Le relazioni migratorie euromediterranee: una cronologia commentata (1945-1995)

Tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la fine della Guerra Fredda, l’area euro-mediterranea fu interessata da flussi migratori di intensità, consistenza, ampiezza e impatto economico, sociale, politico e culturale senza precedenti nella storia moderna. Sebbene la forma, la dinamica e la logica delle politiche immigratorie siano state diverse  da un paese di accoglienza all’altro e da un paese di invio all’altro, si possono tuttavia identificare tendenze comuni che permettono di suddividere il periodo preso in esame in tre fasi, caratterizzate da altrettanti orientamenti generali prevalenti:

 

[-] PRIMA FASE (1945-1973): politiche tese a facilitare o incoraggiare l’immigrazione di forza lavoro su vasta scala sul versante dei paesi di accoglienza – paesi dell’Europa centro-occidentale – e, in maniera complementare, politiche tese a facilitare o incoraggiare l’emigrazione di forza lavoro su vasta scala sul versante dei paesi di invio – paesi dell’Europa meridionale e, successivamente, Turchia e paesi dell’Africa settentrionale -; se si esclude il caso peculiare della libertà di circolazione dei lavoratori all’interno dell’area comunitaria, le relazioni si svilupparono su un piano essenzialmente bilaterale, attraverso accordi che miravano soprattutto a far corrispondere la domanda di forza lavoro nei paesi importatori di manodopera con l’offerta di forza lavoro nei paesi esportatori di manodopera.

 

[-] SECONDA FASE (1973-1985): ampliamento del fronte dei paesi di accoglienza – all’Europa centro-occidentale cominciò a aggiungersi, infatti, l’Europa meridionale – e cambiamento dei loro orientamenti, con l’introduzione di politiche miranti a bloccare ogni ulteriore immigrazione di forza lavoro proveniente da paesi non appartenenti alla Comunità Europea e, più tardi, programmi di incentivazione al rientro volontario in patria; parallelamente politiche di integrazione dei lavoratori migranti e delle loro famiglie nel tessuto sociale dei paesi di accoglienza. A questa svolta fece da contraltare il tentativo da parte dei paesi di invio – Turchia e paesi dell’Africa settentrionale – di diversificare le destinazioni della propria eccedenza di manodopera, di concordare e volgere a proprio vantaggio le politiche di rientro promosse dai paesi di accoglienza e, soprattutto, di negoziare migliori condizioni di vita e di lavoro per le proprie comunità di migranti; nel contesto di un formale blocco dell’immigrazione che rendeva impossibile negoziare volume, composizione e tempi dei flussi migratori, infatti, i paesi di invio rivolsero la propria attenzione al trattamento riservato ai propri connazionali nei paesi europei di accoglienza, sia stipulando accordi bilaterali sia, per la prima volta, introducendo l’argomento nei colloqui e negli accordi multilaterali che si svilupparono a livello euro-mediterraneo.

 

[-] TERZA FASE (1985-1995): rafforzamento e convergenza delle politiche immigratorie restrittive da parte dei paesi di accoglienza nel contesto di una crescente preoccupazione per i flussi di immigrati illegali e di richiedenti asilo e per un nuovo, temuto, arrivo in massa di immigrati dai paesi dell’Europa centro-orientale; oltre a diventare importante oggetto di cooperazione a livello comunitario, soprattutto nell’ambito degli accordi di Schengen, il tema dell’immigrazione e, in particolare, l’esigenza di un’azione di contrasto ai flussi di immigrazione illegale divenne argomento centrale negli accordi multilaterali condotti a livello euro-mediterraneo, incluso il cosiddetto processo di Barcellona.

 

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[-] PRIMA FASE (1945-1973)

 

1945-1961

A eccezione della Gran Bretagna – dopo i deludenti tentativi di integrare i polacchi che avevano prestato servizio nelle forze armate alleate e di assumere con contratti di durata annuale profughi e prigionieri di guerra originari di paesi europei, la Gran Bretagna fece ricorso alle tradizionali riserve di manodopera irlandese e, in virtù del principio della libera circolazione all’interno dell’impero e del Commonwealth, soprattutto agli immigrati provenienti sia dal vecchio sia dal nuovo Commonwealth, specialmente paesi caraibici, paesi del subcontinente indiano, paesi dell’Africa anglofona e paesi dell’Asia sud-orientale – e dell’Olanda – dopo aver visto un notevole afflusso di immigrati dalle ex colonie delle Indie Orientali (Indonesia), l’Olanda conobbe soprattutto un consistente arrivo di lavoratori dal territorio caraibico del Suriname -, tutti i principali paesi dell’Europa centro-occidentale, inclusi Belgio, Svizzera e, soprattutto, Francia e Repubblica Federale Tedesca guardarono ai paesi dell’Europa meridionale, specialmente all’Italia, come alla più importante, e più gradita, fonte di manodopera straniera.

Parallelamente a un prudente tentativo di trasformare prigionieri di guerra tedeschi in lavoratori liberi e, poi, di attrarre direttamente lavoratori tedeschi e, soprattutto, alla stipula di un accordo che conferiva la cittadinanza francese a tutti gli algerini, confermando il principio della libera circolazione tra Algeria e métropole, immediatamente dopo la fine della guerra, la Francia si attivò per il reclutamento di lavoratori dall’Europa meridionale, specialmente dall’Italia. La Repubblica Federale Tedesca, viceversa, si mosse in questa direzione solo molto più tardi, tra la metà e la fine degli anni Cinquanta; per più di un decennio, infatti, i tedeschi rifugiati o espulsi dall’Europa centrale e orientale dopo la fine della guerra e i tedeschi provenienti dalla Repubblica Democratica Tedesca dopo la divisione della Germania furono sufficienti a garantire i supplementari quantitativi di manodopera richiesti dal proprio sistema produttivo.

La Francia, inoltre, considerava l’immigrazione non solo come una risposta alle proprie esigenze economiche ma anche come una componente importante delle proprie responsabilità coloniali e post-coloniali e come una soluzione alle proprie carenze demografiche. La Repubblica Federale Tedesca, viceversa, considerava l’immigrazione come uno strumento puramente economico; non essendo condizionata né dalle preoccupazioni di politica estera né dalle considerazioni di tipo demografico che pesavano sul vicino occidentale, la Repubblica Federale Tedesca dette meno importanza, rispetto alla Francia, alla selezione di un’immigrazione più idonea all’adattamento e all’assimilazione culturale e, soprattutto, dette meno o nessuna importanza alle politiche di stabilizzazione e integrazione, optando invece per un sistema di Gastarbeiter (lavoratori ospiti) che prevedeva una continua rotazione di lavoratori in funzione del mantenimento di un equilibrio tra offerta e domanda nel mercato del lavoro.

 

1946

La Francia firmò con l’Italia una serie di accordi destinati a facilitare l’immigrazione di manodopera italiana, assicurando così un certo grado di controllo statale sulla direzione dei flussi e sulla distribuzione settoriale e geografica dei lavoratori; l’immigrazione italiana e, più in generale, europea appariva più adatta rispetto all’immigrazione magrebina a essere integrata nella società francese.

 

1947

La Francia firmò una convenzione con gli Alleati, che contemplava la possibilità di trasformare prigionieri di guerra tedeschi in lavoratori liberi.

La Francia ridefinì lo status dell’Algeria come colonia con lo Statut organique de l’Algérie, che conferiva la cittadinanza francese a tutti gli algerini e confermava il principio del libero movimento tra Algeria e métropole.

 

1950

Deluso dalla scarsa affluenza di lavoratori italiani, la Francia cercò un nuovo accordo con la Repubblica Federale Tedesca che comprendeva la costituzione di una missione dell’Office National d’Immigration – agenzia creata tra il 1946 e il 1947 con il compito di organizzare e facilitare l’immigrazione su vasta scala in territorio francese – in territorio tedesco.

 

1951

La Francia firmò con l’Italia un nuovo accordo destinato a facilitare l’immigrazione di manodopera italiana; nel frattempo l’Italia aveva firmato accordi bilaterali con tutti i principali paesi europei di immigrazione, inclusi Belgio (1946), Cecoslovacchia, Svezia e Gran Bretagna (1947), e Svizzera, Olanda e Lussemburgo (1948), oltre che con importanti paesi di immigrazione extraeuropei come Argentina, Brasile, Uruguay, Australia e Canada.

 

1954

La Francia firmò con la Grecia un accordo destinato a facilitare l’immigrazione di manodopera greca.

 

1955

La Repubblica Federale Tedesca firmò con l’Italia un accordo destinato a facilitare l’immigrazione di manodopera italiana.

 

1960

La Repubblica Federale Tedesca firmò con la Grecia e la Spagna accordi destinati, rispettivamente, a facilitare l’immigrazione di manodopera greca e spagnola.

 

1961-1973

Alla declinante immigrazione italiana, i principali paesi di immigrazione, in particolare Francia e Repubblica Federale Tedesca, risposero con la firma di accordi bilaterali con paesi mediterranei extraeuropei, oltre che con Portogallo e Jugoslavia. Sebbene permanesse un consenso generale, sia nei paesi di accoglienza, sia nei paesi di invio, sulla reciproca utilità dei processi migratori, l’aumento dei tassi di immigrazione, la diversificazione delle fonti di provenienza e la crescente perdita di controllo governativo sui canali di ingresso contribuì a un graduale cambiamento nella percezione sociale del fenomeno e a una sua crescente politicizzazione. In particolare, mentre in Francia il cambiamento si associò a un minore grado di assimilabilità delle nuove comunità di migranti e a una maggiore resistenza sociale e culturale all’arrivo di nuovi flussi, nella Repubblica Federale Tedesca questi fenomeni, in particolare la diversa provenienza dei migranti, contribuì a mettere definitivamente in crisi il sistema dei Gastarbeiter, già messo in discussione dal mondo degli affari e dell’industria, favorevole a una maggiore continuità di impiego per la forza lavoro qualificata. Come dimostrò la breve recessione avvenuta nella Repubblica Federale Tedesca nella seconda metà degli anni Sessanta (1967), infatti, un numero di stranieri molto inferiore alle attese, soprattutto di provenienza turca e magrebina, fece ritorno al proprio paese di origine, malgrado l’alto tasso di disoccupazione esistente all’interno di queste comunità di immigrati; divenne chiaro, in questo modo, che la decisione dei migranti di restare o di tornare dipendeva dalle percezioni delle condizioni presenti nel paese di origine non meno che dalle condizioni esistenti nel paese di accoglienza e che il paese di accoglienza, di conseguenza, poteva avere strumenti solo molto limitati per gestire e regolare la presenza di immigrati sul proprio territorio.

Nello stesso periodo, l’emigrazione italiana, principale componente dei flussi migratori euro-mediterranei durante il primo ventennio del secondo dopoguerra, cambiò intensità e natura. In primo luogo, come conseguenza del miracolo economico italiano, i rientri cominciarono gradualmente a superare le partenze. In secondo luogo, come conseguenza dell’abolizione formale delle barriere alla libertà di movimento e stabilimento dei lavoratori all’interno dell’area comunitaria, tutti gli accordi bilaterali in materia di migrazione stipulati dall’Italia con paesi membri della Comunità Europea divennero obsoleti e la successiva, residua, emigrazione italiana nell’Europa centro-occidentale potette svilupparsi secondo i principi della libera circolazione dei lavoratori.

 

1961

La costruzione del muro di Berlino portò a una netta diminuzione dei flussi di migranti dalla Repubblica Democratica Tedesca alla Repubblica Federale Tedesca; si calcola che, con la costruzione del muro, le emigrazioni passarono da 2,5 milioni (1949-1961) a 5 mila (1962-1989). La costruzione del muro di Berlino e la conseguente perdita di accesso alla forza lavoro di provenienza tedesco-orientale rafforzò la spinta verso il reclutamento di manodopera su larga scala, soprattutto extraeuropea, da parte della Repubblica Federale Tedesca.

 

La Repubblica Federale Tedesca firmò con la Turchia un accordo destinato a facilitare l’immigrazione di manodopera turca. Successivamente, la Turchia firmò accordi bilaterali anche con l’Austria, il Belgio e l’Olanda (1964) e la Svezia (1967), oltre che con la Francia (1965).

 

1962

Gli accordi di Evian stipulati tra Francia e Algeria a conclusione della guerra di indipendenza algerina (1954-1962) garantivano libertà di movimento tra i due paesi; successivamente, però, vennero firmati una convenzione, il cosiddetto «accordo Nekhache-Grandval» (1964), mirante a limitare l’immigrazione algerina in funzione delle esigenze del mercato del lavoro dei due paesi e due ulteriori accordi bilaterali (1968; 1971) miranti a ridurre l’immigrazione algerina a prestabilite quote annue. Successivamente, l’Algeria firmò accordi bilaterali anche con il Belgio (1970) e la Repubblica Democratica Tedesca (1974).

 

1963

La Repubblica Federale Tedesca firmò con il Marocco un accordo destinato a facilitare l’immigrazione di manodopera marocchina. Successivamente, il Marocco firmò accordi bilaterali anche con il Belgio (1963) e l’Olanda (1969), oltre che con la Francia (1963).

 

La Francia firmò con Marocco, Portogallo e Tunisia – l’accordo italo-tunisino, in realtà entrò in vigore solo sei anni dopo (1969) – accordi destinati, rispettivamente, a facilitare l’immigrazione di manodopera marocchina, portoghese e tunisina. Successivamente, la Tunisia firmò accordi bilaterali anche con il Belgio (1969), l’Austria (1970) e l’Olanda (1971), oltre che con la Repubblica Federale Tedesca (1965).

 

La Comunità Economica Europea firmò con la Turchia un accordo di associazione che prevedeva misure graduali verso la libertà di movimento tra il territorio turco e l’area comunitaria da raggiungersi entro il 1986 – questa regolamentazione, però, non entrò in vigore entro la scadenza prevista.

 

1964

La Repubblica Federale Tedesca firmò con il Portogallo un accordo destinato a facilitare l’immigrazione di manodopera portoghese.

 

1965

La Repubblica Federale Tedesca firmò con la Tunisia un accordo destinato a facilitare l’immigrazione di manodopera tunisina.

La Francia firmò con la Jugoslavia e la Turchia accordi destinati, rispettivamente, a facilitare l’immigrazione di manodopera jugoslava e turca.

 

1968

La Repubblica Federale Tedesca firmò con la Jugoslavia un accordo destinato a facilitare l’immigrazione di manodopera jugoslava.

A distanza di dieci anni dall’entrata in vigore del Trattato che istituiva la Comunità Economica Europea, venne adottato il regolamento relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità in base al quale tutti i lavoratori di un paese membro della Comunità erano liberi di trasferirsi e lavorare in un altro paese della Comunità alle stesse condizioni e con gli stessi diritti dei lavoratori originari del paese di accoglienza.

 

1971-1972

La Repubblica Federale Tedesca firmò con la Turchia una serie di nuovi accordi destinati a facilitare l’immigrazione di manodopera turca.

 

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[-] SECONDA FASE (1973-1985)

 

1973-1975

La crescente resistenza sociale al fenomeno migratorio maturata durante gli anni Sessanta come reazione alla diversificazione della composizione etnica e culturale dei flussi migratori, e le diffidenze emerse nel mondo dell’industria come conseguenza del protagonismo dei lavoratori stranieri, soprattutto magrebini in Francia e turchi nella Repubblica Federale Tedesca, durante le proteste sociali della fine degli anni Sessanta, si combinarono con gli effetti psicologici e socioeconomici indotti dalla prima crisi petrolifera. In particolare, con la crescita dei sentimenti anti-arabi e, soprattutto, con il sopraggiungere della recessione economica legati alla crisi petrolifera, tutti i principali paesi europei di immigrazione, inclusi Svizzera, Austria, Svezia, Norvegia, Danimarca, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Lussemburgo e, soprattutto, Francia e Repubblica Federale Tedesca introdussero, uno a uno, misure volte a chiudere le porte a ogni ulteriore afflusso di lavoratori provenienti da territori esterni ai propri confini nazionali e/o ai confini dei propri raggruppamenti economici regionali. Contemporaneamente, tutti i principali paesi europei di immigrazione, inclusi i paesi che, come la Repubblica Federale Tedesca, si erano rifiutati di considerarsi paesi di immigrazione, riorientarono la propria politica migratoria verso l’integrazione degli immigrati presenti sul proprio territorio; nell’intento di raggiungere l’integrazione degli stranieri, e in conformità con gli strumenti giuridici internazionali in materia di diritti umani, il blocco dell’immigrazione generalmente non si estese ai familiari di immigrati già residenti nei paesi di accoglienza.

In questo mutato contesto, i paesi mediterranei di emigrazione, soprattutto l’Algeria, si rivolsero a strategie di sviluppo nazionale per sostituire l’esportazione di forza lavoro o, come nel caso di Tunisia, Marocco, Portogallo, Jugoslavia e, soprattutto, Turchia, mirarono a ridirigere i flussi migratori verso nuove destinazioni; queste includevano i paesi arabi esportatori di petrolio e, più gradualmente e più spontaneamente, i nuovi paesi di immigrazione dell’Europa meridionale come Italia e, più tardi, Spagna. Sebbene i paesi produttori di petrolio dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente non abbiano rappresentato per nessuno dei paesi mediterranei di invio un mercato sostitutivo per la forza lavoro precedentemente diretta verso l’Europa centro-occidentale, i flussi migratori dalla Tunisia, dalla Turchia e dalla Jugoslavia verso la Libia e dalla Turchia e dal Marocco verso i paesi del Golfo Persico, specialmente l’Arabia Saudita, furono consistenti.

 

1973

In seguito a un’esplosione di tensione razziale a Marsiglia, diretta principalmente contro gli immigrati algerini, l’Algeria annunciò la propria intenzione di sospendere ogni ulteriore emigrazione verso la Francia; se la ragione ufficiale addotta dal governo algerino per sospendere l’emigrazione fu l’incapacità del governo francese di proteggere gli algerini da attacchi razzisti, la vera motivazione fu la volontà di recidere tutti i più ovvi legami con il proprio passato coloniale in vista del vertice di Algeri del Movimento dei Paesi Non Allineati (1973), in una condizione in cui, complice la nazionalizzazione dell’industria petrolifera (1971), l’Algeria non era più così dipendente dalle rimesse derivanti dall’esportazione di forza lavoro e si sentiva in una posizione migliore per creare posti di lavoro sul territorio nazionale.

La crisi petrolifera, dovuta all’improvvisa interruzione della fornitura di petrolio e all’innalzamento dei prezzi del petrolio stesso da parte dei paesi esportatori, determinò un aumento dei sentimenti anti-arabi e, soprattutto, una crisi socio-economica che ridusse la domanda di lavoro nei paesi europei di immigrazione; questa riduzione, a sua volta, determinò una minore convenienza economica e una maggiore resistenza politico-sociale verso nuovi flussi di immigrazione.

Anticipata dalla decisione di limitare l’ingresso a quei lavoratori che erano passati al vaglio delle commissioni tedesche stanziate nei paesi di invio, nella Repubblica Federale Tedesca venne presa la decisione di sospendere l’immigrazione di nuovi lavoratori provenienti da paesi non appartenenti alla Comunità Europea.

 

1974

Anticipata da una serie di circolari che richiedevano restrizioni sulla regolarizzazione degli immigrati illegali (1972-1973), in Francia venne emanata una circolare che sospendeva l’immigrazione di nuovi lavoratori provenienti da paesi non appartenenti alla Comunità Europea.

 

1975-1985

Dopo aver deciso il blocco del reclutamento di nuovi lavoratori stranieri provenienti da paesi non appartenenti alla Comunità Europea, i principali paesi europei di immigrazione, nel tentativo di trovare soluzioni a quello che veniva ormai apertamente definito il «problema dell’immigrazione», cominciarono a guardare oltre il semplice controllo dell’immigrazione, comunque rafforzato, soprattutto nei confronti dell’immigrazione illegale, e si dimostrarono sempre più interessati a incoraggiare esplicitamente la migrazione di ritorno. Se la decisione di sospendere il reclutamento dei lavoratori stranieri all’inizio degli anni Settanta era stata assunta dai paesi di accoglienza senza consultazione e, soprattutto, senza condivisione con i paesi di invio – con la rilevante eccezione dell’Algeria che, invece, era stata in grado di imporre un congelamento unilaterale di ogni ulteriore emigrazione di forza lavoro prima che la Francia introducesse restrizioni sull’immigrazione -, le politiche di promozione della migrazione di ritorno, adottate dai tradizionali paesi europei di immigrazione alla fine degli anni Settanta, si svilupparono spesso in cooperazione con le parallele politiche adottate dai paesi di emigrazione della sponda meridionale del Mediterraneo; mentre i paesi di accoglienza, soprattutto Francia e Repubblica Federale Tedesca, erano interessati a promuovere la migrazione di ritorno per alleviare le tensioni economiche, sociali e politiche che le comunità migranti stavano creando nei propri territori, i principali paesi di invio, inclusi Turchia, Tunisia, Algeria e, soprattutto, Jugoslavia, avevano interesse a promuovere la migrazione di ritorno per reinserire gli emigranti più qualificati e più intraprendenti nei propri sistemi produttivi.

Contemporaneamente, il tema delle migrazioni entrò, per la prima volta, nei colloqui e negli accordi di cooperazione che si svilupparono a livello euro-mediterraneo; poiché, dopo l’inizio degli anni Settanta, i paesi di invio non si trovavano più nella posizione di poter negoziare i trasferimenti di forza lavoro con gli stati di accoglienza europei, essi spostarono la propria attenzione sui problemi della migrazione di ritorno e dello status e del trattamento dei migranti e delle loro famiglie nei paesi di accoglienza.

 

1975-1976

Nel contesto del Dialogo Euro-Arabo, un’iniziativa di confronto e cooperazione tra Comunità Europea e Lega Araba lanciata all’inizio degli anni Settanta (1973), venne discussa, su precisa e pressante richiesta dei negoziatori arabi, una carta sulle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori arabi presenti all’interno dell’area comunitaria.

 

1976

Nell’ambito della Politica Globale Mediterranea lanciata all’inizio degli anni Settanta (1972), la Comunità Europea firmò con i paesi del Magreb, inclusi Algeria, Tunisia e Marocco, accordi di cooperazione nei quali erano previste specifiche garanzie a tutela dei lavoratori immigrati e delle loro famiglie legalmente residenti in uno dei paesi membri della Comunità, oltre alla creazione di un gruppo di lavoro per supervisionare queste questioni.

 

1977

La Francia avviò un programma di incentivi finanziari per indurre gli immigrati a ritornare nei propri paesi di origine.

 

1977-1979

La Francia adottò misure di rafforzamento dei controlli sull’immigrazione, imponendo condizioni di ingresso sempre più severe per tutti gli immigrati non comunitari e accrescendo i poteri di espulsione degli immigrati illegalmente residenti sul territorio francese; dopo la vittoria socialista alle elezioni presidenziali e legislative (1981), la Francia, pur lavorando con più convinzione per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro di coloro che già risiedevano sul territorio nazionale, confermò la restrizione di ogni nuova immigrazione e la lotta contro l’immigrazione illegale (1981-1982).

 

1980

La Francia stipulò con l’Algeria un accordo per la cooperazione in un programma triennale volto a incoraggiare il reinsediamento in patria dei lavoratori algerini; esso  prevedeva assistenza finanziaria per il rimpatrio, opportunità di formazione professionale e prestiti d’impresa da parte della Francia e aiuti per trovare casa e lavoro da parte dell’Algeria.

 

1981-1982

La Repubblica Federale Tedesca adottò misure di rafforzamento dei controlli sull’immigrazione, imponendo condizioni di ingresso sempre più severe per tutti gli immigrati non comunitari; contemporaneamente, la Repubblica Federale Tedesca cominciò a adottare una serie di nuove leggi, politiche e procedure di lotta contro l’immigrazione illegale.

 

1982

La Repubblica Federale Tedesca stipulò con la Turchia un accordo in cui si prevedeva che fondi tedeschi sarebbero stati disponibili per quei migranti che ritornavano in Turchia con l’intenzione di impiantare piccole imprese, a condizione che i migranti partecipassero a programmi di formazione sia in Germania sia in Turchia.

 

1982-1984

La Repubblica Federale Tedesca sintetizzò i principi fondamentali della propria politica di immigrazione con il trinomio restrizione, incoraggiamento al rimpatrio e integrazione; in linea con questa impostazione, essa adottò una serie di incentivi finanziari per incoraggiare i lavoratori stranieri a ritornare in patria.

 

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[-] TERZA FASE (1985-1995)

 

1985-1990

A fronte del fallimento delle politiche di blocco del reclutamento di lavoratori stranieri, dovuto alla crescita dei ricongiungimenti familiari e, soprattutto, alla diffusione dei fenomeni di immigrazione illegale e, più tardi, dei flussi di richiedenti asilo, e a fronte del fallimento delle stesse politiche di incoraggiamento al rientro volontario in patria, i principali paesi di immigrazione appartenenti alla Comunità Europea decisero di rafforzare la cooperazione intergovernativa in materia di politiche immigratorie, con lo scopo di intensificare lo scambio di informazioni, allentare le critiche che importanti gruppi di pressione stavano rivolgendo a livello nazionale contro il rafforzamento delle politiche di controllo dell’immigrazione e spingere i paesi europei di nuova immigrazione a armonizzare le proprie politiche immigratorie con quelle, più restrittive, adottate e perseguite dal nucleo geopolitico dell’Europa comunitaria. Oltre a un ampliamento e a un rafforzamento della struttura istituzionale di cooperazione, questo sforzò si concretizzò soprattutto nella decisione, assunta alla metà degli anni Ottanta dalla Francia, dalla Repubblica Federale Tedesca e dai paesi del Benelux, di firmare nella cittadina lussemburghese di Schengen un accordo che, nella prospettiva della realizzazione del mercato unico europeo, avrebbe dovuto abolire le frontiere interne armonizzando, nel contempo, la gestione e il controllo di quelle che sarebbero diventate a tutti gli effetti frontiere esterne comuni.

Parallelamente, i paesi dell’Europa meridionale che, come l’Italia si erano trasformati e, come la Spagna, si stavano trasformando da paesi di emigrazione a paesi di immigrazione si trovarono nella circostanza e, in parte, nella necessità di adottare politiche restrittive in materia di immigrazione; la scelta era, per un verso, dovuta all’allarme sociale suscitato dalla consistenza del fenomeno migratorio e, per un altro verso, alle pressioni dirette e indirette esercitate dai membri centro-settentrionali della Comunità Europea.

Contemporaneamente, infine, il tema delle migrazioni, sia nella sua valenza sociale sia, sempre più, nella sua accezione di attentato all’identità e, in senso lato, alla sicurezza dei paesi di accoglienza, divenne presenza stabile nelle iniziative politiche che si svilupparono a livello euro-mediterraneo.

 

1985

Francia, Repubblica Federale Tedesca, Belgio, Olanda e Lussemburgo firmarono, nella prospettiva della realizzazione del mercato unico europeo, il cosiddetto accordo di Schengen, un trattato intergovernativo che, in materia di circolazione delle persone, prevedeva di eliminare i controlli alle frontiere comuni, trasferendoli alle nuove frontiere esterne comuni; a questo fine, i contraenti si impegnavano a armonizzare, se necessario, le disposizioni legislative e regolamentari relative ai divieti e alle restrizioni sulle quali si basavano i controlli e a adottare misure complementari per salvaguardare la sicurezza e impedire l’immigrazione illegale di cittadini provenienti da stati non appartenenti alla Comunità europea.

La Spagna adottò, per la prima volta nella propria storia, una legge organica sull’immigrazione che, oltre a una regolarizzazione per gli immigrati illegalmente residenti sul territorio spagnolo, prevedeva un sistema teoricamente restrittivo in materia di ingressi e controlli.

 

1986

La Francia adottò una legge sull’immigrazione che rese più restrittive le norme in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri non comunitari.

L’Italia adottò, per la prima volta nella propria storia, una legge organica sull’immigrazione che, oltre a una regolarizzazione per gli immigrati illegalmente residenti sul territorio italiano, prevedeva un sistema teoricamente restrittivo in materia di ingressi e un sistema teoricamente generoso di tutele e diritti sociali per gli immigrati legalmente residenti.

I paesi membri della Comunità Europea istituirono il Gruppo ad hoc sull’immigrazione, a sua volta derivato dal Gruppo di Trevi, un organismo composto dai ministri degli Affari Interni e, più tardi, dai ministri della Giustizia dei paesi membri della Comunità Europea; creato alla metà degli anni Settanta (1975) per occuparsi di questioni relative al terrorismo e alla criminalità, il Gruppo di Trevi aveva finito, alla fine degli anni Ottanta, per allargare le proprie aree di interesse alle questioni legate all’immigrazione illegale e ai flussi di richiedenti asilo. Il Gruppo ad hoc sull’immigrazione, che riuniva i ministri degli Affari Interni e i massimi funzionari del Ministero degli Affari Interni, fu più direttamente incaricato di esaminare questioni relative alle migrazioni, approfondendo temi quali gli accertamenti alle frontiere, la politica dei visti e il contrasto all’uso illegale dei passaporti e all’uso improprio del diritto di asilo.

 

1988

Sulla base delle decisioni assunto dal Consiglio Europeo di Rodi (1988), i paesi membri della Comunità Europea istituirono il Gruppo dei Coordinatori sulla Libera Circolazione delle Persone; composto da alti funzionari dei Ministeri degli Affari Interni dei paesi membri della Comunità Europea e da rappresentanti della Commissione Europea. Il Gruppo dei Coordinatori aveva il compito di esercitare una supervisione sulle attività associate alla messa in pratica della libera circolazione; il principale risultato del suo lavoro fu la presentazione di un programma di lavoro, il cosiddetto documento di Palma (1989), che raccomandava un maggiore coordinamento a livello comunitario sui temi degli affari interni e della giustizia, con particolare riferimento alle questioni relative alla migrazione.

 

1989-1990

Il tema della migrazione fece la propria comparsa all’interno dei colloqui sulla cooperazione culturale che si svilupparono nell’ambito del cosiddetto Forum Mediterraneo, un’iniziativa proposta dalla Francia all’inizio degli anni Ottanta (1983) per consolidare la propria influenza nella regione del Mediterraneo occidentale e migliorare le relazioni tra i paesi dell’Europa meridionale e i paesi del Magreb.

 

1990-1995

La firma della convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, a cui fecero seguito la presentazione della bozza di convenzione sull’attraversamento delle frontiere esterne e la firma della convenzione sulla determinazione dello stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli stati membri della Comunità Europea, rafforzò ulteriormente il livello di cooperazione e convergenza sulle politiche migratorie a livello europeo e, più specificamente, comunitario.

Prima che l’area Schengen entrasse definitivamente in vigore alla metà degli anni Novanta, inoltre, il Trattato di Maastricht, introducendo la cooperazione in materia di affari interni e giustizia nell’ambito di competenza della nuova Unione Europea, avviava un processo, non ancora compiuto, di comunitarizzazione delle politiche di immigrazione dei paesi membri.

Contemporaneamente, mentre il collasso dei regimi comunisti nell’Europa centro-orientale (1989) acuiva i timori di una vera e propria “invasione” di migranti, mentre la prima guerra del Golfo (1990-1991) e, poi, la guerra civile algerina (1992-1994) stimolavano il ritorno di sentimenti anti-arabi e anti-islamici e mentre la crescita dei richiedenti asilo faceva diventare sempre più attuale, e cruciale, il tema del contrasto ai cosiddetti falsi rifugiati, tutti i paesi membri dell’Unione Europea, inclusi i paesi dell’arco mediterraneo, adottarono e perseguirono politiche apertamente restrittive in materia di controllo delle frontiere, contrasto all’immigrazione illegale e limitazione del diritto d’asilo.

Infine, il tema della migrazione assunse, per la prima volta, una valenza fondamentale sia nei rapporti bilaterali sia, soprattutto, nelle iniziative politiche che si svilupparono a livello euro-mediterraneo tra l’inizio e la metà degli anni Novanta e che culminarono, proprio alla metà degli anni Novanta, con la Dichiarazione di Barcellona che dette avvio al cosiddetto Partenariato Euro-Mediterraneo. Mentre, infatti, il tema della migrazione era stato tutto sommato marginale sia nella Politica Globale Mediterranea avviata dalla Comunità Europea all’inizio degli anni Settanta – con la rilevante eccezione degli accordi di cooperazione -, sia nella Politica Mediterranea Rinnovata varata dalla Comunità Europea all’inizio degli anni Novanta – con la significativa eccezione del programma Med-Migrazione -, esso fu invece centrale nel Processo di Barcellona lanciato alla metà degli anni Novanta; in particolare, sulla base di un compromesso in cui i paesi della sponda meridionale del Mediterraneo accettavano di cooperare alla riduzione delle pressioni migratorie e alla lotta all’immigrazione illegale in cambio dell’impegno da parte dei paesi dell’Unione Europea a fornire aiuti allo sviluppo e alla formazione e a garantire il rispetto di tutti i diritti riconosciuti ai migranti legalmente residenti nei rispettivi territori, il tema della migrazione divenne il cuore stesso del terzo pilastro, dedicato al partenariato nei settori sociale, culturale e umano.

 

1990

Su pressione europea, l’Italia adottò una legge organica sull’immigrazione che, oltre a una regolarizzazione per gli immigrati illegalmente residenti sul territorio italiano, prevedeva un sistema teoricamente restrittivo in materia di controlli alle frontiere, respingimenti e espulsioni.

 

I paesi firmatari dell’accordo di Schengen, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Belgio, Olanda e Lussemburgo, firmarono la convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen con cui si impegnavano a sopprimere i controlli alle frontiere interne accettando, nel contempo, di armonizzare regole, procedure e politiche o, comunque, cooperare in materia di controlli alle frontiere esterne comuni, politica dei visti, condizioni di ingresso e soggiorno, misure di accompagnamento, responsabilità per l’esame delle domande di asilo, rapporti tra forze di polizia, assistenza giudiziaria in materia penale, estradizione, traffico di stupefacenti, e acquisto, detenzione e commercio di armi da fuoco e munizioni; inoltre, essi decisero di creare il cosiddetto Sistema d’Informazione Schengen, un sistema automatizzato per la raccolta, la gestione e lo scambio di informazioni tra i paesi aderenti alla convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen. Successivamente, gli accordi di Schengen vennero firmati dall’Italia (1990), dalla Spagna e dal Portogallo (1991), dalla Grecia (1992), dall’Austria (1995) e dalla Finlandia, dalla Svezia, dalla Danimarca, dall’Islanda e dalla Norvegia, prima che, con il Trattato di Amsterdam (1997), essi entrassero a far parte dell’acquis communautaire.

 

Redatta dal Gruppo ad hoc sull’immigrazione sulla falsariga della convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, la bozza di convenzione sull’attraversamento delle frontiere esterne non venne firmata per una divergenza tra Spagna e Gran Bretagna relativa allo status di Gibilterra.

 

Redatta dal Gruppo ad hoc sull’immigrazione, la convenzione sulla determinazione dello stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli stati membri della Comunità Europea, meglio nota come convenzione di Dublino, venne firmata dai paesi membri della Comunità Europea con il fine di stabilire le condizioni per impedire che un individuo in cerca di asilo facesse più di una richiesta o richieste successive a più stati e per prevenire il problema dei «rifugiati in orbita» che nasceva quando nessuno stato si assumeva la responsabilità di occuparsi di particolari persone in cerca di asilo.

 

1990-1991

Nel contesto del cosiddetto 5+4 o, come successivamente denominato, 5+5, i ministri degli Affari Esteri dei paesi del Mediterraneo Occidentale, inclusi i cinque paesi membri della neonata Unione del Magreb Arabo, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia e Mauritania, più cinque paesi mediterranei europei, Francia, Italia, Spagna, Portogallo e, in seguito, Malta discussero in maniera approfondita il tema della migrazione con l’intento di migliorare la cooperazione nella gestione dei flussi e, nel contempo, garantire una migliore tutela delle comunità di migranti magrebini presenti sul territorio europeo.

 

Come condizione per la firma della convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, Italia e Spagna furono costrette a imporre i visti ai cittadini provenienti dai paesi del Magreb, inclusi Marocco e Tunisia, e dalla Turchia; poco dopo, la Francia, che già aveva imposto l’obbligo generalizzato di visto, introdusse oneri finanziari per la sua concessione (1992).

 

1992

Il Trattato sull’Unione Europea firmato a Maastricht fece cenno, per la prima volta in maniera esplicita nella storia dei trattati comunitari, alla politica migratoria. Citato in tutti i tre pilastri di cui si componeva la nuova organizzazione, esso trovava particolare risalto nel terzo pilastro relativo alla cooperazione intergovernativa in materia di giustizia e affari interni in cui venivano definite questioni di comune interesse le politiche di asilo, le regole che governavano l’attraversamento delle frontiere esterne e le politiche riguardanti l’immigrazione e i cittadini di paesi terzi, soprattutto per ciò che concerneva le condizioni di ingresso, soggiorno e circolazione, i ricongiungimenti familiari, la possibilità di impiego e la lotta contro l’immigrazione illegale.

Spagna e Marocco firmarono un accordo di riammissione in cui il governo marocchino si impegnava a riaccogliere tutti gli immigrati illegalmente presenti sul territorio spagnolo provenienti o, comunque, transitati dal Marocco.

 

1993

Francia e Algeria firmarono un accordo di riammissione in cui il governo algerino si impegnava a riaccogliere tutti gli immigrati illegalmente presenti sul territorio francese provenienti o, comunque, transitati dall’Algeria.

 

La Repubblica Federale Tedesca, principale destinazione europea dei flussi di rifugiati, introdusse restrizioni sulla concessione del diritto d’asilo, in un contesto caratterizzato dallo spostamento in massa di lavoratori provenienti dall’ex-Repubblica Democratica Tedesca, dall’afflusso di lavoratori provenienti dai paesi ex-comunisti dell’Europa centro-orientale e dall’imponente arrivo di rifugiati croati e bosniaci in fuga dalla guerra in Croazia (1991-1995) e, soprattutto, in Bosnia e Erzegovina (1992-1995).

 

La Francia adottò una legge sull’immigrazione che rese più restrittive le norme in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri non comunitari, oltre a rafforzare gli strumenti di contrasto all’immigrazione illegale e a introdurre restrizioni sulla concessione del diritto d’asilo.

 

1995

Gli accordi di Schengen entrarono in vigore nei primi cinque paesi firmatari, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Belgio, Olanda e Lussemburgo, più Spagna e Portogallo. Successivamente, entrarono a far parte della cosiddetta area Schengen, l’Italia (1997), l’Austria (1998), la Grecia (2000), la Danimarca, la Finlandia, la Svezia, l’Islanda e la Norvegia (2001), la Slovenia, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l’Ungheria e Malta (2008), la Svizzera (2009) e il Liechtenstein (2011).

 

Con la Dichiarazione di Barcellona, quindici paesi membri dell’Unione Europea e dodici paesi terzi mediterranei dettero avvio al Partenariato Euro-Mediterraneo, una strategia di cooperazione regionale centrata su un pilastro politico e di sicurezza, su un pilastro economico e finanziario e su un pilastro culturale, sociale e umano. Presente soprattutto nel terzo pilastro, il tema della migrazione si vedeva attribuire un’importanza senza precedenti nella storia della politica mediterranea comunitaria; in particolare, partendo dall’esplicito riconoscimento della centralità del tema nelle relazioni a livello regionale, si conveniva sulla necessità di accrescere la cooperazione tra le due sponde del Mediterraneo per ridurre le pressioni migratorie e accentuare la lotta contro l’immigrazione illegale e, nel contempo, garantire la piena tutela dei diritti previsti per gli immigrati legalmente residenti sul territorio comunitario.

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    By: Simone Paoli

    Simone Paoli, dottore di ricerca in Storia delle Relazioni Internazionali presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze, Simone Paoli è attualmente assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali dell’Università di Padova nell’ambito del progetto «Changing Patterns in Migration Policies and Flows in the Euro-Mediterranean Area from the Oil Crisis to the 1995 Barcelona Declaration». Autore de “Il sogno di Erasmo. La questione educativa nel processo di integrazione europea” e coautore di “Politica di potenza e cooperazione. L’organizzazione internazionale dal Congresso di Vienna alla globalizzazione”, Paoli è esperto in storia dell’integrazione europea e delle relazioni euro-mediterranee, con particolare riferimento alle dinamiche migratorie internazionali.

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