03L’obiettivo di questa ricerca di dottorato è analizzare il consumo di televisione tra le classi popolari nell’Italia degli anni cinquanta e sessanta. Coincidendo con gli anni del cosiddetto «miracolo economico», questo periodo sembra offrirci un’opportunità per provare a elaborare un primo tentativo di storia culturale dei pubblici televisivi che possa contribuire all’elaborazione di una più ampia storia sociale della televisione italiana, ancora tutta da scrivere. Partendo dalle origini, si cercherà di tracciare una storia del pubblico popolare attraverso i mutamenti della società di quegli anni, ribaltando la consueta prospettiva gerarchica degli studi sulla televisione italiana. Tradizionalmente, la storiografia italiana non sembra aver concesso particolare attenzione allo studio dei mezzi di comunicazione di massa. Spesso si è preferito lasciare ai sociologi, agli antropologi e ai massmediologi il compito di scrivere larghe porzioni della storia della televisione italiana, con esiti certamente preziosi per la stessa storiografia nazionale, seppur con un riscontro piuttosto limitato[1].
Per raccogliere parte di questa difficile eredità, conviene da subito fare riferimento a quella «svolta etnografica» che ha ispirato i cultural studies anglosassoni a partire dalla fine degli anni settanta. Da questo momento in poi, infatti, si costituisce un nuovo paradigma scientifico, un cambiamento di prospettiva attraverso cui poter affrontare lo studio dei mezzi di comunicazione di massa ponendo al centro del dibattito un’idea sociale di audience[2]. Adottare un approccio etnografico significa soprattutto «concettualizzare il consumo del pubblico dei media come esperienza vissuta», sovvertire il tradizionale punto di osservazione sui media e andare oltre i dispositivi di rilevazione del pubblico proposti dall’industria culturale[3]. La maggioranza degli autori che ha adottato questo sguardo etnografico sui pubblici si è inserita, agli inizi degli anni ottanta, nei dibattiti attorno alla facoltà dei media di determinare i significati consumati dai loro pubblici e, più in generale, alle interazioni tra cultura e potere[4]. Le prime riflessioni feconde che si distanziano dal determinismo della scuola di Francoforte[5] fanno riferimento soprattutto al Media Group del Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS), già fondato nel 1964 da Richard Hoggart presso l’Università di Birmingham. Per la prima volta, questi studiosi invitano a interpretare gli spettatori come «decodificatori» attivi del testo mediale, con il quale i pubblici pongono in essere una negoziazione in base alla propria posizione sociale, culturale, economica e geografica. I principali artefici di questa teoria sociale della soggettività sono i teorici della cultura Stuart Hall, David Morley e Raymond Williams, tra i padri ispiratori degli studi culturali[6].
Su questo percorso teorico, attorno alla metà degli anni ottanta si cercano di definire le articolazioni del consumo in base ai gusti dei diversi pubblici. Nel tentativo di colmare le carenze delle prime teorie della scuola di Birmingham, questo nuovo approccio, empiricamente etnografico, tenta di analizzare il modellamento delle preferenze dei pubblici attraverso la definizione dei contesti sociali del consumo mediale. Gli studi più interessanti in questo senso provengono certamente dalla critica culturale femminista[7], che riprende in larga parte le riflessioni di Pierre Bourdieu sui gusti, i generi e l’habitus[8]. La sostanza di questo nuovo approccio empirico viene recuperato negli Stati Uniti da James Lull, in Germania da Hermann Bausinger e in Inghilterra dallo stesso Morley[9]. Si definisce, pertanto, uno studio del consumo dei media fondato sull’analisi dei generi e dei contesti di ricezione nel quotidiano, con particolare attenzione alla sfera domestica e alle relazioni familiari. In questo specifico campo di ricerca si collocano le riflessioni dei primi anni novanta sugli usi culturali e simbolici dei dispositivi mediali di Shaun Moores e Roger Silverstone[10]. Questa nuova tendenza nello studio del consumo dei media coincide con un nuovo interesse generale per le analisi dei pubblici televisivi[11], con particolare riferimento alle relazioni che essi instaurano con la cultura popolare, di cui i massmediologi britannici John Fiske e John Hartley rappresentano certamente i pionieri[12].
La tendenza generale di questi studi nel concentrarsi esclusivamente sull’analisi dei pubblici nel presente corrisponde all’oggettiva difficoltà di collocare in una prospettiva storica i processi del consumo mediale. Come ha osservato Mariagrazia Fanchi, un approccio storico ed estensivo ai pubblici televisivi risponderebbe «all’esigenza di affrancare gli studi sull’audience da un preciso paradigma (quello resistenziale degli anni Ottanta) che è ormai superato, e di mostrare la loro praticabilità all’interno di contesti teorici e modelli interpretativi eterogenei e in diversi momenti della storia dei media»[13]. Per questo, tentare di storicizzare l’analisi dei pubblici televisivi vuol dire riconoscerne la varietà delle pratiche di fruizione nei mutamenti spaziali e temporali, mettendone a fuoco i processi di dislocazione culturale e soggettivazione di classe nelle trasformazioni storiche[14].
Consumi televisivi e classi subalterne
Per raggiungere i nostri obiettivi, è possibile riportare la categoria di classe al centro del dibattito culturale e storiografico; non assolutizzando, quindi, l’analisi di classe stessa, ma individuando al suo interno una struttura sociale e culturale complessa, nella quale convivono, allo stesso tempo, mobilità, flessibilità e reversibilità[15]. La nostra analisi vuole partire da un gruppo sociale eterogeneo, che proveremo a definire «classe popolare», che muta nel tempo secondo modalità differenziate ma a partire da una stessa pratica che, in questo caso, ne accomuna i singoli elementi: l’esperienza televisiva. Nella categoria storica di «classe popolare» abbiamo deciso di includere tutte e tutti coloro che lavorarono come operai e contadini nell’Italia degli anni cinquanta e sessanta. Il presupposto è quello che i processi di diversificazione e ricomposizione di classe siano dei fenomeni perennemente attivi e mutabili a livello storico. Pertanto, al fine di rintracciare l’eterogeneità delle situazioni e la pluralità di modi di sentirsi parte dello stesso gruppo sociale, essi andrebbero indagati e interrogati continuamente in base ai contesti di riferimento[16].
Lo studio di Maurizio Gribaudi sulla formazione sociale dei primi gruppi operai nella Torino degli inizi del Novecento, ci suggerisce di spingere la nostra analisi delle strutture di classe al di fuori dei rapporti sociali di produzione che regolano la realtà del lavoro professionale – tra tutti, la fabbrica – e di spostare così la nostra attenzione verso la socialità e i luoghi fisici della vita popolare, individuale e familiare. In questo senso, la centralità dal lavoro in quanto professione viene abbandonata in favore di una dimensione comunitaria che definisce più specificamente la condizione operaia nella sua caratteristica fluidità, proiettandola nel tempo libero e nella quotidianità, in una realtà antropologicamente più complessa. Da questo punto di partenza, non possiamo che avanzare dei dubbi circa l’esistenza di una cultura popolare univoca, aggregatrice, monolitica, con un’identità solidificata. Una delle condizioni per continuare a leggere le culture delle classi subalterne come culture di classe – soprattutto quelle più legate geograficamente a realtà operaie – è proprio quella di non sottovalutare gli elementi e le contraddizioni del mondo contadino che ne fanno intimamente parte[17].
Le basi della formazione di quella che chiameremo «cultura popolare» sono certamente da rintracciarsi nelle reazioni culturali alla formazione e allo sviluppo del capitalismo industriale alla fine del XIX secolo. Il significato di cultura popolare è stato spesso ricondotto alla questione del mantenimento delle tradizioni popolari contro il tentativo di «rieducazione» culturale, operato dal capitale. D’altronde, il concetto di cultura popolare, almeno nei primi anni della sua formazione, è stato più volte assimilato a quello di cultura operaia, limitando l’aspetto relativo alle tradizioni culturali e folcloristiche unicamente alle resistenze del mondo contadino[18]. Per comprendere al meglio di cosa stiamo parlando, è possibile sottoporre il fenomeno ai mutamenti e alle trasformazioni sociali che esso stesso subisce di fronte all’avvento della modernità. Il punto di vista critico che vogliamo adottare muove dalla consapevolezza di come questo «terreno», sul quale operano le trasformazioni della modernizzazione, si delinei come un campo di battaglia tra la «resistenza» delle tradizioni popolari e l’«educazione» alla modernità. Quest’ottica viene, in un certo senso, ribaltata dalla situazione politica e culturale in cui si trova l’Italia del «miracolo»: da un lato, infatti, assistiamo a delle spinte dal basso che, attraverso l’ambizione al progresso, conducono le classi popolari verso la modernità, mentre dall’altro sembra che siano le classi dirigenti stesse a operare, dall’alto, una politica di «ri-educazione alla tradizione», quasi di «resistenza alla modernità»[19]. Su questo campo si gioca la sfida della cultura popolare: nel suo mutare in quanto fenomeno storico di fronte all’avvento della televisione, nella traslazione, cioè, della nozione di «popolare» da una concezione folcloristica e tradizionalista a una nuova idea, certamente più inafferrabile, strettamente legata al percorso delle classi popolari verso il benessere e la modernità.
Il punto di partenza delle nostre riflessioni sul rapporto tra cultura popolare e formazione delle soggettività di classe è rintracciabile nella ricerca effettuata dallo storico inglese Jonathan Rose sulle identità delle «working classes» britanniche a cavallo tra Ottocento e Novecento attraverso il filtro dei consumi culturali. L’analisi di Rose parte da una domanda sostanziale: com’è possibile sviluppare un’indagine a partire da una teoria del responso culturale tra le classi popolari? Prendendo spunto dagli studi di Robert Darnton[20], l’autore teorizza che per porre le basi di una storia dei consumi culturali sia prima di tutto necessario partire dalle memorie personali, dai diari, dalle esercitazioni scolastiche, per poi continuare con indagini sociali, interviste orali, registri bibliotecari, lettere inviate ai giornali – sia pubblicate che non – o agli autori/personaggi stessi. Tra tutte queste fonti, Rose sostiene che le più utili siano le proprio autobiografie: attraverso lo studio dei diari e delle memorie, che non rappresentano aprioristicamente la classe di appartenenza di chi li produce, è possibile infatti individuare la coesistenza di diverse tipologie sociali all’interno della stessa classe. La scelta individuale di cosa raccontare o meno della propria storia diventa, quindi, parte integrante della formazione di un’identità soggettiva. La maggioranza di questi documenti, tradizionalmente rigettati dalla «borghesia editoriale», vanno ad assumere la valenza di fonti inedite e primarie per lo studio della storia delle classi popolari[21]. Secondo Danilo Montaldi, l’esistenza di autobiografie compilate da soggetti che appartengono a un contesto popolare assegna a qualsiasi ricerca che se ne avvale il compito di «portare sul terreno di una più vasta conoscenza i profondi motivi d’origine che le hanno suscitate, di stabilire attraverso questi documenti […] una comunicazione col resto sociale»[22].
In questo senso, diventa possibile fare una «history of audiences» che sia una storia sociale e culturale del pubblico, una storia dei consumi culturali che possa focalizzarsi sui lettori, sui fruitori, sugli ascoltatori. Secondo Rose, è necessaria una nuova storia che possa interrogarsi su come le masse interpretano e raccontano il contesto culturale che loro stessi contribuiscono a costruire, determinando una «educazione di classe» che influenza l’orientamento politico dei singoli individui[23]. In questo senso, assume una centralità portante l’esistenza di una cultura popolare prodotta sulle – e orientata verso – le classi subalterne. Al centro della rielaborazione del concetto di identità di classe, quindi, vanno poste le relazioni tra i soggetti che appartengono alla classe stessa e le pratiche discorsive messe in atto all’interno di essa. Se negli anni del «miracolo» l’importanza della classe operaia italiana nella definizione di una cultura popolare in senso nazionale sembra determinante, è possibile adottare la ridefinizione di Edward P. Thompson del concetto di classe, più come identificativa delle relazioni culturali tra uomini che condividono esperienze e interessi comuni che come struttura statica pre-ordinata fondata, in esclusiva, sulle dinamiche economiche e politiche[24]. Se poste in relazione al contesto storico in cui si situano – lo sviluppo economico, le migrazioni interne, l’avvento della televisione – le identità non possono più essere analizzate come categorie unitarie e immutabili, ma come processi costruiti «mediante discorsi, pratiche e posizioni diverse, che spesso s’intersecano in modo conflittuale»[25].
La definizione delle identità ha a che fare con il problema della costruzione storica di un immaginario soggettivo in continuo movimento. Il nodo centrale di questo discorso è, però, comprendere le modalità con cui l’identità si struttura attraverso la differenza, e riconosce se stessa rispetto a ciò che è altro da sé. È proprio nell’interrogarsi sui limiti della correlazione tra identità e alterità, in una prospettiva affine a quella di Foucault, che è possibile rintracciare i mutamenti di uno specifico gruppo sociale, comprendendone l’identità in quanto gruppo[26]. La soggettività, a differenza però di quanto traspare dall’opera di Foucault, non sparisce all’interno del gruppo, ma assume un’altra prospettiva: è tramite la narrazione di sé, l’auto-rappresentazione, che il soggetto si riconosce nel gruppo e, allo stesso tempo, ne va a definire una componente identitaria[27]. Per questo, abbiamo individuato nei racconti autobiografici – diari, memorie, lettere – un prezioso strumento, oltre che di conoscenza dei soggetti, anche di analisi dei dispositivi di formazione della memoria, delle esperienze, delle identità che coinvolgono i soggetti stessi e che, al tempo stesso, rappresentano processi sostanziali per la formazione delle identità collettive[28].
La posizione teorica fin qui tracciata deve essere interpretata come una prospettiva aperta, da integrare cioè con una ricerca empirica, potremmo dire etnografica oltreché storica, che ci permetta di andare al di là delle tradizionali classificazioni stagne della società[29]. Come ha osservato Paolo Capuzzo, la classe sociale rappresenta soprattutto «il luogo nel quale le culture del consumo mostrano le loro relazioni con precisi contesti materiali, con le modalità di organizzazione dello spazio di vita e con i vincoli posti dai regimi di produzione e distribuzione»[30]. Per interpretare, quindi, le differenze di consumo culturale tra le diverse classi – o all’interno della stessa classe – è necessario analizzare gli usi sociali cui si prestano i vari ambiti culturali, sia per quelli che Bourdieu definisce «più legittimi» – pittura, musica, teatro, letteratura, etc. –, sia per quelli relativi ai gusti popolari – fotografia, cinema, televisione[31]. Studiando, quindi, soprattutto il processo storico in cui essi si definiscono socialmente rispetto agli altri. Non limitandoci, però, a ricondurre astrattamente il gusto alle condizioni sociali di cui è prodotto, dobbiamo interrogare empiricamente questo rapporto bilaterale[32]. Ad esempio, a partire da un’inchiesta condotta tramite un migliaio di questionari tra il 1963 e il 1968 in Francia, Bourdieu verifica quanto l’ostilità delle classi popolari nei confronti di qualsiasi tipo di ricerca formale aumenti in relazione alla diminuzione della «legittimità» delle produzioni culturali. Nello specifico, il sociologo francese rileva come la disposizione popolare nei confronti della cultura sia essenzialmente basata su una profonda attesa di partecipazione che, in qualche modo, richiama quell’illusione della verità su cui si basa buona parte della cultura popolare. In questa dinamica dello sguardo, la ricerca formale è accettata dallo spettatore popolare unicamente se finisce per non ostacolare la percezione della sostanza dell’opera, così come il rapporto spontaneo che si instaura tra rappresentazione e ricezione[33]. Per essere più precisi, «lo spettacolo popolare è quello che produce in modo inseparabile la partecipazione individuale dello spettatore allo spettacolo e la partecipazione collettiva alla festa di cui lo spettacolo costituisce l’occasione»[34].
Il discorso bourdesiano sui gusti popolari può certamente essere applicato all’Italia, nello specifico ai consumi televisivi delle classi popolari. La televisione, infatti, può affermarsi come la massima espressione di quelle che Bourdieu stesso definisce arti «non legittime», ovvero quelle produzioni culturali che maggiormente si avvicinano al gusto popolare. Solitamente, i programmi televisivi appiattiscono qualsiasi tipo di ricerca formale in funzione di una maggiore partecipazione da parte del pubblico: non ci riferiamo soltanto agli spettacoli televisivi che prevedono l’intervento attivo degli spettatori – i quiz – ma alla natura stessa di quelle produzioni – varietà, dibattiti, programmi di approfondimento, etc. – che non prevedono alcun tipo di contemplazione artistica. Gli stessi sceneggiati televisivi dei primi anni sembrano semplificare il problema dell’estetica della rappresentazione in favore della linearità narrativa e della semplicità delle vicende. Secondo Bourdieu, i membri delle classi popolari tendono ad aspettarsi che da ogni immagine che fruiscono emerga una funzione della rappresentazione. La bellezza dell’immagine, quindi, è inseparabilmente connessa alla bellezza di ciò che viene rappresentato: non è tanto l’estetica della rappresentazione, bensì quella della realtà stessa, a muovere il giudizio formale delle classi popolari[35]. Si verifica, quindi, quella che il massmediologo belga Nico Carpentier ha descritto come «partecipazione alla vita sociale attraverso i media», in contrapposizione alla «partecipazione ai media» intesa in senso stretto come partecipazione alla cittadinanza attraverso la collaborazione diretta alle produzioni mediali[36].
La televisione, infatti, si lega indissolubilmente alle vicende culturali delle classi popolari soprattutto per quanto concerne le dinamiche dell’ascolto collettivo e individuale, ovvero ciò che, come abbiamo visto, Bourdieu individua come «festa»: lo spettacolo, cioè, come occasione di partecipazione. Se pensiamo alla diffusione dell’ascolto collettivo della televisione italiana tra gli anni cinquanta e sessanta, questa prospettiva teorica ed empirica può risultare particolarmente preziosa. Ponendo al centro della questione le soggettività dei consumatori/spettatori, si vorrebbe capire come un mezzo di consumo di massa sia diventato un mezzo di diffusione di cultura di massa, e studiare come questa cultura sia stata trasmessa, recepita, applicata nel quotidiano, dal basso, in una dimensione individuale e collettiva. Si tratta di capire, cioè, come la televisione sia intervenuta rispetto a un tessuto quotidiano fatto di scambi, luoghi ed eventi che segnano profondamente il paesaggio della memoria sul lungo periodo, contaminando il passato raccontato con il presente del racconto[37]. Tale prospettiva culturale sarà comunque integrata con un’analisi dei contesti storico-politici che hanno contribuito a definire i fenomeni dell’ascolto popolare. Applicare, quindi, il metodo bourdesiano allo studio del consumo televisivo, dello sviluppo della cultura popolare e dei suoi contesti storico-politici degli anni del «miracolo» è il punto di partenza di questa ricerca[38].
Fonti e struttura della tesi
Divisa in tre capitoli tematici, la narrazione della tesi seguirà all’interno di questi un andamento orientativamente cronologico. Nel primo capitolo si tenteranno di definire i tempi e le modalità tramite cui l’avvento della televisione in Italia abbia modificato le abitudini sociali delle classi popolari, sia nelle zone più disagiate che in quelle gradualmente industrializzate. Oltre ad analizzare nello specifico le dialettiche centro/periferia e città/campagna, vedremo i passaggi attraverso cui il fenomeno pubblico dello «andare alla televisione» si sia trasformato, nel corso degli anni, in un processo essenzialmente privato, seppur con un notevole ritardo rispetto a ciò che accade tra i ceti più abbienti. I processi connessi alla modernizzazione sociale e culturale, infatti, sembrano andare di pari passo con quelli legati all’industrializzazione del paese e all’avvento del «miracolo». Sulla scia delle contraddizioni e degli squilibri generati da questo apparente benessere diffuso, vedremo nel secondo capitolo come la televisione sia andata ad assumere una specifica funzione simbolica legata alla modernità, inserendosi esattamente nel solco tra beni di consumo durevole e consumi culturali. Per questi due capitoli, saranno prese in esame le indagini sugli ascoltatori televisivi effettuate dal Servizio Opinioni della Rai a partire dal 1954, materiale largamente inedito e interamente conservato dalla Biblioteca Comunicazioni di massa della Rai presso la sede di via Teulada, a Roma. Queste fonti quantitative[39] saranno intrecciate con l’analisi effettuata su circa 120 memorie, autobiografie, e diari, conservati presso l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano (Arezzo), di uomini e donne che furono testimoni dell’avvento della televisione nelle proprie vite. Nel terzo e ultimo capitolo, il più corposo, metteremo a confronto gli atteggiamenti intellettuali delle due principali culture politiche del dopoguerra con il responso popolare alle trasmissioni televisive da parte degli spettatori sia cattolici che comunisti. In una fase preliminare, i dibattiti politici e intellettuali all’interno del Partito comunista italiano e della Democrazia cristiana saranno utilizzati per capire in che modo i due partiti di massa, e il mondo culturale a loro circostante, si siano posizionati rispetto alle trasformazioni prodotte dalla televisione, valutando in che misura queste prese di posizione abbiano inciso sulla percezione soggettiva dei ceti subalterni. L’incredibile quantità di riferimenti agli spettacoli televisivi rintracciati nelle rubriche dei lettori dei due settimanali illustrati più letti degli anni cinquanta e sessanta, il comunista «Vie Nuove» e il cattolico «Famiglia Cristiana», ci mette di fronte a una «presa di parola»[40] di massa, che ci suggerisce la possibilità di intersecare vari piani identitari – politico, sociale, culturale, mediatico – nella ridefinizione di una nuova soggettività, individuale e sociale. Questo confronto, che potrebbe apparire figlio di una visione manichea della storia recente, vorrebbe piuttosto funzionare da spunto metodologico per cominciare a studiare i posizionamenti di tutte quelle culture politiche – dai socialisti alla destra sociale, dai liberali ai repubblicani – raramente considerati dalla storiografia nazionale all’interno delle già scarse analisi storiche delle culture politiche dell’Italia repubblicana. Senza alcuna pretesa di esaustività, questa ricerca vorrebbe rappresentare un primo approdo verso una storia sociale della televisione italiana che, a distanza di sessant’anni dalla prima immagine trasmessa sul piccolo schermo, deve ancora per larghi tratti essere scritta.
[1] Ci riferiamo in particolare ai classici Aldo Grasso, Storia della televisione italiana, Milano, Garzanti, 1992 e Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, Venezia, Marsilio, 1992. Inoltre, sono da menzionare: Alberto Abruzzese, Lo splendore della TV. Origini e destino del linguaggio audiovisivo, Genova, Costa & Nolan, 1995; Francesco Casetti, Analisi della televisione. Strumenti, metodi e pratiche di ricerca, Milano, Bompiani, 1997; Enrico Menduni, Televisione e società italiana (1975-2000), Milano, Bompiani, 2002; Schermi d’autore. Intellettuali e televisione, 1954-1974, a cura di Aldo Grasso e Massimo Scaglioni, Roma, Rai-ERI, 2002; Mario Morcellini, Il Mediaevo. Industria culturale, TV e tecnologie tra XX e XXI secolo, Roma, Carocci, 2005; Fausto Colombo, Il paese leggero. Gli italiani e i media tra contestazione e riflusso, Roma-Bari, Laterza, 2012; Carlo Freccero, Televisione, Torino, Bollati Boringhieri, 2013. Tra i pochi contributi sulla televisione di storici è opportuno ricordare: Peppino Ortoleva, Un ventennio a colori. Televisione privata e società in Italia, 1975-1995, Firenze, Giunti, 1995; Francesca Anania, Davanti allo schermo. Storia del pubblico televisivo, Roma, Carocci, 1999; Giulia Guazzaloca, Una e divisibile. La Rai e i partiti negli anni del monopolio pubblico (1954-1975), Firenze, Le Monnier, 2011; Giovanni Gozzini, La mutazione individualista. Gli italiani e la televisione, 1954-2011, Roma-Bari, Laterza, 2011. Segnalo, infine, il recente volume Storie e culture della televisione italiana, a cura di Aldo Grasso, Milano, Mondadori, 2013 e il numero monografico Televisionism, a cura di Chiara Bonfiglioli, Andrea Hajek e Monica Jansen, «The Italianist», vol. 4, n. 2, 2014.
[2] Cfr. Mariagrazia Fanchi, Identità mediatiche. Televisione e cinema nelle storie di vita di due generazioni di spettatori, Milano, Franco Angeli, 2002, p. 9.
[3] Shaun Moores, Interpreting Audiences. The Ethnography of Media Consumption, London, Sage, 1993, trad. it. Il consumo dei media. Un approccio etnografico, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 10-11. L’etnografia come metodo di indagine storica ci suggerisce di adottare uno approccio qualitativo alle fonti, ammettendo così l’esistenza di uno sguardo soggettivo del ricercatore stesso senza, però, che venga destrutturato l’oggetto dell’indagine. Cfr. Paul Atkinson, The Ethnographic Imagination. Textual Constructions of Reality, London, Routledge, 1990.
[4] Cfr. Miguel Mellino, Teoria senza disciplina. Conversazione sui «Cultural Studies» con Stuart Hall, in «Studi Culturali», 2/2007, Bologna, Il Mulino, pp. 310-311.
[5] Ci riferiamo soprattutto alle considerazioni di Adorno e Horkheimer sull’industria culturale e all’approccio semiotico, psicanalitico e althusseriano della rivista britannica «Screen», cfr. Theodor Adorno e Max Horkheimer, Dialektik der Aufklärungtrad, Amsterdam, Querido, 1947, trad. it., Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi, 1997, pp. 126-181 e Shaun Moores, Interpreting Audiences, pp. 25-60.
[6] Cfr. Stuart Hall, Encoding and decoding, in Culture, Media, Language. Working Papers in Cultural Studies, 1972-1979, a cura di Stuart Hall, Dorothy Hobson, Andrew Lowe e Paul Willis, London, Routledge, 1980, pp. 128-138, trad. it. Codificazione/decodificazione, in Stuart Hall, Politiche del quotidiano, cit., pp. 43-44; David Morley, The Nationwide Audiences, London, BFI, 1980; Raymond Williams, Television. Technology and Cultural Form, London, Fontana, 1974, trad. it. Televisione. Tecnologia e forma culturale, Bari, De Donato, 1981.
[7] Cfr. Janice Radway, Reading the Romance. Women, Patriarchy and Popular Literature, London, Verso, 1984.
[8] Cfr. Pierre Bourdieu, La distinction, Paris, Les édititions de minuit, 1979, trad. it. La distinzione. Critica sociale del gusto, a cura di Marco Santoro, Bologna, Il Mulino, 2001.
[9] Cfr. James Lull, Inside Family Viewing. Ethnographic Research on Television’s Audience, London, Routledge, 1990, trad. it. In famiglia, davanti alla TV, Roma, Meltemi, 2003; Hermann Bausinger, Media, Technology and Daily Life, in «Media, Culture and Society», n. 6, 1984, pp. 343-351; David Morley, Family Television. Cultural Power and Domestic Leisure, London, Sage, 1986.
[10] Cfr. Shaun Moores, Satellite TV as a Cultural Sign. Consumption, Embedding and Articulation, in «Media, culture and society», n. 15, 1993, pp. 621-639; id., Televsion Geography and «Mobile Privatisation», in «European Journal of Communication», n. 3 vol. 8, 1993, pp. 365-379; Cfr. Roger Silverstone, Television and Everyday Life, London-New York, Routledge, 1994, trad. it. Televisione e vita quotidiana, Bologna, Il Mulino, 2001
[11] Cfr. Media Making. Mass Media in a Popular Culture, a cura di Larry Grossberg, Ellen A. Wartella, D. Charles Whitney e J. Macgregor Wise, London, Sage, 1998.
[12] Cfr. John Fiske e John Hartley, Reading Television, London, Mehuen & Co., 1978.
[13] Cfr. Mariagrazia Fanchi, L’audience. Storia e teoria, Roma-Bari, Laterza, 2014, p. XV.
[14] Sull’utilizzo delle storie di vita per l’analisi dei pubblici cinematografici, cfr. Jérôme Bourdon, Spectator culture as popular culture: life stories of moviegoers in contemporary France, in «Compar(a)ison», n. 2/2002, pp. 125-146.
[15] Giorgio Baratta, Stuart Hall. La politica della cultura, in Stuart Hall, Politiche del quotidiano. Culture, identità e senso comune, a cura di Giovanni Leghissa, Milano, Il Saggiatore, 2006, p. 13.
[16] Questo è ciò che ci hanno insegnato gli studi pionieristici, ma ancora oggi attuali, sulla formazione identitaria della classe operaia inglese di Edward P. Thompson. Cfr, tra tutti, Edward P. Thompson, The Making of the English Working Class, London, Gollancz, 1963, trad. it. Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Milano, Mondadori, 1969.
[17] Cfr. Maurizio Gribaudi, Mondo operaio e mito operaio. Spazi e percorsi sociali a Torino nel primo Novecento, Torino, Einaudi, 1987.
[18] Per una rassegna del pensiero storiografico sulla cultura popolare, con particolare riferimento all’età moderna, cfr. Francesco Benigno, Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Roma, Viella, 2013, cap. 3.
[19] In un certo senso, questa dialettica è riscontrabile anche nel rapporto tra fascismo italiano, paradigma della modernità e opinione pubblica tra gli anni venti e trenta, cfr. Ruth Ben-Ghiat, La cultura fascista, Bologna, Il Mulino, 2004 e il volume collettaneo Modernità totalitaria. Il fascismo italiano, a cura di Emilio Gentile, Roma-Bari, Laterza, 2008, in particolare i saggi di Niccolò Zapponi e Zeev Sternhell.
[20] Cfr. Robert Darnton, The Kiss of Lamourette, New York, Norton, 1990, p. 212.
[21] Jonathan Rose, The Intellectual Life of the British Working Classes, New Haven and London, Yale University Press, 2001, pp. 1-5.
[22] Danilo Montaldi, Autobiografie della leggera, Torino, Einaudi, 1961, pp. 40-41.
[23] Jonathan Rose, The Intellectual Life of the British Working Classes, pp. 5-11.
[24] Edward P. Thompson, The Making of the English Working Class, cit..
[25] Stuart Hall, Who needs “Identity”?, in Questions of Cultural Identity, a cura di Stuart Hall e Paul Du Gay, London-Thousand Oaks-New Dehli, Sage, 1996, pp. 1-17, trad. it. Chi ha bisogno dell’«identità»?, in Stuart Hall, Politiche del quotidiano, cit., p. 316.
[26] Su identità e alterità, cfr. Michel Foucault, Préface, in Folie et Déraison. Histoire de la folie à l’âge classique, Paris, Plon, 1961, trad. it. Prefazione, in Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1963, p. 51 e Michel Foucault, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Paris, Gallimard, 1966, trad. it. Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli, 1967, p. 14.
[27] Cfr. Luisa Passerini, Autoritratto di gruppo, Firenze, Giunti, 1988. Per la celebre critica a Foucault, cfr. Judith Butler, Bodies that Matter, On the Discursive Limits of “Sex”, London, Routledge, 1993, trad. it. Corpi che contano. I limiti discorsivi del sesso, Milano, Feltrinelli, 1996.
[28] Sul rapporto tra identità mediatiche e memoria culturale, cfr. Mariagrazia Fanchi, Identità mediatiche, cit., pp. 31-50.
[29] Cfr. Pierre Bourdieu e Loïc Wacquant, Réponse. Pour une anthropologie réflexive, Paris, Seuil, 1992, trad. it. Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, p. 66.
[30] Paolo Capuzzo, Culture del consumo, cit., p. 205.
[31] In realtà, con il passare degli anni Bourdieu svilupperà un atteggiamento fortemente critico nei confronti del mezzo televisivo. Sull’incidenza dell’informazione televisiva nella vita politica, culturale e democratica, con particolare riferimento al caso francese, cfr. Pierre Bourdieu, Sur la télévision. Suivi de l’emprise du journalisme, Paris, Liber, 1996, trad. it., Sulla televisione, Milano, Feltrinelli, 1997.
[32] Secondo Hall stesso, «prendere in prestito significa sempre “tradurre”, impossibile pensare che termini e concetti possano avere sempre e dovunque lo stesso significato. Per questo, mi piace affermare che fare teoria significa sempre lavorare con termini “sotto cancellatura” – per riprendere un’espressione di Derrida –, nel senso che è impossibile pensare soggetti, lotte, termini e concetti nello stesso modo in cui sono stati pensati prima», in Miguel Mellino, Teoria senza disciplina, cit., p. 316. Per questo, per la nostra ricerca è bene tenere presenti le considerazioni teoriche elaborate dagli studi culturali britannici considerandone, tuttavia, una specificità del tempo e del contesto in cui sono state perfezionate e applicate. Sull’applicabilità degli studi culturali ad altri contesti nazionali da quello britannico e sullo sviluppo degli studi postcoloniali, cfr. Giuliana Benvenuti, Politiche della tradizione. «Translation studies» e studi postcoloniali, in «Studi Culturali», n. 2/2009, Bologna, Il Mulino, pp. 243-256; Miguel Mellino, Il lato oscuro della Englishness, cit.
[33] Pierre Bourdieu, La distinction, cit., pp. 30-31.
[34] Ivi, pp. 31-32.
[35] Bourdieu parla di una «estetica antikantiana» a proposito di ciò che viene negativamente identificato come «gusto barbarico». Cfr. Ivi, pp. 36-45.
[36] Cfr. Nico Carpentier, Contextualising Author-Audience Convergences. New technologies’ claims to increased participation, novelty and uniquenesse, in «Cultural Studies», vol. 25, n. 4-5, 2011, pp. 517-533, cit. in Mariagrazia Fanchi, L’audience, cit., p. 84.
[37] Per approfondire questa dimensione può essere utile rifarsi alla corrente storiografica tedesca della Alltagsgeschichte («storia del quotidiano»). Per un’ottima antologia, cfr. Alltagsgeschichte. Zur Rekonstruktion historischer Erfahrungen und Lebensweisen, a cura di Alf Lüdtke, Frankfurt, Campus, 1989, trad. ing. The History of Everyday Life. Reconstructing Historical Experiences and Ways of Life, Princeton, Princeton University Press, 1995.
[38] Per la discussione sull’applicabilità delle teorie bourdesiane a società diverse da quella francese, cfr. Paul DiMaggio, Social structure, institutions, and cultural goods: The case of the U.S., in Social Theory for a Changing Society, a cura di Pierre Bourdieu e James Coleman, Boulder, Colorado Westview Press, 1991; Michèle Lamont, Money, Morals and Manners. The Culture of the French and the American Upper-Middle Class, Chicago, University of Chicago Press, 1992 e Ingo Mörth e Gerhard Fröhlich (a cura di), Das symbolische Kapital der Lebensstile. Zur Kultursoziologie der Moderne nach Pierre Bourdieu, Frankfurt-New York, Campus, 1994. Per il caso italiano, cfr. il recente numero monografico Teoria in pratica. Fare ricerca con (e dopo) Bourdieu, «Rassegna italiana di sociologia», n.1/2014, Bologna, Il Mulino, 2014. Sui rapporti metodologici tra il pensiero di Bourdieu e gli storici, cfr. Pierre Bourdieu e Roger Chartier, Le sociologue et l’historien, Marseille, Agone, 2011, trad. it. Il sociologo e lo storico. Dialogo sull’uomo e la società, Bari, Dedalo, 2011 e Bourdieu and Historical Analysis, a cura di Philip S. Gorsky, Durham-London, Duke University Press, 2013. Sui rapporti col marxismo storico, cfr. Anna Baldini, Da Marx a Bourdieu. Materialismo storico e teoria della pratica, in Materialismo e letteratura, a cura di Romano Luperini e Nicolò Pasero, «Moderna. Semestrale di teoria e critica letteraria», n. 1/2008, Pisa-Roma, Fabrizio Serra, pp. 13-23.
[39] Per una recente decostruzione globale dell’approccio esclusivamente quantitativo agli studi sulle audience, cfr. Television Audiences Across the World. Deconstructing the Rtings Machine, a cura di Jérôme Bourdon e Cécile Méadel, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2014.
[40] Cfr. Michel De Certeau, La prise de parole et autres écrites politiques, Editions du Seuil, Paris, 1994, trad. it. La presa della parola e altri scritti politici, Meltemi, Roma, 2007.