico selvaggio e il trionfo della civiltà di Roma, in Centro Furio Jesi, La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, Bologna, Grafis, 1994; Africa, colonialismo, fotografia: il caso italiano (1885-1940), in Fonti e problemi della politica coloniale italiana. Atti del convegno, Taormina, Messina, 23-29 ottobre 1989, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1996, pp. 805-904 e con la curatela del volume, Colonialismo e fotografia: il caso italiano, catalogo della mostra organizzata a Messina dal 25 ottobre all’11 novembre 1989, Messina, Sicania, 1989.
Notevole impulso al rinnovamento degli studi sulle colonie africane hanno dato gli studi di genere e post-coloniali. Si pensi in particolare ai lavori sulle narrazioni autobiografiche e il postcolonialismo condotti da Sandra Ponzanesi oltre ai recenti testi di Giulietta Stefani, Generi coloniali. Maschile e femminile al servizio del colonialismo, in “Zapruder”, n. 5, settembre 2004, pp. 6-17; Colonia per maschi. Italiani in Africa orientale: una storia di genere, Verona, Ombre Corte, 2007 e di Nicoletta Poidimani, “Faccetta nera”: i crimini sessuali del colonialismo fascista nel Corno d’Africa, intervento presentato al convegno “Il mito del buon italiano tra repressione del ribellismo e guerra ai civili”, organizzato dalla Fondazione Isec, 20-21 gennaio 2005, Sesto S. Giovanni, consultabile in rete all’indirizzo, http://www.nicolettapoidimani.it/docs/faccettanera.pdf, (consultato il 27.06.2011) e Difendere la razza. Identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini, Roma, sensibili alle foglie, 2009.
Un’utile rassegna degli studi sul colonialismo italiano anche quella di Roberta Pergher, Impero immaginato, impero vissuto. Recenti sviluppi nella storiografia del colonialismo italiano, “Ricerche di Storia Politica”, 1, 2007, pp. 53-66.
La lista si allungherebbe a dismisura includendo gli studi relativi ad altri contesti coloniali ma citiamo almeno, per la loro rilevanza e per l’approccio utilizzato, Christelle Taraud, Mauresques. Femmes orientales dans la photographie coloniale 1860-1910, Paris, Albin Michel, 2003; id., Donne indigene sulle staffe: discorso igienista e violenza fotografica nel Marocco coloniale degli anni trenta, “Memoria e ricerca”, n. 20, settembre-dicembre, 2005, pp. 39-56; Anne McClintock, Imperial Leather: Race, gender and sexuality in the colonial context, New York, London, Routledge, 1995; Ann Laura Stoler, Carnal Knowledge and Imperial Power: Gender, Race and Morality in Colonial Asia, in Gender at the Crossroads of Knowledge: Feminist Anthropology in the Postmodern Era, a cura di Micaela di Leonardo, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1991, pp. 51-101.
, consultato il 12.11.2012. Purtroppo la selezione presentata online è molto ristretta e non carente da qualche debolezza metodologica, tuttavia il progetto è particolarmente lodevole per il grande sforzo di emersione di documentazione “privata” sull’Africa orientale italiana e per la collaborazione costante con gli studiosi etiopi in vista della costruzione di una memoria costruita sul confronto e la molteplicità dei punti di vista. Altri fondi di personale militare sono stati riprodotti dall’Istituto storica della resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola. Si tratta, in particolare, dei fondi Salvatore Barra, Annibale Saccoman, Antonio Mattachini, Mario Gigante, Edoardo (Dino) Colombara, Giuseppe Mazzini, Silvio Silvestri, Mario Garavaglia, Annibale Moroni, Giovanni Piana; le relative schede di catalogo sono consultabili all’indirizzo http://beniculturali.ilc.cnr.it
Per un’introduzione e un inquadramento a questi materiali, ancora utile anche per una riflessione sulla costruzione dell’immaginario coloniale fascista, si veda Adolfo Mignemi, a cura di,
[6] Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2005, p. 298.
[7] La sensazione è che i margini di manovra per la pubblicazione di immagini nei periodici illustrati non direttamente controllati dal governo siano piuttosto ampi, almeno per quanto riguarda alcuni soggetti tra cui, appunto, la rappresentazione delle donne.
Il fondo di Poggiali, inviato dal “Corriere della Sera” in Africa orientale italiana immediatamente dopo la proclamazione dell’impero, incarna già quella commistione tra sguardo privato e pubblico di cui si diceva. Una parte consistente della documentazione fotografica da lui prodotta o raccolta, esclusivamente relativa all’esperienza africana, è conservata presso l’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia; le schede di catalogo del fondo si possono consultare all’indirizzo http://beniculturali.ilc.cnr.it:8080/Isis/servlet/Isis?Conf=/usr/local/IsisGas/FotoConf/Foto.sys6.file&Obj=@InsmliBx.pft&Opt=search&Field0=!P=POGGIALI+CIRO! , consultato il 12.11.2012.
Un altro gruppo delle sue stampe fotografiche, con annotazioni autografe manoscritte sul verso, fa invece tutt’ora parte dei materiali di lavoro del Centro di documentazione del quotidiano.
[9] Si tratta, in particolare, di “Africa italiana”, “La Domenica del Corriere”, “L’Illustrazione coloniale”, “Illustrazione italiana” e “Rivista illustrata del Popolo d’Italia”.
[10] Fra il 1935 e il 1938 la rubrica assume il nome, di volta in volta, di: “Nelle terre conquistate”, “Coi nostri soldati nelle terre conquistate (Dalle fotografie del pubblico)”, “Nelle terre conquistate (Altre fotografie di lettori)”, “Coi nostri soldati in Eritrea e in Somalia”, “Coi nostri soldati nell’Africa Orientale (Dalle fotografie dei lettori)”, “Coi nostri soldati in A. O. (Dalle fotografie dei lettori)”, “Coi nostri soldati nelle terre conquistate”, “Coi nostri soldati in Etiopia” (Dalle fotografie dei lettori)”. Anche nella rubrica “Il pubblico che fotografa”, non riservata specificamente alle immagini dell’Africa, compaiono frequentemente fotografie ascrivibili a questo ambito.
[11] Del resto queste vengono spesso scattate, come testimonia anche la corrispondenza di Poggiali, dagli stessi giornalisti, privi di una specifica formazione in ambito fotografico. In generale, comunque, sono pochissime le fotografie firmate sui giornali considerati.
Si veda, come ulteriore esempio, questa immagine del “Fondo Pier Luigi Remaggi” http://www.memoriecoloniali.org/kcms/KWeb/Viewer.aspx?pkentity=bcd3b1c69e674bb8be83c055c9a26a90&fondo=80f66969e5e2499a96c87b97b4486abb#!prettyPhoto[gallery2]/30/
[13] Al riguardo si veda una delle prime analisi, tuttora valida: Gabriella Campassi, Maria Teresa Sega, Uomo bianco, donna nera: l’immagine della donna nella fotografia coloniale, “Rivista di storia e critica della fotografia”, n. 5, 1983, pp. 54-62.
[14] “La Domenica del Corriere”, 14 giugno 1936, p. 3.
[15] “Africa italiana. Pubblicazione mensile dell’Istituto Fascista dell’Africa Italiana”, a. III, n. 2-3, febbraio-marzo 1940.
[16] Si veda, a solo titolo di esempio, e per restare all’interno del contesto di cui ci stiamo occupando, D. Lombardo che, in Donne per l’impero coloniale italiano, in “Illustrazione coloniale”, 9 settembre 1939, p. 46, commenta: “Né si misurerà l’Italiana d’Etiopia, con la sciarmutta che passa cantando in artefatta letizia, col rosso sulle labbra, all’europea, ondeggiando il corpo sinuoso in un nembo di veli, olezzando di piccanti profumerie, sotto il sole sgargiante di trine magari preziose… […] Ella è donna, invece, e Italiana, che più conta”; corsivo mio.
[17] Robin Pickering-Iazzi scrive che i campi coloniali “[staged] occasions for women’s incorporation into gendered colonial identities and national fantasies of the fascist empire”, producendo esclusivamente una “vicarious experience” dell’effettiva esperienza di emigrazione; Robin Pickering-Iazzi, Structures of Feminine Fantasies and Italian Empire Building, 1930-1940, in “Italica. Journal of the American association of teachers of Italian”, a. LXXVII, n. 3, 2000, p. 409.
[18] Joshua Inwood, Righting Unrightable Wrongs: Legacies of Racial Violence and the Greensboro Truth and Reconciliation Commission”, in “Annals of the Association of American Geographers”, 102, 6, 2012, p. 1453.
[19] Ciro Poggiali, Albori dell’impero, Milano, Fratelli Treves, 1938, p. 525.
[20] Ibid., corsivo mio.
[21] In parallelo, la pubblicistica costruisce un’immagine dell’uomo africano come poco virile e scarsamente interessato all’aspetto erotico dell’esistenza.
[22] Si veda, ad esempio, l’immagine di due “donne watussi” di cui la didascalia sottolinea la “perfezione del corpo”, apparsa su l’“Illustrazione italiana” del 18 maggio 1941, p. 749, significativa anche perché indica come fondamentale canone di bellezza la snellezza, a dispetto della coeva propaganda contro la donna crisi.
[23] Le donne dell’impero, in “Tempo”, 7 marzo 1970, pp. 57-59.
[24] Carlo Matteotti, Tutto il potere alle donne, in “L’Europeo”, 09 maggio 1974, p. 70.
Per una riflessione e qualche esempio, si veda l’interessante blog di Sonia Sabelli, http://sonia.noblogs.org/?p=1106.
[26] “Ipsa quippe nigredinis deformitas occultum potius quam manifestum, et secretum magis quam publicum amat. Et quae talis est uxor, secreta potius viri gaudia quam manifesta desiderat, et in lecto magis vult sentiri quam in mensa videri. Et frequenter accidit, ut nigrarum caro feminarum quanto est in aspectu deformior, tanto sit in tactu suavior; atque ideo earumi voluptas secretis gaudiis quam publicis gratior sit et convenientior, et earum viri ut illis oblectentur magis eas in cubiculum introducunt quam ad publicum educunt.”. E’ un passo delle quinta lettera di Abelardo che, nel 1134, scrive ad Eloisa citando l’episodio biblico della “spose etiope” di Mosé (Esodo 2, 21, Numeri 12, 1).