La spada di Schengen

La relazione analizza l’impatto che gli accordi di Schengen esercitarono sugli attori politici e sociali, sul dibattito pubblico e istituzionale e sulla legislazione italiani in materia di immigrazione. L’adesione agli accordi di Schengen, infatti, richiese e, in una certa misura, impose una particolare visione della politica immigratoria che finì per influenzare, con una incisività spesso sottovalutata, il processo e gli stessi esiti decisionali nazionali.

Il racconto di questa vicenda, sviluppatasi tra la metà degli anni ’80 e la fine degli anni ’90, può essere utilmente diviso in due fasi che prefigurano altrettante modalità con cui il contesto europeo ha esercitato la propria influenza sulla dinamica politica e culturale italiana.

In una prima fase, durata dal 1985 (anno della firma dell’accordo di Schengen da parte dei cinque membri fondatori, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo) al 1990 (anno della firma della convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen da parte degli stessi cinque membri fondatori), la classe dirigente nazionale si trovò “costretta” a seguire un’impostazione di politica immigratoria, che intimamente avversava, pur di partecipare a un sistema di cooperazione che giudicava comunque importante per la propria economia e per il proprio sistema di relazioni internazionali. A sua volta, la scelta franco-tedesca di escludere l’Italia dal gruppo dei paesi fondatori degli accordi di Schengen fu consapevolmente concepita come un mezzo per “costringere” un paese complessivamente riluttante a conformare la propria politica di gestione dei flussi di migranti e rifugiati alla politica adottata, e perseguita, dai paesi del centro geo-politico della Comunità Europea (CE).

In questo senso, si può quindi affermare che, tra il 1985 e il 1990, il processo di europeizzazione della politica immigratoria italiana avvenne come risultato di un atto di “resa” da parte della grande maggioranza della classe politica italiana a una concezione considerata sostanzialmente contraria agli interessi nazionali e alla sensibilità dell’opinione pubblica e delle principali forze politiche e sociali italiane.

In una seconda fase, cominciata nel 1990 (anno della firma italiana degli accordi di Schengen) e culminata nel 1997 (anno dell’effettivo ingresso italiano nell’area Schengen), l’affermazione politico-elettorale di forze apertamente anti-immigrazione si combinò con la “conversione”, avvenuta sia per ragioni di politica interna sia per ragioni di politica estera, di una parte crescente e, infine, maggioritaria della classe politica nazionale alla filosofia degli accordi di Schengen in materia di immigrazione; particolarmente significativa, a questo riguardo, fu l’evoluzione della sinistra post-comunista, passata, nel giro di un lustro, da una strenua opposizione a un convinto seppur non unanime sostegno a un approccio restrittivo in materia di immigrazione.

In questo contesto, soprattutto dopo lo scoppio di Tangentopoli e la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, la necessità di rispettare le condizioni poste per l’accesso all’area Schengen agì come una duplice fonte di legittimazione.

Da una parte, le forze politiche più o meno apertamente anti-immigrazione di centro-destra utilizzarono il continuo riferimento agli accordi di Schengen come un modo per garantire rispettabilità a posizioni che, pur godendo di crescente consenso nell’opinione pubblica, si prestavano all’accusa, particolarmente infamante in un paese che era impregnato di cultura cattolica, che aveva conosciuto i pregiudizi contro i propri emigranti e che aveva conosciuto le leggi razziali, di xenofobia, e razzismo.

Dall’altra parte, le forze politiche di centro-sinistra, principali eredi della tradizione politico-culturale espressa dalla cosiddetta Prima Repubblica, usarono il riferimento agli accordi di Schengen come uno strumento importante, se non decisivo, per vincere le resistenze di correnti interne, partiti e organizzazioni rimasti contrari a una svolta rigorista in materia di immigrazione. A differenza delle forze di centro-destra, che ne enfatizzarono gli aspetti di severità, e rigore, nel controllo delle frontiere esterne comuni, gli accordi di Schengen, spesso volutamente confusi con accordi di natura comunitaria, vennero presentati dalle forze di centro-sinistra principalmente come un mezzo per realizzare il principio della libera circolazione delle persone; allo stesso tempo, soprattutto nel confronto pubblico e parlamentare con le forze più tradizionalmente pro-immigrazione, le misure di carattere più restrittivo richieste come condizione per l’adesione all’area Schengen vennero presentate dalle forze di centro-sinistra come “sacrifici” necessari, insieme ai “sacrifici” per accedere all’area Euro, per poter “entrare in Europa”.

In questo senso, si può quindi affermare che, tra il 1990 e il 1997 e, più specificamente, tra il 1996 e il 1997, il processo di europeizzazione della politica immigratoria italiana avvenne secondo le classiche logiche del vincolo esterno; una parte della classe politica nazionale, in particolare, utilizzò l’argomento dell’”imposizione” europea come mezzo per creare consenso, e senso di urgenza, verso una politica che essa riteneva opportuna e politicamente conveniente ma che era avversata da settori significativi della società politica e della stessa società civile.

LA FASE DEL “RICATTO” ESTERNO (1985-1990)

Quando, il 14 giugno 1985, i rappresentanti di un gruppo di paesi membri della CE, Francia, Germania, Olanda, Belgio e Lussemburgo, decise di firmare l’accordo di Schengen relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, gli obiettivi erano essenzialmente due: preparare i propri rispettivi paesi e la stessa CE alla prospettiva della creazione del mercato comune europeo e provare, nel contempo, a gestire in maniera comune un problema, come quello del controllo dei flussi di migranti e rifugiati, che a livello nazionale si stava rivelando sempre meno gestibile. L’accordo di Schengen, infatti, non riguardava solo l’abolizione dei controlli sulle persone e la riduzione dei controlli sui veicoli di passaggio attraverso le frontiere comuni; «al fine di evitare le conseguenze negative che possono risultare da un alleggerimento dei controlli alle frontiere comuni in materia di immigrazione e sicurezza»[i], esso prevedeva il trasferimento e il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne comuni, la progressiva armonizzazione delle politiche nazionali dei visti, e la convergenza delle legislazioni in materia di ingresso e soggiorno dei cittadini non comunitari, oltre al rafforzamento della cooperazione di polizia e dogana, all’ampliamento degli accordi in materia di prevenzione della criminalità, estradizione e diritto di inseguimento e all’armonizzazione delle legislazioni in materia di traffico di stupefacenti, armi ed esplosivi.

Se la strada dell’accordo intergovernativo era dettata dalla contrarietà di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca a procedere all’interno dell’ambito comunitario su queste materie, la scelta di evitare di coinvolgere l’Italia aveva ragioni che attenevano alla volontà, soprattutto francese e tedesca, di mettere Roma di fronte al fatto compiuto, impedendole ogni capacità negoziale e costringendola, di fatto, a dover scegliere tra un’esclusione economicamente costosa e politicamente imbarazzante, e un’adesione alle condizioni franco-tedesche, specialmente per ciò che riguardava la gestione dei flussi di migranti e rifugiati. Come appare chiaro dalla lettura incrociata dei documenti della Presidenza della Repubblica francese conservati presso gli Archives Nationales a Parigi e i documenti del Ministero degli Affari Esteri e del Ministero dell’Interno italiani conservati presso l’Archivio Storico della Fondazione Bettino Craxi a Roma, in particolare, tre erano le ragioni fondamentali che spinsero i governi firmatari dell’accordo di Schengen a escludere l’Italia e che, tra il 1985 e il 1986, spinsero il governo francese a interrompere le trattative avviate con il governo italiano per un accordo bilaterale ricalcato sull’accordo di Schengen.

In primo luogo, giocò un ruolo importante l’impossibilita di trovare un’intesa sull’armonizzazione del regime dei visti. Mentre il governo di Roma, per ragioni economiche e geopolitiche, chiedeva di poter continuare a non richiedere permessi di ingresso ai cittadini provenienti da una serie di paesi a forte propensione migratoria, soprattutto nel bacino mediterraneo, il governo di Parigi, sostenuto dal governo di Bonn, insisteva affinché l’Italia imponesse visti di ingresso sui cittadini di questi stessi paesi, nel timore che la liberalità della politica italiana avrebbe aperto una pericolosa falla nella nuova frontiera esterna comune.

Accanto alle differenti posizioni sulla politica dei visti, in secondo luogo, pesava una più generale divergenza per ciò che riguardava il livello di severità dei regolamenti sui flussi di ingresso e di efficacia della gestione dei controlli alle frontiere. Mentre in Francia, e in Germania, infatti, crescevano gli allarmi per gli effetti di un afflusso incontrollato di migranti e, di conseguenza, venivano irrigidite le norme e le pratiche di controllo sugli ingressi degli stranieri non comunitari, in Italia rimaneva praticamente assente ogni legislazione e ogni politica dirette a contenere l’afflusso di cittadini stranieri extracomunitari sul territorio nazionale; sebbene già ampiamente entrato nella discussione di una pluralità di personalità e organizzazioni del mondo politico, economico e culturale, il fenomeno immigratorio non veniva ancora percepito come un problema sociale e, complici la lunga tradizione emigratoria del paese, l’importante ruolo svolto dalla Chiesa cattolica, l’impronta internazionalista di tutte le principali forze politiche italiane, le esigenze del sistema socio-economico nazionale e le ambizioni mediterranee della politica estera del governo a guida socialista, l’afflusso di lavoratori stranieri extracomunitari veniva non solo tollerato ma, persino, tacitamente incoraggiato. Legato a questo, peraltro, pesava la volontà francese di usare l’esclusione dall’accordo di Schengen, e lo stesso rifiuto a stipulare un accordo bilaterale ricalcato sull’accordo di Schengen, come mezzi di pressione per costringere le autorità italiane a riprendere gli immigrati entrati clandestinamente in Francia dopo essere transitati sul territorio italiano.

Infine, l’esclusione italiana nasceva dalla volontà dei governi di Parigi e di Bonn di spingere il governo e il Parlamento di Roma ad allargare le maglie della politica italiana per i rifugiati, fino ad allora ferma al riconoscimento della qualifica di rifugiato ai soli profughi provenienti da paesi europei. Questa limitazione, criticata dallo stesso Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) in nome di un’applicazione estensiva dei criteri di determinazione dello status di rifugiato, era particolarmente invisa alla Germania la quale, soprattutto in seguito all’interruzione del reclutamento di nuovi lavoratori stranieri avviata all’inizio degli anni Settanta, aveva dovuto subire la grande maggioranza dei flussi di rifugiati, veri o presunti, diretti in Europa occidentale dai paesi del Terzo Mondo.

La polemica, interna e internazionale, raggiunse il proprio apice tra il 1988 e il 1989, quando, nell’ambito di una vasta indagine conoscitiva sull’immigrazione e la condizione dello straniero condotta dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati italiana emerse la diffusione e la radicalità della critica verso l’accordo di Schengen e, in particolare, verso le condizioni che i suoi stati membri avevano posto all’adesione del paese: recepimento di tutto quanto era già stato concordato, nessun rallentamento nei lavori in corso per la definizione di una convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, firma di un accordo di riammissione dei clandestini entrati in Francia dopo essere transitati sul territorio italiano e, soprattutto, adeguamento della legislazione in materia di immigrazione e asilo a quelle di Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo, specialmente per ciò che riguardava l’imposizione dei visti ai cittadini provenienti da Turchia e paesi del Magreb, il rafforzamento delle misure di respingimento, espulsione e accompagnamento alla frontiera dei clandestini e la rinuncia alla cosiddetta riserva geografica a favore dei paesi europei per quanto riguardava il riconoscimento e l’accoglimento dei rifugiati.

La resistenza a conformarsi al regime restrittivo adottato, e richiesto, a livello europeo era, allora, amplissima; essa, infatti, andava dalla variegata galassia dell’associazionismo laico e cattolico all’intero mondo del sindacalismo confederale, e dalla grande maggioranza della Democrazia Cristiana (DC)[ii] alla totalità del Partito Comunista Italiano (PCI), passando per il Partito Socialista Italiano (PSI) in cui più netta, e più originale, era la critica alla filosofia Schengen e il sostegno a una proposta alternativa che puntava su un piano europeo per la riduzione degli squilibri socioeconomici nell’area euro-mediterranea, e su un programma di accoglimento di una quota dell’eccedenza demografica araba nel mercato del lavoro europeo.

Non stupisce, quindi, che proprio da un esponente del socialismo italiano, Claudio Martelli, venne la critica più dura all’accordo di Schengen e all’opportunità dell’Italia di irrigidire la propria politica immigratoria per potervi aderire; in molti sensi, addirittura, il decreto legge sull’immigrazione presentato dall’allora vicepresidente del Consiglio dei Ministri Martelli, e approvato dal Consiglio dei Ministri il 22 dicembre 1989, nasceva e si proponeva come la risposta italiana, e socialista, alla Fortezza Europa che, si riteneva, l’accordo di Schengen avrebbe creato. Volto a promuovere un vasto programma di regolarizzazione, a realizzare una programmazione flessibile del flusso di immigrazione e a offrire un contributo alla definizione di una politica migratoria comunitaria aperta a una maggiore libertà di circolazione tra la CE e la costituenda Unione del Maghreb Arabo e a piani integrati di cooperazione culturale e socioeconomica con i paesi di origine, il decreto legge fu però sconfitto nella sua concezione originaria.

Mentre, sul piano internazionale, il collasso dei regimi comunisti in Unione Sovietica e in Europa centro-orientale lasciava intravedere la possibilità di una nuova “invasione” dall’area ex-comunista, il generale consenso pro-immigrazione che aveva retto nei primi venti anni di transizione dell’Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione si incrinò, così come si incrinò la generalizzata contrarietà verso l’accordo di Schengen e la sua filosofia in materia di politiche immigratorie. In questo contesto, la difesa dell’accordo di Schengen e della necessità per l’Italia di parteciparvi adottando una legislazione conseguente in materia di immigrazione divenne una bandiera per quei soggetti politici, sociali e culturali che, per una pluralità di ragioni spesso distinte, criticavano l’approccio “aperturista” sostenuto da Martelli. Così, in aggiunta al presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti, e al ministro dell’Interno Antonio Gava, i più convinti sostenitori dell’accordo di Schengen durante il dibattito di conversione in legge del decreto Martelli furono i rappresentanti dei due partiti che, sotto la pressione del crescente movimento leghista, maggiormente si opposero all’impostazione originaria del decreto: il Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale (MSI-DN) e il Partito Repubblicano Italiano (PRI). Se, infatti, il senatore missino Francesco Pontone rilevò polemicamente come l’Italia fosse stata esclusa dall’accordo di Schengen per la mancanza di una politica di controllo alle frontiere, e fosse ancora percepita come «il ventre molle dell’immigrazione»[iii] della CE, il senatore repubblicano Rocco Coletta sviluppò un’articolata critica al decreto Martelli in cui la sua presunta distanza dalle politiche europee, dall’obiettivo del mercato unico e dall’accordo di Schengen diveniva un’argomentazione centrale per condannare una strategia che ci aveva reso e ci rendeva «la porta aperta dell’Europa»[iv].

Martelli, probabilmente, sarebbe stato in grado di resistere a queste critiche e di difendere efficacemente l’impostazione originaria del proprio decreto legge se, nel frattempo, non gli fosse venuto a mancare l’appoggio dei principali dirigenti del suo stesso partito. Mentre il ministro degli Affari Esteri Gianni De Michelis, preoccupato dai decisivi progressi nelle trattative per la definizione della convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, prendeva chiaramente posizione a favore dell’adesione italiana all’accordo e di un conseguente rafforzamento delle politiche di controllo del fenomeno migratorio, il commissario europeo Carlo Ripa di Meana attaccò pubblicamente il suo collega di partito Martelli e i contenuti più «umanitari, talora di ispirazione cristiana, talora di impronta sociale»[v], del suo decreto legge, evocando i possibili contraccolpi interni e, soprattutto, internazionali della presunta “liberalizzazione dell’immigrazione” voluta dal vicepresidente del Consiglio:

 

[…] è logico che questa situazione inneschi preoccupazioni nella CE, in vista   dell’abolizione delle frontiere interne, perché, se tutto non sarà regolato in modo da evitare flussi di migrazione interna di cittadini non comunitari, i Francesi, a esempio, non smantelleranno al valico di Ventimiglia i controlli sulle persone. Il problema, dunque, va al di là dell’attualità ed è colossale[vi].

 

Allo stesso tempo, mentre il segretario generale aggiunto della CGIL e futuro segretario del PSI Ottaviano Del Turco affermava pubblicamente che «la soluzione del numero aperto è assolutamente impraticabile e demagogica, tanto più che, nei prossimi anni, ogni posto di frontiera del nostro paese sarà una porta aperta per tutta l’Europa»[vii], lo stesso segretario del PSI Craxi intervenne, con la forza del proprio prestigio e del proprio

ruolo, nel dibattito sul decreto Martelli. Senza criticare apertamente il suo “pupillo”, e senza rinunciare a sostenere che la strada maestra di ogni politica immigratoria, sia a livello italiano sia a livello europeo, dovesse essere quella di «aiutare lo sviluppo delle economie del bacino del Mediterraneo, di paesi ad alto tasso demografico ma senza posti di lavoro»[viii], Craxi sostenne la necessità di una politica sull’immigrazione che non alimentasse nuovi flussi e che non allontanasse il paese dall’Europa.

In questo clima, a difendere la proposta Martelli nella sua formulazione originaria erano rimasti solo la sinistra DC e il PCI. Di conseguenza, il testo che uscì dal Parlamento il 28 febbraio 1990 fu significativamente diverso rispetto al decreto legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 22 dicembre 1989. In particolare, oltre a un ampio programma di regolarizzazione e alla previsione di una programmazione dei flussi annuali di ingresso dei lavoratori extracomunitari dall’estero, i maggiori provvedimenti riguardavano misure volte a permettere l’adesione italiana all’accordo di Schengen. In primo luogo, come proposto dallo stesso Martelli, venne abolita la riserva geografica per i richiedenti asilo, permettendo a tutti gli stranieri, indipendentemente dalla propria nazionalità, di chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato in Italia ai sensi della Convenzione di Ginevra. In secondo luogo, venne introdotto un regime di visti per i paesi da cui provenivano i maggiori flussi di migranti e i maggiori flussi di persone condannate per traffico di stupefacenti. In terzo luogo, vennero rafforzate le misure di respingimento alle frontiere per gli stranieri sprovvisti dei visti richiesti o, anche se muniti di visti, per gli stranieri precedentemente espulsi, pericolosi per la sicurezza dello Stato, appartenenti a organizzazioni di tipo mafioso o terroristico, dediti al traffico di stupefacenti o privi di mezzi di sostentamento in Italia. Infine, seppur con procedure molte deboli e modalità molto garantiste, veniva creato un sistema di espulsione e, in casi estremi, di accompagnamento alla frontiera per gli stranieri condannati per reati gravi o in violazione delle disposizioni in materia di ingresso e soggiorno.

Grazie all’approvazione di questa legge l’Italia aveva finalmente le “carte in regola” per poter essere ammessa nel “club Schengen”. Prima di firmare, il 6 dicembre 1990, un accordo di riammissione dei clandestini con il governo di Parigi, il 27 novembre 1990 il Governo di Roma siglò così un accordo di adesione all’accordo di Schengen e alla relativa convenzione di applicazione, stipulata a Schengen il 19 giugno 1990.

LA FASE DELLA “LEGITTIMAZIONE” ESTERNA (1990-1997)

Se, da una parte, le firme italiane sull’accordo di Schengen e sulla relativa convenzione di applicazione sembravano chiudere la partita della scelta politica, dall’altra, esse aprivano una più complessa e, per certi versi, più difficile partita relativa alla volontà e alla capacità politico-amministrativa della classe dirigente italiana di conformarsi ai criteri di rigore nella gestione dei flussi migratori richiesti per l’effettivo ingresso nell’area Schengen.

In effetti, la cosiddetta legge Martelli, con la previsione di introdurre un regime di visti verso tutti i paesi a elevata propensione migratoria, di rafforzare le misure di respingimento alle frontiere e di creare un sistema di espulsioni, rappresentava, insieme all’accordo di riammissione dei clandestini firmato con il governo di Parigi, un importante motivo di soddisfazione, e rassicurazione, per i governi francese e tedesco. La pronta, seppur sofferta, decisione di imporre visti di breve durata a tutti i paesi a elevata propensione migratoria, inclusi i paesi del Maghreb e la Turchia, costituiva, in questo senso, una prova apparentemente decisiva del fatto che le autorità italiane intendevano finalmente conformarsi al regime in vigore nei paesi promotori degli accordi di Schengen.

Tuttavia, già durante la severa ma maldestra gestione dello straordinario sbarco di profughi dalle coste albanesi verificatosi tra l’inizio e la metà del 1991 in conseguenza della grave crisi economica e politica in atto nel paese balcanico, la politica migratoria italiana tornò a essere considerata, agli occhi di Parigi e Berlino, non ancora pienamente affidabile.

Come appare chiaro dalla lettura incrociata dei documenti della Presidenza della Repubblica francese conservati presso gli Archives Nationales a Parigi e dei documenti del Comitato Esecutivo Schengen conservati presso l’Archivio Storico del Consiglio dell’Unione Europea a Bruxelles, in particolare, la critica franco-tedesca si appuntava sull’uso delle sanatorie come mezzo privilegiato per gestire il problema degli irregolari e dei clandestini e, più in generale, sul presunto lassismo con il quale le autorità italiane permettevano l’arrivo e il transito dei cittadini extracomunitari sul proprio territorio. Mentre Berlino si lamentava soprattutto dell’atteggiamento tollerante con cui, a proprio giudizio, le autorità italiane trattavano i flussi migratori provenienti da Turchia e Balcani occidentali, Parigi denunciava principalmente la facilità con cui, a proprio avviso, le autorità italiane rilasciavano visti di breve durata ai cittadini dei paesi del Maghreb, spesso diretti, come meta finale, in Francia. Sintomatica, a questo proposito, fu la dura polemica che, tra il 1992 e il 1993, contrappose il Consolato francese e il Consolato italiano a Orano, in Algeria, sulla questione del rilascio dei visti di breve durata ai cittadini algerini. La polemica, che finì per coinvolgere gli stessi, rispettivi, Ministeri degli Affari Esteri in un più generale contenzioso sulle modalità di gestione dell’immigrazione proveniente dai paesi del Maghreb e sul senso stesso della cooperazione all’interno del quadro degli accordi di Schengen, riguardava il presunto

 

lassismo con il quale le autorità consolari italiane operanti in questa città rilasciano visti di breve durata […]. Questa pratica ha permesso di scoprire una filiera di immigrazione clandestina, transitante attraverso l’Italia, la cui origine può essere rintracciata proprio a Orano[ix].

 

In effetti, la svolta rigorista, che la legge Martelli aveva inaugurato e che la firma degli accordi di Schengen aveva, in una certa misura, certificato, non aveva cancellato tutte le ragioni per cui il paese e la sua classe politica erano stati a lungo riluttanti ad accettare la logica insita negli accordi di Schengen. Come dimostrò il dibattito parlamentare sulla ratifica dei trattati di adesione italiana agli accordi di Schengen tenutosi tra la fine del 1992 e la metà del 1993, gli accordi europei rimanevano un riferimento controverso, sia perché sembravano contrapporsi a un approccio compiutamente comunitario in materia di immigrazione sia perché, specialmente, minacciavano di imporre all’Europa e all’Italia una politica immigratoria contraria agli interessi e ai valori della stessa Europa, e della stessa Italia. Contrari alla ratifica, oltre ai rappresentanti di un MSI-DN sospinto su una linea rigidamente anti-immigrazione dalla competizione politico-elettorale con il crescente fenomeno leghista e dall’avvicendamento alla segreteria tra Pino Rauti e Gianfranco Fini, furono i radicali del Gruppo Federalista Europeo, i parlamentari verdi, gli eletti del Movimento per la Democrazia – La Rete e, soprattutto, gli esponenti del Partito della Rifondazione Comunista (PRC). Accomunando in una comune visione critica il trattato di Maastricht e gli accordi di Schengen, in particolare, il senatore comunista Luigi Vinci arrivò ad affermare che

 

con l’accordo di Schengen si passa ad un secondo tassello della unificazione dell’Europa occidentale. Con Maastricht – il primo tassello – si è avviata la realizzazione dell’Europa della Bundesbank tedesca; ora, con l’accordo di Schengen, si avvia la realizzazione dell’Europa delle polizie. Si passa da una Europa tedesca, quella di Maastricht, a una Europa prussiana, quella di Schengen[x].

 

Proseguendo su questa linea di ragionamento, il deputato comunista Severino Galante argomentò che il trattato che stiamo ratificando […] alle origini era destinato ad assicurare la libera circolazione degli uomini all’interno dell’Europa comunitaria, ma ora è divenuto di fatto e di diritto uno strumento per contrastare l’ingresso nella Comunità dei non comunitari. […]. Non vi è soluzione, […], senza l’ipotesi di creare uno spazio ampio, un’area continentale di libera circolazione di tutti gli uomini, le etnie, le religioni[xi].

 

Lo stesso Partito Democratico di Sinistra (PDS), che pure decise di astenersi dopo aver tenuto ferma, per circa due anni, la linea di forte contrarietà agli accordi di Schengen inaugurata dal PCI[xii], fu più attento a sottolineare i gravi limiti degli accordi che a giustificare un mancato voto contrario che, in pratica, sembrava trovare le proprie ragioni solo nella speranza che la presenza italiana avrebbe potuto contribuire a cambiare la loro natura «illiberale e poliziesca»[xiii]. Persino la DC e il PSI, principali sostenitori della ratifica, fecero fatica a trovare argomenti a favore degli accordi di Schengen. Con una formula tipicamente democristiana, in particolare, il senatore Flaminio Piccoli riassunse il senso della posizione favorevole espressa dai partiti di governo affermando che nel dare il nostro appoggio alla ratifica di questo accordo, operiamo per uno stato di    convinta necessità [cors. mio], anzitutto per non restare “fuori dall’uscio” ma, allo stesso tempo, perché vogliamo studiare con i nostri alleati questi problemi recandovi, una volta ratificato l’accordo, quell’umanesimo che è il segno della civiltà tipica e caratteristica di quel popolo mediterraneo[xiv].

 

Alla luce di queste posizioni non sorprende che, alla vigilia della definitiva entrata in vigore degli accordi di Schengen, l’Italia non avesse compiuto quei passi ritenuti necessari per la sua adesione. Conseguentemente, essa venne esclusa dal gruppo di paesi che, il 26 marzo 1995, formarono il primo nucleo dell’area Schengen: i cinque paesi promotori, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, e Lussemburgo, più Spagna e Portogallo che, pure, avevano firmato gli accordi di Schengen due anni dopo l’Italia.

Il ritardo, peraltro, oltre ad avere ragioni politiche, aveva importanti ragioni tecniche. La difficoltà a inserirsi nel Sistema di Informazione Schengen, un sistema di banche dati integrate per raccogliere e scambiare informazioni tra i paesi dell’area Schengen su persone, oggetti o veicoli ricercati, costituiva, insieme all’assenza di una legge sul trattamento dei dati personali e, soprattutto, alla inaffidabilità del sistema italiano di controlli, respingimenti ed espulsioni, un formidabile ostacolo a un ingresso dell’Italia nell’area Schengen[xv].

La svolta definitiva avvenne solo in coincidenza con l’insediamento del governo presieduto da Romano Prodi, il 17 maggio 1996. Sostenuto da una coalizione di centro-sinistra, infatti, il governo Prodi assunse l’impegno prioritario di “portare l’Italia in Europa”, raggiungendo i due, complementari, obiettivi di adempiere alle condizioni per l’ingresso italiano nell’euro-zona e per l’ingresso italiano nell’area Schengen.

Oltre alla creazione di un meccanismo di collegamento con il Sistema di Informazione Schengen e alla proposta, poi approvata, di una legge in materia di trattamento dei dati personali, in particolare, l’impegno del governo a garantire il rispetto delle condizioni per l’ingresso nell’area Schengen si tradusse nella proposta di una legge di riforma della politica immigratoria italiana che portava le firme di due importanti esponenti del PDS, il ministro della Solidarietà Sociale, Livia Turco, e il ministro dell’Interno, Giorgio Napolitano.

Se, da una parte, gli uffici del Ministero della Solidarietà Sociale si concentrarono sulla parte relativa all’ampliamento dei diritti per gli immigrati regolari, gli uffici del Ministero dell’Interno lavorarono soprattutto sulla parte relativa al rafforzamento delle misure di controllo, respingimento ed espulsione, necessarie sia per rispondere alle accuse di lassismo verso i fenomeni di immigrazione irregolare e clandestina provenienti dalle forze di opposizione e da crescenti settori della stessa opinione pubblica, sia per corrispondere alle richieste di riforma della legislazione italiana sull’immigrazione avanzate dai governi dei paesi membri dell’area Schengen.

Il legame tra la proposta di legge e la volontà di conformarsi alle condizioni di ingresso nell’area Schengen era così forte che il presidente del Consiglio Prodi, il ministro dell’Interno Napolitano e il sottosegretario agli Affari Esteri Piero Fassino arrivarono a concordare, e condividere, i contenuti della legge sull’immigrazione con le autorità tedesche prima che il percorso parlamentare di discussione, e approvazione, fosse entrato nel vivo. In un incontro trilaterale italiano-austriaco-tedesco tenutosi a Innsbruck il 17 luglio 1997, infatti, i tre rappresentanti del governo italiano rassicurarono il cancelliere tedesco Helmut Kohl sulla serietà delle intenzioni italiane e, in questo contesto, sulla severità delle misure che la legge sull’immigrazione in discussione nel Parlamento italiano avrebbe, secondo loro, certamente contenuto. Nonostante la netta contrarietà del presidente dei ministri della Baviera Edmund Stoiber e del ministro dell’Interno tedesco Manfred Kanther, e nonostante le proprie stesse perplessità sull’affidabilità della politica italiana sull’immigrazione, recentemente rinfocolate dalla difficile gestione della seconda crisi albanese e, soprattutto, dalla presunta passività italiana verso lo sbarco di migliaia di profughi curdi e il loro passaggio in Germania, «il cancelliere Kohl diede il “via libera”»[xvi] all’ingresso italiano nell’area Schengen. Decisiva, in questa scelta, fu la volontà politica del cancelliere tedesco di premiare un governo seriamente impegnato in una duplice, difficile, battaglia per entrare nella nuova Europa, di Maastricht e di Schengen, alla cui realizzazione Berlino era profondamente interessata, e alla cui definizione aveva largamente contribuito.

Ottenuto l’assenso tedesco all’ingresso italiano nell’area Schengen, il presidente Prodi e, soprattutto, il ministro Napolitano si spesero per assicurare l’approvazione parlamentare di quella legge sull’immigrazione e, in particolare, di quella parte della legge sull’immigrazione che di quell’ingresso era condizione, e presupposto.

L’insistenza, nel dibattito pubblico e parlamentare, sul rapporto tra l’approvazione della legge e la partecipazione all’area Schengen era parte integrante di questa strategia.

In primo luogo, essa permetteva di cercare, e trovare, un terreno comune tra le posizioni del governo e le sensibilità delle forze di centro-destra. Profondamente, e rumorosamente, contrarie agli obiettivi e alla stessa cultura politica che avevano animato il ministro Turco nel suo intento di ampliare i diritti sociali e, persino, civili e politici degli immigrati regolari, gli esponenti dei partiti di opposizione erano invece fortemente favorevoli alla filosofia Schengen e, di conseguenza, ai principali sforzi che il ministro Napolitano stava facendo per conformare a questa filosofia la legislazione italiana in materia di gestione dei flussi migratori.

In secondo luogo, l’esibito collegamento tra l’approvazione della legge e la necessità di accedere all’area europea di libera circolazione serviva a convincere i riottosi rappresentanti parlamentari del PRC e, in parte, dello stesso PDS, oltre ai soggetti dell’associazionismo e del sindacalismo di centro-sinistra più legati a una visione solidaristica nella gestione dei flussi di migranti extracomunitari. Se era vero, come sostenne il deputato del PDS Rosario Olivo, che «non è possibile, e tanto meno auspicabile, che l’Italia, tornata a tutti gli effetti tra i paesi in regola con il trattato di Maastricht grazie a un’attenta conduzione della politica economica e monetaria, resti fuori dagli accordi di libera circolazione europea»[xvii], era altrettanto vero che le forze di maggioranza avrebbero dovuto superare le proprie perplessità e approvare senza indugi una legge che era precondizione per la piena partecipazione italiana a quegli accordi. Significativamente, a questo proposito, il ministro Napolitano fece spesso ricorso all’argomentazione secondo cui

 

noi abbiamo guadagnato una credibilità […] per l’impegno che abbiamo posto nel soddisfare tutti gli adempimenti previsti dall’accordo di Schengen. […]. A questa credibilità non dobbiamo venire meno, ma rafforzarla anche attraverso l’approvazione, che non può più slittare, del disegno di legge in esame[xviii].

 

In terzo luogo, infine, il riferimento agli accordi di Schengen e alla necessità per il paese di conformarsi alle sue richieste tornò utile per giustificare, se non per legittimare, le novità più controverse che la legge introduceva. In particolare, la previsione, per la prima volta nella storia italiana, dell’istituto del centro di permanenza temporanea e assistenza per il trattenimento degli stranieri «quando non e’ possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera, ovvero il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all’acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l’indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo»[xix] venne costantemente presentata come una dolorosa necessità derivante dagli obblighi internazionali dell’Italia. Se il deputato Olivo spiegò come la maggiore severità nel controllo dei flussi migratori introdotta dalla legge fosse il risultato dell’«esigenza di sicurezza delle frontiere, legata al rispetto del trattato di Schengen»[xx], il ministro Napolitano non esitò a sostenere che vi è una innovazione molto importante. […] non si tratta di scelte gradevoli, ma di scelte obbligate, […]. E quindi adottiamo una misura che è già presente praticamente in tutti i paesi dell’Unione europea: mi riferisco alla istituzione di questi centri di permanenza obbligata e temporanea, con controlli di polizia, […][xxi].

EPILOGO

Tra il 19 novembre 1997 e il 19 febbraio 1998, con il voto favorevole di tutte le forze di maggioranza, il Parlamento italiano approvò la cosiddetta legge Turco-Napolitano con la quale la politica immigratoria italiana veniva avvicinata in maniera significativa alle politiche immigratorie di Berlino, Parigi e, di conseguenza, Schengen. Soprattutto attraverso gli articoli riguardanti il rafforzamento delle misure di controllo delle frontiere, l’irrigidimento dei meccanismi di respingimento e di espulsione e l’istituzione dei centri di permanenza temporanea e assistenza, infatti, la legge fece proprie tutte quelle misure richieste da Francia e, più ancora, Germania per il definitivo ingresso italiano nell’area Schengen, definitivamente compiutosi tra il 26 ottobre 1997, con l’abolizione delle frontiere aeroportuali, e il 1° aprile 1998, con l’abolizione delle frontiere marittime e terrestri. Si concludeva, così, un intenso processo di europeizzazione della politica immigratoria italiana che aveva visto il paese, e la sua classe dirigente, prima piegarsi e poi aderire a una concezione che, comunque, era nata e si era sviluppata fuori dalla sua cultura e dalla sua tradizione politica.

 

____________

Simone Paoli, Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali, Università di Padova

 

Nb Si tratta di una bozza. Può essere utilizzata e citata solo su autorizzazione dell’autore

 

 

 


[i] Accordo fra i governi degli stati dell’Unione economica Benelux, della Repubblica federale di Germania e della Repubblica francese relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, Schengen, 14/6/1985.

[ii] Le principali personalità che, in ambito democristiano, presero le distanze da questo generale atteggiamento di critica o, quantomeno, di cautela verso l’accordo di Schengen, e il modello di politica immigratoria che prefigurava, furono l’allora ministro dell’Interno Antonio Gava e, soprattutto, l’allora ministro degli Affari Esteri Giulio Andreotti. Seppur con sensibilità, e accentuazioni, diverse, infatti, entrambi difesero la scelta di aderire all’accordo di Schengen sulla base dell’opportunità di preservare l’alleanza strategica con i paesi membri delle CE, della convenienza di beneficiare dei vantaggi relativi alla speditezza delle operazioni di frontiera e della necessità, comunque, di porre un freno all’immigrazione, soprattutto clandestina, in un paese che non era economicamente, socialmente e culturalmente pronto a sopportare flussi migratori significativi. Camera dei deputati, Immigrazione e condizione dello straniero. Indagine conoscitiva della I Commissione Affari Costituzionali e testi normativi conseguenti (novembre 1988-dicembre 1989), Roma, Camera dei deputati. Servizio informazione parlamentare e relazioni esterne – Ufficio pubblicazioni, 1990.

[iii] Senato della Repubblica, Atti parlamentari, X Legislatura, 350a Seduta pubblica, Resoconto stenografico, Roma, 27/2/1990, p. 8.

[iv] Ivi, p. 19.

[v] Carlo Ripa di Meana, “I rischi di un’immigrazione incontrollata. I Dodici e i lavoratori stranieri”, in Il Messaggero, 24/2/1990.

[vi] Ivi.

[vii] Gianfranco Pasquino, “Cinque domande sull’immigrazione extracomunitaria in Italia. Rispondono: Laura Balbo, Fausto Bertinotti, Ottaviano Del Turco, Massimo Pivetti, Domenico Rosati”, in Franco Zannino (ed), Immigrati, non cittadini?, Milano, FrancoAngeli, 1990, p. 19.

[viii] Redazione, “Immigrati: Dichiarazioni di Craxi. No a inutili promesse: «Martelli ha fatto un buon lavoro»”, in Avanti!, 16/2/1990.

[ix] Archivi Nazionali Francesi (ANF), Archivi di Thierry Bert (ATB), Ministère des Affaires Étrangères, Télégramme. Objet: Délivrance abusive de visas Italiens a des ressortissants Algériens, Paris, 1/7/1992.

[x] Senato della Repubblica, Atti parlamentari, XI Legislatura, 71a Seduta pubblica, Resoconto stenografico, Roma, 19/11/1992, p. 35.

[xi] Camera dei deputati della Repubblica, Atti parlamentari, XI Legislatura, Resoconto stenografico, Roma, 5/8/1993, pp. 17510-17511.

[xii] Durante la Conferenza nazionale dell’immigrazione tenutasi a Roma tra il 4 e il 6 giugno 1990, l’allora segretario generale del PCI, Achille Occhetto, aveva affermato che «siamo contrari all’adesione dell’Italia ad accordi come quello di Schengen perché si tratta appunto di individuare strategie comunitarie e non di gruppi di paesi, oltre che per il fatto essenziale che si tratta di un accordo il quale affronta secondo un’ottica inammissibile, sostanzialmente in termini di polizia, una questione così rilevante qual è quella dell’immigrazione». Achille Occhetto, “Intervento”, in Presidenza del Consiglio dei Ministri, Atti della Conferenza nazionale dell’immigrazione, Roma, 4-6 giugno 1990, Roma, Editalia, 1991, p. 415.

[xiii] Camera dei deputati della Repubblica, Atti parlamentari, XI Legislatura, Resoconto stenografico, Roma, 5/8/1993, pp. 17528.

[xiv] Senato della Repubblica, Atti parlamentari, XI Legislatura, 71a Seduta pubblica, Resoconto stenografico, Roma, 19/11/1992, pp. 51-52.

[xv] Guglielmo Negri, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo presieduto da Lamberto Dini tra l’inizio del 1995 e l’inizio del 1996, ammise che «i problemi sono apparentemente semplici, ma tecnicamente complessi; per esempio, la costruzione della rete telematica al Ministero degli Affari Esteri che prevede l’utilizzazione di 180 operatori e la segnalazione di circa 750.000 visti consolari alla banca centrale di Strasburgo». Guglielmo Negri, Un anno con Dini. Diario di un governo «eccezionale», Bologna, Il Mulino, 1996, p. 86.

[xvi] Giorgio Napolitano, Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 301.

[xvii] Camera dei deputati della Repubblica, Atti parlamentari, XIII Legislatura, Resoconto stenografico, Roma, 30/9/1997, p. 42.

[xviii] Camera dei deputati della Repubblica, Atti parlamentari, XIII Legislatura, Resoconto stenografico, Roma, 23/10/1997, p. 79.

[xix] Legge 6 marzo 1998, n. 40, “Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, GU n. 59, 12/3/1998.

[xx] Camera dei deputati della Repubblica, Atti parlamentari, XIII Legislatura, Resoconto stenografico, Roma, 30/9/1997, p. 42.

[xxi] Camera dei deputati della Repubblica, Atti parlamentari, XIII Legislatura, Resoconto stenografico, Roma, 17/11/1997, p. 45.

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    By: Simone Paoli

    Simone Paoli, dottore di ricerca in Storia delle Relazioni Internazionali presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze, Simone Paoli è attualmente assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali dell’Università di Padova nell’ambito del progetto «Changing Patterns in Migration Policies and Flows in the Euro-Mediterranean Area from the Oil Crisis to the 1995 Barcelona Declaration». Autore de “Il sogno di Erasmo. La questione educativa nel processo di integrazione europea” e coautore di “Politica di potenza e cooperazione. L’organizzazione internazionale dal Congresso di Vienna alla globalizzazione”, Paoli è esperto in storia dell’integrazione europea e delle relazioni euro-mediterranee, con particolare riferimento alle dinamiche migratorie internazionali.

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    Le relazioni migratorie euromediterranee: una cronologia commentata (1945-1995)

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