La memorializzazione delle Foibe e il paradigma della Shoah

ABSTRACT

The object of this essay is to illustrate how the memory of the Foibe has been diffused in the Italian media since the end of the Second World War. In particular, this text will explore how certain paradigms of representation, which are characteristic of the memory of the Holocaust, have also been adopted to portray the group of violent events which we collectively call Foibe. These public discourses have been particularly reaffirmed during the last thirty years. Initially, we will introduce the subject with a brief historiographical reconstruction of how the theme of the Holocaust has been compared to the Foibe by historians. A second part will follow in which we will dive into the institutional politics that have been bent to the creation of a public memory of the Foibe based on that comparison. In the final part, we will analyze the modalities through which the paradigm of the Foibe/Holocaust has found effective expression through the realization of TV transmissions and fictional televised programs on the subject. Via the analysis of several moments, we will see how certain rhetorical and metaphorical themes persist out of preceding representations of the Holocaust, which were facilitated by the same media channels.

Questo saggio prenderà in esame le modalità attraverso cui la memoria pubblica delle Foibe è stata diffusa, prodotta ed elaborata dai media italiani negli ultimi vent’anni[1]. Nello specifico, l’analisi esplorerà come alcuni paradigmi e canoni di rappresentazione mediatica, caratteristici soprattutto della formazione di una memoria pubblica della Shoah, siano stati adottati a livello istituzionale per raccontare, ricordare e commemorare tutto ciò che viene comunemente racchiuso nella parola «Foibe». Dopo una ricostruzione storiografica del tentativo di comparazione tra i due eventi storici, con un focus sulle modalità con cui la politica italiana ha intenzionalmente deciso di adottare questo tipo di narrazione mediatica, il contributo si concentrerà sulla diffusione del paradigma comparativo nei programmi di approfondimento storico, politico e culturale diffusi della televisione italiana in occasione del Giorno del ricordo, con specifico riferimento al caso della trasmissione televisiva Porta a porta. Particolare attenzione sarà poi data a due fiction televisive, trasmesse entrambe dalla RAI, dove sono facilmente rintracciabili analoghe modalità di rappresentazione mediatica di due eventi storici ben distinti. Si tratta di Perlasca. Un eroe italiano (2002) e de Il cuore nel pozzo (2005), entrambi film televisivi divisi in due parti e diretti dallo stesso regista, Alberto Negrin. Attraverso l’analisi di alcuni casi televisivi, si cercherà di fare luce sui meccanismi mediatici attraverso cui le vicende storiche cui i due film si riferiscono vengono declinate con l’elemento emozionale, al fine di giungere a una memoria pubblica condivisa e pacificata, dove il racconto storico delle Foibe finisce per essere revisionato e, in un certo senso, «olocaustizzato».

 

1. Storia, memoria e storiografia

Gli storici Raoul Pupo e Roberto Spazzali hanno attribuito due significati distinti alla parola «Foibe»: uno simbolico e uno letterale. Secondo la prima accezione, quando parliamo di Foibe ci riferiamo comunemente alle violenze di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia per mano dei partigiani jugoslavi. Prendendo in considerazione il significato letterale, invece, è possibile rimandare a «inghiottitoi naturali tipici dei terreni carsici, che precipitano nel sottosuolo spesso per molte decine di metri, con pozzi verticali e ripetuti salti», il cui diametro «può variare da poche decine di centimetri ad alcuni metri». Tali cavità sono state utilizzate dai partigiani slavi «per far sparire rapidamente ciò di cui essi intendevano disfarsi: poteva trattarsi di oggetti […], ma anche di persone, vittime di tragedie private o di violenze della storia»[2]. In alcune occasioni, nel biennio 1943-1945, all’interno di queste incavature vennero gettati alcuni corpi di caduti nei combattimenti tra le forze partigiane e quelle nazifasciste. Nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945, infatti, ci furono due picchi di violenza, successivamente ai quali «nelle voragini sparse nell’entroterra istriano, come pure alle spalle di Trieste e Gorizia, vennero fatti sparire i corpi di una serie di esecuzioni sommarie su larga scala, talvolta assieme a condannati ancora in vita». In queste occasioni, però, vennero utilizzate altre cavità di natura artificiale, come le miniere di bauxite in Istria e il pozzo della miniera di Basovizza. In realtà, «solo una parte degli eccidi venne perpetrata sull’orlo di una foiba o di un pozzo minerario, mentre la maggior parte delle vittime delle due ondate repressive del 1943 e soprattutto del 1945 perì nelle carceri, durante le marce di trasferimento o nei campi di prigionia allestiti in varie località della Jugoslavia»[3].

Nonostante questa precisa distinzione, negli ultimi vent’anni le Foibe sono assurte a simbolo di tutto ciò che successe in quegli anni sul confine orientale. Nell’immaginario pubblico del confine orientale, infatti, sono stati considerati sotto la categoria di «infoibati» (vittime delle Foibe): a) tutti gli uccisi per mano dei partigiani comunisti sloveni, croati e italiani, tra l’autunno del 1943 e la primavera-estate del 1945; b) le vittime della brutalità degli ultimi due anni di guerra in tutta l’area alto-adriatica, compresa la Dalmazia; c) le vittime delle violenze subite dalla popolazione italiana nel lungo dopoguerra istriano (1945-1956), culminato nell’esodo di non meno di duecentocinquantamila persone dalla loro terra di origine verso l’Italia. Visto il numero relativamente ridotto delle persone realmente gettate nelle Foibe rispetto a quello complessivo degli uccisi, sarebbe quindi più appropriato parlare di «deportati» e «assassinati», più che di «infoibati». Sul confine orientale, tra il 1943 e il 1945, tra «infoibati», fucilati, giustiziati e morti dopo le deportazioni titine si possono contare tra i 4.000 e i 5.000 morti, cifra non eccezionale per un contesto di guerra, mentre i soli «infoibati» non supererebbero la cifra di 1.000 persone[4]. Anche se la quantificazione dei morti non può certamente essere l’elemento principale attraverso cui si costituisce un giudizio storico, è pur vero che tentare di ricostruire le discussioni sulle cifre e i dibattiti storiografici attorno ad esse è un’operazione necessaria per analizzare la costruzione delle memorie divise su qualsiasi trauma storico[5].

In linea generale, la storiografia italiana sembra aver avuto un’enorme difficoltà nel collocare le Foibe all’interno di un contesto storico complessivo che le potesse rendere pienamente intellegibili. Per decenni, infatti, il dibattito storiografico sulle cifre sembra aver suscitato più interesse di quello sulle cause, le responsabilità e le dinamiche dell’esodo della popolazione italiana nel dopoguerra dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia[6]. Spesso, infatti, anche gli storici hanno inserito tutti gli scomparsi, anche per cause diverse, nel conteggio degli «infoibati» che, in senso stretto, dovrebbe riguardare solo coloro che furono uccisi e gettati nelle cavità subito dopo l’arresto. Come osservano ancora gli storici Pupo e Spazzali,

di volta in volta, per cercare di spiegare l’accaduto e per attirare l’attenzione della pubblica opinione italiana sulla drammatica storia della Venezia Giulia, sono stati adottati termini quali ‘olocausto’, ‘genocidio’, ‘pulizia etnica’, che evocano altre tragedie europee, altre persecuzioni e altri stermini. Spesso però tali confronti […] hanno finito col generare confusione e si sono rivelati come un distorto e debole tentativo di mantenere viva la memoria dell’evento[7].

Il problema del silenzio attorno alle Foibe è legato a un generale silenzio sul confine orientale, che ha lasciato a lungo in ombra, ad esempio, anche la storia della Risiera di San Sabba[8], unico campo di concentramento nazista sul suolo italiano, dove venne sperimentata l’uccisione dei prigionieri – soprattutto oppositori politici ma anche molti ebrei – con il gas e la cremazione dei cadaveri nei forni[9]. Questo atteggiamento ambivalente ha così dato luogo a una serie di miti storiografici, difficili da sfatare dopo decenni di ricostruzioni storiche basate, per lo più, su pregiudizi ideologici – tra tutti il mito del “bravo italiano” e del “cattivo tedesco”[10]. Non hanno aiutato, poi, le tensioni italo-jugoslave che persistettero almeno fino alla metà degli anni cinquanta – l’esodo degli italiani dall’Istria si concluderà solo nel 1956[11]. In virtù di questi elementi, sono venute a consolidarsi interpretazioni militanti, basate soprattutto su semplificazioni storiche, che hanno favorito l’uso politico del tema tramite i media. In questo senso, negli anni immediatamente successivi all’evento, si è tentato di elevare le Foibe al rango di “genocidio nazionale”, paragonandole così al “genocidio europeo” della Shoah e finendo, di fatto, per interpretare i fatti del 1943-1945 con un orientamento marcatamente nazionalista e vittimista. Tale tesi, che ha radici profonde nella propaganda fascista della Repubblica sociale italiana, ha fatto leva soprattutto sulla percezione dei contemporanei e di molti sopravvissuti che le violenze jugoslave fossero state un tentativo di distruggere e annientare la componente residuale italiana della popolazione giuliana. Si è venuto così affermandosi uno schema di lettura essenzialmente nazionalista dei rapporti tra italiani e slavi, imperniato sulla contrapposizione razzista tra civiltà latina e barbarie slava[12].

Di qui, negli anni settanta e ottanta ha avuto particolare successo la formula di «olocausto giuliano» coniata da un prete, padre Flaminio Rocchi, che presentava come fatti certi elementi che sarebbero stati poi ampiamente smentiti dalla storiografia. Oltre al «sacrificio nazionale», in questa tesi è centrale l’idea di «sacrificio religioso» – «olocausto», appunto – compiuto dagli «infoibati», stimati quasi sempre in più di diecimila[13]. Più recentemente, questa retorica è stata ripresa da Giorgio Rustia, segretario dell’Associazione famiglie e congiunti deportati italiani in Jugoslavia e infoibati, che si è spinto fino a parlare di «campi di sterminio jugoslavi»[14]. Da subito, inoltre, pur essendo situazioni non minimamente comparabili, si è tentato di equiparare le aberrazioni naziste compiute nella Risiera di San Sabba alle Foibe titine[15]. Laddove, però, la Risiera rappresentò il «frutto razionale e scientificamente impostato dell’ideologia nazista», non si possono comprendere le Foibe se non come una risposta alla persecuzione e alla repressione violenta e sistematica cui, per più di vent’anni, il fascismo italiano aveva sottoposto la popolazioni slovene e croate in queste stesse zone[16].

A partire dagli anni novanta, la formula del «genocidio nazionale» è stata soppiantata da quella più suggestiva, e per certi versi attuale, di «pulizia etnica», con particolare riferimento alle stragi avvenute in ex-Jugoslavia dopo la dissoluzione della Repubblica federativa. Questo schema interpretativo, al solito, non ha colto il significato specifico della repressione del 1945: la volontà titina, infatti, non fu quella di punire tutti coloro che erano appartenuti all’etnia italiana, quanto piuttosto chi si era sentito politicamente italiano, vale a dire aveva desiderato e rivendicato la sovranità nazionale su quelle terre – non a caso furono perseguitati anche gli sloveni e i croati anticomunisti favorevoli al dominio straniero[17]. Non bisogna dimenticare, infine, che molti dei partigiani italiani che combatterono su quel fronte rivendicavano spesso la propria identità nazionale nel condurre una guerra patriottica di resistenza[18].

Nel 1995, Marco Pirina, responsabile culturale della Lega Nord e membro di un’associazione di ex militari fascisti, ha pubblicato un libro dal titolo Genocidio[19]. In virtù delle sue pubblicazioni, Pirina è stato esaltato su tutti i giornali per aver permesso alla magistratura di aprire un’inchiesta per «genocidio» contro i responsabili delle Foibe – i media, addirittura, si sono spinti a definirlo il «Simon Wiesenthal italiano»[20]. Parallelamente all’avvio di tale inchiesta, che ha ricevuto una grande eco sulla stampa nazionale, si svolgeva quella contro l’ufficiale SS Erich Priebke, uno dei maggiori protagonisti del massacro delle Fosse Ardeatine del marzo 1944 a Roma, rintracciato in Argentina ed estradato in Italia[21]. Per la prima volta, la vicenda delle Foibe ha così ricevuto un concreto riscontro mediatico che, di fatto, ha finito per dare consistenza al parallelismo tra le due vicende. Di contro, gli storici che hanno tentato di contrastare tali interpretazioni forzate e parzialmente infondate, ma con molta presa nell’opinione pubblica, sono stati spesso accusati di «riduzionismo», «revisionismo» e «negazionismo», accuse tipicamente rivolte a chi nega la Shoah o a chi tenta di ridimensionare le cifre delle sterminio nazista[22]. Non sembra un caso, infatti, che praticamente tutti i commentatori sopra citati siano riconducibili ad un’area politica vicina alla destra post-fascista. Per capire meglio quanto è accaduto in quel frangente non bisogna però dimenticare come nell’immediato dopoguerra, tra la storiografia di sinistra, sia italiana che jugoslava, si sia specularmente affermata una tendenza a giustificare le violenze dell’autunno del 1943 e della primavera del 1945 come atti di giustizia nei confronti di criminali di guerra o di fascisti responsabili di violenze inflitte sulla popolazione slava[23]. In risposta alla retorica nazionalista, soprattutto negli ultimi vent’anni, sono state alimentate interpretazioni basate sul confronto delle violenze titine con crimini “ben più gravi” commessi dai fascisti italiani contro sloveni, croati ed ebrei. Alcune delle ricerche a sostegno di questa tesi hanno fatto leva sulla confutazione dei conteggi degli «infoibati», tradizionalmente “gonfiati” dalla destra nazionalista italiana. Anche da sinistra, dunque, si è cercato di paragonare le Foibe alla Shoah, al fine però di ridurre la portata storica e politica delle prime di fronte all’inconfutabilità della seconda.

Come ha osservato lo storico Galliano Fogar, è impossibile paragonare le Foibe alla Shoah o parlare di sterminio non solo per un discorso di numero di morti, ma soprattutto perché «mancò ogni volontà o disegno preordinato di realizzarlo»[24]. In ciò che oggi comunemente chiamiamo Foibe, quindi, non vi fu alcuna traccia di odio razziale, come fu invece quello fascista e nazista nei confronti degli ebrei, ma piuttosto una profonda avversione politica, di chiaro stampo antifascista, ulteriormente alimentata, oltre che da un intento vendicativo, da quei residui di antiche mire nazionalistiche territoriali jugoslave. Anche se questo concetto sembra ormai storicamente appurato, è ancora impossibile affermare che tale riconoscimento sia giunto anche a livello pubblico e mediatico. La pubblicistica post-fascista, infatti, ha più volte insistito sul paradigma Foibe/Shoah, che ha continuato a trovare la propria giustificazione nella retorica degli «italiani uccisi per il solo fatto di essere italiani»[25]. Tale narrazione si è così imposta nell’opinione pubblica nazionale, non senza il contributo di una certa interpretazione storiografica di sinistra incapace di contrapporre un’adeguata attenzione al tema: alla stregua di un “tabù”, parlare di Foibe avrebbe implicato il rischio che l’emergere di eventuali connivenze dei partigiani italiani nelle violenze compiute sul confine orientale potesse costituire una minaccia reale alla retorica resistenziale affermatasi nel dopoguerra.

 

2. Politiche della memoria e discorso pubblico

Anche in ambito politico e pubblico il meccanismo retorico maggiormente utilizzato dalla destra italiana è stato quello del paragone tra i “nostri” morti delle Foibe e i “vostri” morti della Shoah. Se, come abbiamo visto, la storiografia italiana non è riuscita a distinguere del tutto gli ambienti, le ideologie e le circostanze in cui tali eventi si svolsero, ciò ha di fatto reso la memorializzazione[26] delle Foibe uno strumento di legittimazione politica, prima in senso locale e poi nazionale[27].

Le origini dell’affermazione di questo discorso, prima pubblico e poi mediatico, sono databili al 1989, ovvero quando una delegazione del Partito comunista italiano si è recata per la prima volta in visita alla Foiba artificiale di Basovizza come segno di rottura nei confronti dell’atteggiamento assolutorio tenuto dal partito fino a quel momento. Se da un lato, quindi, l’esigenza di rilegittimazione ha spinto più volte gli eredi del Pci, disgregatosi agli inizi degli anni novanta, a ripensare i termini della questione nazionale sul confine orientale, le forze della destra post-fascista hanno invece continuato a proporre il tema delle Foibe come il cardine di una “controstoria”, attraverso la quale poter rinvigorire un’identità nazionalista in profonda crisi. Tale opera di revisionismo storico-politico è stata esercitata soprattutto sul piano dell’uso pubblico della storia e della sua ricaduta mediatica[28].

A partire dagli anni novanta, infatti, il tema ha cominciato ad avere vasta eco sulla stampa locale e nazionale, soprattutto grazie all’intervento diretto di alcuni esponenti politici sul campo della memoria pubblica. Nel marzo 1998, Gianfranco Fini, leader dell’allora Alleanza Nazionale, e Luciano Violante, esponente di spicco dei neonati Democratici di Sinistra, si sono incontrati a Trieste in occasione di un seminario in cui hanno denunciato, insieme, gli orrori della Risiera di San Sabba e delle Foibe, assolvendo gli italiani da ogni colpa[29]. Dalle pagine de «Il Manifesto», lo storico Enzo Collotti non ha esitato a definire tale politica di pacificazione «una pericolosa operazione di manipolazione e di mistificazione nazionale»[30]. Da questo momento in poi, sarebbe iniziato un periodo di generale convergenza di pensiero sul tema delle Fobie. L’apertura della sinistra italiana avrebbe costituito anche le basi di una memoria pacificata e condivisa sulla Shoah, più volte rivendicata dalla destra italiana per staccarsi dal suo passato ingombrante[31] – sempre Gianfranco Fini nel 2003 avrebbe parlato, per la prima volta, di fascismo come «male assoluto»[32].

A conclusione di questo processo, il 30 marzo 2004 il parlamento italiano, con la sola astensione dell’estrema sinistra, ha istituito un Giorno del Ricordo dell’esodo giuliano-dalmata e delle Foibe, in parallelo al Giorno della memoria dedicato alla Shoah del 27 gennaio, istituito quattro anni prima. Come osservato su «Il Manifesto» sempre dallo storico Enzo Collotti, tale decisione è stata presa strumentalmente per omologare «in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili»[33]. Scegliendo il 10 febbraio come giorno della commemorazione, data in cui l’Italia firmò il trattato di pace, si elevava, come ha osservato la storica Alessandra Kersevan, «il revisionismo storico a ideologia di Stato»[34]. In questo senso, «la memoria storica nazionale si riequilibra: accanto alla Risiera di San Sabba, che vi sta dai tempi del processo del 1976, compaiono le foibe e l’esodo»[35]. Tali operazioni di legittimazione, da destra e da sinistra, sembrarono quindi convergere tra loro, proiettando sul passato lo schema bipolare caratteristico del quadro politico italiano: se, da un lato, ciò ha permesso alla sinistra di tradizione comunista di appropriarsi dei morti della Shoah italiana – di fatto, «resistenzializzandola»[36] – la destra nazionalista di tradizione neofascista ha fatto suoi quelli delle Foibe, italianizzandoli in modo generalizzato[37]. Come ha osservato lo storico inglese John Foot, nella decisione di stabilire il giorno del ricordo a due settimane di distanza dalla giornata della memoria è rintracciabile la precisa volontà politica di dividere gli italiani tra chi commemora la Shoah e chi le Foibe: la presenza da parte di politici all’uno o all’altro evento istituzionale è diventato, infatti, un segno di appartenenza politica, etnica o religiosa, attraverso cui lo Stato italiano ha implicitamente preso atto della memoria divisa di questo paese[38].

È però soltanto dal 2004 che la cosiddetta «ritualizzazione» delle vittime delle Foibe, che dagli anni ottanta in poi ha contraddistinto anche i processi di memorializzazione attorno alle vittime italiane della Shoah, può finalmente dirsi conclusa[39]. Da questo momento, infatti, le comitive scolastiche cominciarono a recarsi regolarmente, dopo la visita alla Risiera di San Sabba, alla foiba-simbolo di Basovizza[40]. Già nel 2003, il sindaco di Trieste Roberto Di Piazza – esponente locale di spicco di Forza Italia – aveva pubblicamente onorato i «martiri delle foibe» durante una cerimonia di commemorazione dei morti nel Lager nazista della Risiera di San Sabba, giustificandosi sui giornali nei giorni successivi dicendo che si era trattato di un lapsus[41]. In questo caotico panorama della memoria, largamente avallato dal discorso mediatico, un passaggio altrettanto simbolico è rintracciabile nel 2010 quando, per la prima volta, il tema di approfondimento storico della prima prova dell’esame di maturità ebbe come oggetto proprio le Foibe. Anche in tale occasione, per non fare torto a nessuno, il tema di critica letteraria verteva, invece, sulle opere di Primo Levi[42].

Più recentemente, è possibile aggiungere un ultimo tassello a questo discorso osservando quanto successo a Roma durante l’amministrazione di Gianni Alemanno, sindaco della capitale dal 2008 al 2013. Da ex-neofascista, Alemanno ha curato con attenzione la costruzione locale di una memoria pubblica delle Foibe[43], coinvolgendo soprattutto le istituzioni scolastiche in iniziative di approfondimento storico. Ciò è avvenuto, ad esempio, supportando l’istituzione di un viaggio scolastico sui luoghi delle Foibe: a questa iniziativa hanno partecipato, con cadenza annuale, centinaia di studenti e insegnanti delle scuole del comune di Roma, esattamente come l’amministrazione comunale aveva già fatto da molti anni con il viaggio della memoria ad Auschwitz[44]. Il 6 giugno 2013, inoltre, l’ex-sindaco ha inaugurato a Roma una «Casa del Ricordo» per «i martiri della Foibe»[45], non molto lontana da una già esistente «Casa della Memoria», un’istituzione pubblica che tutt’oggi si occupa di preservare la memoria dell’antifascismo, della Resistenza e della Shoah. Infine, sempre nel giugno 2013, dopo la sconfitta alle elezioni comunali contro il candidato del Partito democratico Ignazio Marino, Alemanno ha pubblicato su «Il Giornale» un articolo piuttosto dibattuto. Rispondendo alle accuse di Marcello Veneziani, l’ex sindaco ha spiegato che «insieme al museo della Shoah» – che in realtà, a oggi, ancora non esiste – «abbiamo dato vita alla casa del ricordo dedicata  agli esuli istriano-dalmati e al dramma delle Foibe». Riferendosi direttamente a Veneziani, l’ex sindaco ha altresì ribadito che «siamo stati molti criticati dalla sinistra per avere esteso i “viaggi della memoria” degli studenti romani ad Auschwitz per ricordare la Shoah, all’Istria per far divulgare l’eccidio dimenticato delle Foibe». Infine, Alemanno ha sottolineato come «nella stragrande maggioranza dei componenti la comunità ebraica – legati come sono ai valori della tradizione, della famiglia – sono persone tendenzialmente di destra, che solo la sopravvivenza di vecchie barriere nostalgiche ha tenuto lontano dalle nostre file»[46]. In questo modo, Alemanno ha palesato pubblicamente il tentativo di legittimare l’imbarazzante memoria della Shoah tra la destra post-fascista italiana: utilizzando in senso politico la memoria delle Foibe, infatti, egli è riuscito a porre entrambe le memorie sullo stesso livello di importanza e dignità, restituendo, da un lato, alla destra italiana la possibilità di commemorare pubblicamente i “propri” morti e, dall’altro, permettendo alla comunità ebraica di Roma di riconoscersi nella sua stessa natura, secondo lui «tendenzialmente di destra».

 

3. Televisione e uso pubblico della storia

Il supporto mediatico a tali politiche di pacificazione della memoria ha svolto indubbiamente un ruolo decisivo: senza la diffusione di questi interventi sugli organi di stampa, tali iniziative non sarebbero state altrettanto feconde per costruire un preciso immaginario condiviso. Per uno storico che tenta di capire come si costituiscono i paradigmi della memorializzazione, studiare la veicolazione di questi argomenti da parte dei media è certamente un ottimo metro per comprendere l’invasione della storia nel discorso pubblico e l’uso strumentale che se ne fa sul piano politico[47]. In questo senso, la televisione assume un ruolo determinante: anche se, come abbiamo visto, la maggioranza degli storici ha considerato la comparazione tra le Foibe e la Shoah un’esagerazione, le commemorazioni pubbliche e le narrazioni mediatiche hanno trovato nella televisione italiana un terreno fertile per veicolare la costruzione di una retorica derivante proprio da quella storiografia di stampo post-fascista[48].

La questione delle Foibe compare più volte nella televisione italiana degli ultimi dieci anni[49], ripetendo generalmente gli stessi schemi: a) denuncia del silenzio pluriennale attorno al problema; b) presentazione molto semplificata dei fatti, generalmente incentrata sugli aspetti più sconvolgenti ed emozionali della vicenda, letta preferibilmente secondo la categoria di «genocidio» o «pulizia etnica»; c) polemica sulle cifre dei morti e sulle responsabilità politiche delle stragi. Esattamente su questa scia si collocano, tra tutte, le tribune politiche televisive che, in occasione del Giorno del Ricordo, prestano i propri studi a dibattiti e approfondimenti sul tema della Foibe, presentate il più delle volte come una «Shoah nascosta». Il caso più eloquente è quello di Porta a Porta, trasmissione di chiaro stampo filo-governativo, che dal 2004 non perde occasione per commemorare, ogni anno, il Giorno del ricordo. Ogni puntata, condotta dal giornalista Bruno Vespa, viene strutturata sulla linea dei già sperimentati “speciali” dedicati alla Shoah in occasione della Giornata della memoria[50]: a) la discussione si articola attraverso continui rimandi retorici – sia nei servizi di approfondimento, sia in occasione del dibattito – ad espressioni linguistiche tipicamente utilizzate in riferimento alla Shoah, come «per non dimenticare», «mai più» o «ricordare per non ripetere gli errori del passato»; b) segue quindi il dibattito tra esponenti politici e alcuni storici che propongono il proprio punto di vista sulla vicenda; c) l’ultima parola viene data ai testimoni e ai parenti delle vittime, sia tramite interviste già registrate sia con il coinvolgimento di alcuni di loro presenti in studio. In particolare, nella puntata di Porta a Porta del Giorno del ricordo del 2012, Maurizio Gasparri, ex-neofascista e attuale membro di spicco di Forza Italia, rispondendo alle cifre proposte dalla storica Alessandra Kersevan, che aveva fatto riferimento a non più di 500 infoibati, ha paragonato la storica a una negazionista della Shoah, ribattendo con il numero di «almeno 20.000 infoibati». Nella stessa trasmissione è stata poi mostrata un’immagine di partigiani jugoslavi che uccidono alcuni italiani di fronte a una fossa. In realtà, si vede chiaramente dagli elmetti e dalle divise che si tratta di soldati italiani che fucilano contadini sloveni. La stessa foto, peraltro, era stata più volte utilizzata sia da manifesti di organizzazioni di estrema destra sia da alcuni siti istituzionali in occasione di commemorazioni pubbliche. Quando la storica Kersevan, ospite in studio, ha fatto notare l’errore, lo stesso Bruno Vespa è intervenuto piccato, apostrofandola come una «signora che ha qualcosa da nascondere» e che «scrive delle cose che non stanno né in cielo né in terra», chiedendosi infine come mai i sopravvissuti non se ne fossero già andati dallo studio. Di qui, l’intervento puntuale di Gasparri a supporto del conduttore, ha ironicamente fatto notare alla storica che «il KGB non c’è più».

I prodromi di tale impostazione ideologica e governativa vanno comunque rintracciati nella produzione della Rai di un film per la televisione sulle Foibe, intitolato melodrammaticamente Il cuore nel pozzo (2005, A. Negrin), trasmesso in due puntate su Rai1, in prima serata, in occasione della prima ricorrenza del Giorno del Ricordo, proprio nel 2005. La messa in onda di questo film, voluto fortemente dall’allora Ministro delle telecomunicazioni Maurizio Gasparri, ha manifestato una vera e propria operazione di «olocaustizzazione»[51] delle Foibe, cui hanno assistito circa 17 milioni di italiani. Già nel 2002, lo stesso Gasparri aveva dichiarato in un’intervista a «La Stampa» che sarebbe stato interessante realizzare uno sceneggiato televisivo «sulla tragedia delle foibe», in quanto

se facciamo un documentario, magari con la riesumazione delle ossa, provochiamo soltanto ripulsa. Penso che sarebbe più efficace una fiction che raccontasse la storia di una di quelle povere famiglie. Sono grandi tragedie. Come quella dell‛Olocausto o di Anna Frank[52].

Non è un caso che a dirigere il film sia stato chiamato Alberto Negrin, autore del precedente film per la televisione Perlasca. Un eroe italiano (2002, A. Negrin)[53], andato in onda sempre su Rai1 tre anni prima, che aveva trattato la storia di un giusto italiano, Giorgio Perlasca, che ebbe il merito di salvare la vita a centinaia di ebrei di Budapest[54]. La consulenza storica del film è invece stata affidata a Giovanni Sabbatucci[55]. Oltre allo sfondo politico che ha accompagnato la storia della realizzazione di questo film, l’aspetto interessante sta proprio nelle analogie narrative che sono oggi rintracciabili tra Il cuore nel pozzo e Perlasca. La vicenda del primo, infatti, ruota attorno a un ufficiale titino (Novak) che nel 1945 torna in Istria a riprendersi suo figlio, concepito da una donna italiana che aveva stuprato sei anni prima. La madre nasconde il piccolo in un orfanotrofio gestito da un prete e, mentre i titini arrestano tutti gli italiani per ucciderli e infoibarli, Novak cerca suo figlio tra tutti i bambini della zona. I fatti narrati sono, per certi versi, accaduti realmente, ma con una piccola differenza. A Pisino, nel centro dell’Istria, c’era realmente un orfanotrofio diretto da un prete, in cui dopo l’8 settembre ’43 irruppero però soldati tedeschi delle SS per cercarvi bambini ebrei nascosti tra gli orfani[56]. L’evento, quindi, è realmente accaduto, ma le violenze compiute dai nazisti alla ricerca di ebrei vengono traslate in violenze di matrice comunista e anti-italiana[57]. L’ufficiale jugoslavo, così come i suoi compagni comunisti, sono da subito denotati come personaggi violenti e barbari. Le azioni partigiane dei titini sono sempre introdotte da una presentazione musicale, ad opera di Ennio Morricone, che ricorda certamente l’accompagnamento riservato alle violenze compiute dai nazisti in Perlasca, sempre a sua firma.

Nel corso di tutto il film, infatti, si cerca di affermare un parallelismo ideale tra i nazisti e i titini. In Perlasca, i nazisti sono alla spasmodica ricerca di ebrei, in particolare di bambini ebrei, esattamente come ne Il cuore nel pozzo i partigiani jugoslavi vagano per  ore a caccia di italiani, contro i quali vengono compiute le più barbare efferatezze. Siamo di fronte a una vera e propria rappresentazione razzista del popolo slavo, descritto come  violento per sua stessa natura. La stessa violenza vista attraverso gli occhi dei bambini crea un meccanismo di forte empatia con i soggetti perseguitati, dagli ebrei di Perlasca agli italiani de Il cuore nel pozzo[58]. La continua retorica lacrimosa dei due film è basata per lo più su un utilizzo strumentale della colonna sonora, e sull’esaltazione del concetto patriottico del “bravo italiano” a scapito del “cattivo tedesco” e del “cattivo slavo”. In quest’ottica, la rappresentazione del giusto, salvatore di vittime, è centrale nello stesso sottotitolo del film Perlasca – «un eroe italiano»[59] – e si palesa dalla prima scena de Il cuore nel pozzo, dove viene presentato un altro eroe che torna in divisa dalla guerra. Come nel caso di Perlasca, il protagonista è un fascista, ma nel corso di entrambi i film televisivi non saranno mai pronunciate le parole «fascisti», «fascismo» e «Mussolini». L’esaltazione dei protagonisti, quindi, avviene per il solo fatto di essere italiani, quindi naturalmente buoni, eroici e giusti[60]. Infine, altra analogia tra i due film è rintracciabile nella rappresentazione della morte, quasi sempre fuori scena, a favore di una presenza scenografica insistente di cadaveri, sullo sfondo o in primo piano. Tali immagini rimandano inevitabilmente alle modalità di diffusione nazionale di una memoria visuale della Shoah, basata principalmente su filmati e immagini di archivio, dove spesso si indugia su corpi senza vita, ammassati gli uni agli altri. Entrambe le rappresentazioni di fiction riprendono volutamente tale immaginario, al fine di creare un rimando indiretto a ciò di cui lo spettatore è già cosciente[61].

Come ha osservato lo storico Jože Pirjevec, la consistenza storica e la validità artistica de Il cuore nel pozzo sembra «proporzionalmente inversa al suo impatto mediatico»[62]. Dopo la visione del film, infatti, lo scrittore triestino Claudio Magris ha notato su «La Voce del Popolo» come la messa in scena di tali strumentalalizzazioni politiche dei crimini partigiani di mezzo secolo fa fosse «utile non tanto per ricordare le vittime e condannare i precisi colpevoli e complici, bensì per rinfocolare inumani e generici rancori razzisti antislavi»[63]. A tal proposito lo scrittore fu apostrofato come «infoibatore» dallo stesso Ministro Gasparri, che con l’occasione non mancò di fare riferimento a «milioni di infoibati»[64].

La portata mediatica di questa vicenda è certamente paradigmatica dell’intreccio tra storia, memorializzazione e politica. D’altro canto, alla luce di quanto visto, non ci è più possibile confondere, né moralmente né storicamente, oppressori e oppressi, nemmeno quando questi ultimi prendono il sopravvento e si vendicano, anche selvaggiamente, sui primi. Solo partendo da questo assunto storico è possibile individuare le strumentalizzazioni politiche che hanno avuto grande successo nell’Italia degli ultimi vent’anni, accrescendo la visibilità mediatica del tema ma non aiutando la comprensione dello stesso. Lo sguardo assunto sul discorso pubblico può certamente aiutarci nel leggere le politiche della memoria sulle Foibe all’interno di un più ampio progetto politico berlusconiano, che ha fatto della demonizzazione di quei residui della cultura comunista nazionale una sorta di cavallo di battaglia – in questo caso, applicando specificamente il paradigma “cattivo slavo” = “cattivo comunista”.

La sterzata televisiva di questi anni dal racconto pubblico delle «grandi narrazioni» ai toni più intimisti ed emozionali delle storie private corrisponde, in un certo senso, a una mutata attenzione mediatica nei confronti della storia. Se questo nuovo paradigma pubblico, che tende a ricollocare le vittime, i testimoni e i giusti al centro della narrazione storica, interessa principalmente la fiction televisiva, esso si insinua gradualmente anche in altri generi e formati televisivi, inclusi i programmi di informazione o di approfondimento storico e politico[65]. Come ha osservato Francesco Casetti, «la fiction straborda dai propri argini, esce dalle proprie sedi “istituzionali”, intaccando tanto la cronaca quanto la divulgazione scientifica, tanto il telegiornale quanto il documentario, fino a proporre al proprio telespettatore sceneggiati che raccontano “vicende vere” e servizi televisivi in forma di racconto finzionale» e finendo per smarrire «i propri confini, dilatandosi oltremodo tanto negli spazi quanto nei tempi di trasmissione»[66]. Per questo, la presunta funzione totalizzante della cosiddetta «neo-televisione» non può che essere divelta da un sistema mediatico governato dagli immaginari[67], dalla soggettività dello sguardo degli spettatori e dalla decodifica (o percezione) del racconto storico rispetto ai tentativi di utilizzare pubblicamente la storia tramite i media.

A proposito del contesto, spostare il punto di vista dall’Italia a un’ottica più europea ci aiuterebbe ad osservare, inoltre, come e quanto le Foibe possano essere considerate un tassello di un’ondata di violenze di vastissime proporzioni che coinvolse anche, ma non solo, migliaia di italiani. Come ha scritto John Foot, portare alla luce la «storia divisa» consente una comprensione più profonda di qualsiasi storia: «i morti – e i vivi – non sono mai tutti uguali: questo è uno dei messaggi più forti dello studio della memoria divisa»[68]. Ciò che ancora manca, quindi, alla memoria italiana delle Foibe è il riconoscimento delle responsabilità italiane in ciò che accadde nei vent’anni precedenti nelle stesse zone: contestualizzare storicamente, prima di divulgare mediaticamente e commemorare pubblicamente[69]. Questo non per creare una memoria conciliata o condivisa, ma per riconoscere tale divisione come fondante e identitaria, abbandonando così la vecchia idea che una memoria debba necessariamente soffocare e sopprimere l’altra, o ridurre la storia a una semplice dialettica tra vittime e carnefici.

 


[1] Alcune porzioni di questo elaborato sono state presentate in occasione delle conferenze internazionali The Holocaust Metaphor. Cultural Representations of Traumatic Pasts in the 20th Century (30 e 31 maggio 2013, Universidad de Zaragoza) e Memories: Tradition and Revision, Amnesia and Retrieval (7 e 8 marzo 2014, Brown University). Mi preme ringraziare per le loro osservazioni Amedeo Osti-Guerrazzi, Vanessa Roghi e Ilenia Rossini.

[2] Raoul Pupo e Roberto Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, Milano, 2003, p. 2-3.

[3] Ibidem, p. 3.

[4] Questo è il numero dei cadaveri recuperati stabilito in Raoul Pupo e Roberto Spazzali, Foibe, pp. 26-30. La storica Claudia Cernigoi parla di «non più di 500 vittime» in Claudia Cernigoi, Operazione Foibe a Trieste. Come si crea una mistificazione storica: dalla propaganda nazifascista attraverso la guerra fredda fino al neoirredentismo, Edizioni Kappa Vu, Trieste, 1997. Per la lista di tutte le morti accertate cfr. http://www.cnj.it/foibeatrieste/Appendici.htm [consultato il 15 settembre 2014].

[5] Cfr. John Foot, Fratture d’Italia. Da Caporetto al G8 di Genova, la memoria divisa del paese, Rizzoli, Milano, 2009, pp. 131-134.

[6] Per i contributi più incisivi Cfr. Guido Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma, 2005 e Raoul Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano, 2006.

[7] Raoul Pupo e Roberto Spazzali, Foibe, p. 24 [corsivo mio].

[8] Fino agli ultimi vent’anni, la memoria pubblica delle Foibe è, infatti, essenzialmente una memoria locale. Per una ricostruzione della storia del confine orientale italiano si rimanda soprattutto a Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il Mulino, Bologna, 2007. Per una buona sintesi della questione, cfr. Franco Cecotti, Cartografie variabili. I confini orientali d’Italia tra Otto e Novecento in Gino Candreva e Lidia Martin (a cura di) Confini senza fine. Frontiere tra Alpi e Adriatico, in «Zapruder», n. 15, Odradek, Roma, 2008, pp. 88-101.

[9] Tra le ricerche pubblicate fino a oggi sui campi di concentramento italiani, le più importanti sono quelle di Carlo Spartaco Capogreco, I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista, 1940-1943, Einaudi, Torino, 2004 e Alessandra Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi, 1941-1943, Nutrimenti, Roma, 2008. Uno studio approfondito sulla Risiera di San Sabba è quello di Ferruccio Fölkel, La Risiera di San Sabba. Trieste e il Litorale Adriatico durante l’occupazione nazista, Rizzoli, Milano, 2000.

[10] Per la costruzione pubblica di questa mitopoiesi cfr. David Bidussa, Il mito del bravo italiano, Il Saggiatore, Milano, 1994; Angelo Del Boca, Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Vicenza, Neri Pozza, 2004; Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe nella seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari, 2013. Un’ottima sintesi storiografica è fornita da Ilenia Rossini, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, in «Bollettino di Storiografia», n. 17/2013, Fabrizio Serra, Pisa-Roma, 2014, pp. 27-34.

[11] [11]Cfr. Marta Verginella, Il contributo storiografico alle pratiche di negoziazione del confine italo-sloveno in Daniela Antoni (a cura di), Revisionismo storico e terre di confine. Atti del corso di aggiornamento. Trieste, 13-14 marzo 2006, Centro Studi per la Scuola Pubblica, Edizioni Kappa Vu, Udine, 2007, pp. 167-174. Più in generale si veda Rolf Wörsdörfer, Il confine orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, Bologna, Il Mulino, 2009.

[12] Si vedano, tra gli altri, i tentativi di Paolo De Franceschi (alias Luigi Papo), esternati soprattutto in id., Foibe, Centro Studi Adriatici, Roma, 1948, pp. 11-12.

[13] Cfr. Flaminio Rocchi, L’esodo dei Giuliani Fiumani e Dalmati, Edizioni Difesa Adriatica, Roma, 1971, pp. 71-82.

[14] [14]Cfr. Giorgio Rustia, Contro Operazione Foibe a Trieste, Associazione Famiglie e Congiunti dei Deportati in Jugoslavia e Infoibati, Trieste, 2000, pp. 214-215.

[15] Ad esempio, nel 1985, in occasione del quarantennale della fine della Seconda guerra mondiale, il vecchio neofascista Marcello Lorenzini pubblicò un articolo su «Il Piccolo» di Trieste dove sostenne che nel maggio 1945 la Gestapo era stata sostituita dall’OZNA – il Dipartimento per la sicurezza del popolo del Governo jugoslavo – e che le camere a gas naziste erano state rimpiazzate dalle Foibe, cfr. «Il Piccolo», 9 maggio 1985.

[16] Nelle Foibe, tra l’altro, non fu presente alcuna programmazione sistematica di sterminio. Cfr. Giovanni Miccoli, Risiera e foibe: un accostamento aberrante, «Bollettino dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia», vol. IV, n. 1, 1976, disponibile anche al link http://www.diecifebbraio.info/2013/05/risiera-e-foibe-un-accostamento-aberrante-articolo-di-giovanni-miccoli-del-1976/ [consultato il 15 settembre 2014].

[17] Cfr. il rapporto della Commissione storico-culturale italo-slovena sulle relazioni italo-slovene tra il 1880 e il 1956, integralmente disponibile a http://www.kozina.com/premik/indexita_porocilo.htm [consultato il 15 settembre 2014]. Per una delle poche monografie sull’istituzione del giorno del ricordo, cfr. Pierluigi Pallante, Il giorno del ricordo. La tragedia delle Foibe, Editori Riuniti, Roma, 2010.

[18] Cfr. Valerio Romitelli, L’odio per i partigiani. Come e perché contrastarlo, Napoli, Cronopio, 2007.

[19] Marco Pirina, Genocidio… (Gorizia, Trieste, Pola, Istria, Fiume, Zara, Dalmazia), Centro Studi e Ricerche Storiche Silentes Loquimimur, Pordenone, 1995.

[20] Cfr. Jože Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia. Einaudi, Torino, 2009, pp. 216-223.

[21] Cfr. l’intervista a G. Sabbatucci in Lo storico: “In Istria fu pulizia etnica. La strage alle Fosse, azione di guerra” in “Corriere della sera”, 15 agosto 1996, disponibile al link http://bit.ly/1EK5gj3 [consultato il 15 settembre 2014]. Sul processo a Erich Priebke, cfr. Robert Katz, Dossier Priebke. Anatomia di un processo, Milano, Rizzoli, 1997 e Paolo Pezzino e Guri Schwarz, From Kappler to Priebke. Holocaust Trials and the Seasons of Memory in Italy, in David Bankier e David Michman (a cura di), Holocaust and Justice: Representation and Historiography of the Holocaust in Post-war Trials, Jerusalem-New York-Oxford, Berghahn, 201, pp. 299-328.

[22] Il riferimento è soprattutto agli storici Alessandra Kersevan, Sandi Volk e Claudia Cernigoi.

[23] Cfr. soprattutto Roberto Battaglia, Storia della resistenza italiana, Einaudi, Torino, 1953.

[24] Galliano Fogar, Foibe e deportazioni. Nodi sciolti e da sciogliere, in «Qualestoria», vol. XVII, n. 2-3, pp. 16-20.

[25] Ci riferiamo soprattutto agli scritti del già citato Luigi Papo, in particolare al suo contributo nel volume collettaneo, di chiaro stampo propagandistico, Il rumore del silenzio. Foibe ed esodo dei 350.000 italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, Azione Giovani, Trieste, 1997, p. 130.

[26] James E. Young ne parla a proposito del ruolo dei musei e dei memoriali nella costruzione di una memoria pubblica della Shoah – e delle commemorazioni ad essa connesse. Cfr. James E. Young, The Texture of Memory. Holocaust Memorials and Meaning, New Haven, Yale University Press, 1993. Sullo stesso concetto si veda, inoltre, Richard Crownshaw, History and Memorialization, in Stefan Berger e Bill Niven (a cura di), Writing the History of Memory, London-New York, Bloomsbury, pp. 219-238.

[27] Per un approccio generale alla narrazione pubblica delle Foibe si rimanda al recente libro di Federico Tenca Montini, Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi, Kappa Vu, Udine, 2014.

[28] Come hanno osservato, ancora, Pupo e Spazzali, «è in questa prospettiva infatti che si inseriscono sia la battaglia per l’intitolazione ai “martiri delle foibe” di vie e piazze di un gran numero di comuni d’Italia, che la predisposizione di progetti di legge per la concessione di riconoscimenti simbolici ai congiunti delle vittime delle stragi». Raoul Pupo e Roberto Spazzali, Foibe, cit., p. 203-204.

[29] Cfr. Liborio Mattina, Democrazia e nazione. Dibattito a Trieste tra Luciano Violante e Gianfranco Fini, Edizioni Università di Trieste, 1998.

[30] Enzo Collotti, Fronte orientale: La memoria carsica delle foibe, ne «Il Manifesto», 15 agosto 2000.

[31] Per il dibattito politico e mediatico attorno ai cosiddetti «ragazzi di Salò», cfr. Ilenia Rossini, Da “figli di stronza” a “quindicenni sbranati dalla primavera”: la retorica dei “ragazzi di Salò” negli ultimi venti anni, paper presentato alla conferenza “Guerre civili e politiche della memoria. Esperienze di ricerca”, Dipartemento di lingua e cultura basca, UPTER, Roma, 22 maggio 2012, disponibile a http://bit.ly/1M5fjld [consultato il 15 settembre 2014].

[32] Fini in Israele: “Il fascismo fu parte del male assoluto”, ne «La Repubblica», 24 novembre 2003, disponibile a http://www.repubblica.it/2003/k/sezioni/politica/finisr/leggi/leggi.html [consultato il 15 settembre 2014].

[33] Enzo Collotti, Giù le mani dalle foibe, ne «il manifesto», 11 gennaio 2007, disponibile a enna.anpi.it/2012/02/13/giu-le-mani-dalle-foibe-enzo-collotti/ [consultato il 15 settembre 2014].

[34] Alessandra Kersevan, Breve storia del confine orientale d’Italia nel Novecento, in Giuseppe Aragno (a cura di), Fascismo e Foibe. Ideologia e pratica della violenza nei Balcani, La città del sole, Napoli, 2008, p. 229.

[35] Giampaolo Valdevit, La questione di Trieste 1941-1954. Politica internazionale e contesto locale, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Franco Angeli, Milano, 1986, p. 139.

[36] Paola Bertilotti ne parla a proposito della defascistizzazione della società italiana del dopoguerra in id., Contrasti e trasformazioni della memoria dello sterminio in Italia, in Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Marie-Anne Matard-Bonucci, Enzo Traverso (a cura di), Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni, vol. II, Torino, Utet, 2010, p. 26.

[37] Un’altra visione profondamente critica del Giorno del Ricordo viene proposta in Sandi Volk, Cosa ricorda la Repubblica?, in Aa. Vv., Foibe. Revisionismo di Stato e amnesia della Repubblica. Atti del convegno “Foibe: La verità. Contro il revisionismo storico”, Sesto San Giovanni (Mi), 9 febbraio 2008, Edizioni Kappa Vu, Udine, 2008, pp. 143-178. Sulla resistenzializzazione della Shoah

[38] Cfr. John Foot, Fratture d’Italia, cit., p. 142. A questo proposito, la storica Chiara Tedaldi ha sottolineato come «il principale risultato raggiunto attraverso l’istituzione di una giornata del ricordo sia stato quello di posticipare a data da definirsi ogni tentativo di affrontare in maniera adeguata e ‘sana’ il vero problema, cioè il bisogno che una nazione come l’Italia ha di integrare ogni memoria nell’ambito della memoria nazionale». Chiara Tedaldi, Vittime della storia, ostaggi della memoria: riflessioni sul “Memory Boom” e l’istituzione del Giorno del Ricordo in Nazareno Re (a cura di) La frontiera orientale: conflitti, relazioni, memorie. Atti del Convegno internazionale, Ancona, 10 febbraio 2007, Il lavoro editoriale, Ancona, 2007, p. 162.

[39] Cfr. Guido Franzinetti, Le riscoperte delle “foibe”, in Jože Pirjevec, Foibe, cit., pp. 331-332.

[40] Sul ruolo della Risiera nelle commemorazioni pubbliche, con particolare riferimento al contesto geografico, cfr. Martin Purvis e David Atkison, Performing Wartime Memories: Ceremony as Contest at the Risiera di San Sabba Death Camp, Trieste, in «Social and Cultural Geography», vol. 10, n. 3, London, Routledge, 2009, pp. 337-356. Sull’esposizione storica allestita alla Foiba di Basovizza, cfr.  Sussanne C. Knittel, Memory Redux. The Foibe on Italian Television, in «The Italianist», n. 34/2, 2014, Maney, Philadelphia, p. 179-181.

[41] Gaffe del sindaco alla Risiera «Onore ai martiri delle Foibe» in «Corriere della sera», 26 aprile 2003, disponibile a http://archiviostorico.corriere.it/2003/aprile/26/Gaffe_del_sindaco_alla_Risiera_co_0_030426131.shtml [consultato il 15 settembre 2014].

[42] Tutti i temi proposti per la prima prova dell’esame di maturità del 2010 sono consultabili a http://archivio.pubblica.istruzione.it/argomenti/esamedistato/secondo_ciclo/prove/2010/as2010.htm [consultato il 15 settembre 2014]. Per l’uso pubblico della storia del confine orientale italiano nei manuali scolastici cfr. Gino Candreva, La storia consumata: revisionismo, uso pubblico della storia e manuali scolastici in Daniela Antoni, Revisionismo storico e terre di confine, cit., pp. 135-151.

[43] Tra tutti, ricordiamo l’inaugurazione nel 2008 di un monumento dedicato alle vittime delle Foibe e la realizzazione di una mostra sul tema, inaugurata nel 2010 alla Camera dei Deputati da Gianfranco Fini.

[44] Cfr. Foibe, il ‘viaggio della memoria’ degli studenti romani – sito comune di Roma e http://www.rijeka.hr/RicevimentoInOnoreDella [consultato il 15 settembre 2014]. Questi viaggi in Istria vennero soppressi dalla giunta Marino. In un’intervista al “Corriere della sera” nell’agosto 2013, il vicesindaco ed esponente di Sinistra ecologia e libertà Luigi Nieri sottolineò come «la memoria di Roma è legata all’occupazione nazifascista, altre città ricorderanno le foibe». Cfr. Bufera sulle Foibe. Il centrodestra all’attacco di Nieri, in «Corriere della sera», 17 agosto 2013, disponibile a http://archiviostorico.corriere.it/2013/agosto/17/Bufera_sulle_foibe_centrodestra_all_co_0_20130817_e1c49752-0701-11e3-b94f-9c4206d8238b.shtml [consultato il 15 settembre 2014].

[45] [45]Inaugurata a Roma la prima “Casa del Ricordo” per i martiri delle foibe e gli esuli, ne «Il Secolo d’Italia», 6 giugno 2013, disponibile a http://www.secoloditalia.it/2013/06/inaugurata-a-roma-la-prima-casa-del-ricordo-per-i-martiri-delle-foibe-e-gli-esuli/ [consultato il 15 settembre 2014].

[46] Gianni Alemanno, Divoriamo la nostra storia. Ora basta col cannibalismo, ne «Il Giornale», 13 giugno 2013, disponibile a http://duepuntozero.alemanno.it/wp-content/uploads/2013/06/Basta-cannibalismo_ridotto.pdf [consultato il 15 settembre 2014].

[47] Bisogna, pertanto, porsi nel solco tracciato dagli studi di Peter Dalghren sull’influenza della televisione nella formazione della sfera pubblica, cfr. soprattutto Television and the Public Sphere. Citizenship, Democracy and the Media, London, Sage, 1995. Per quanto riguarda la letteratura nazionale, cfr. Marita Rampazi e Anna Lisa Tota (a cura di), Il linguaggio del passato. Memoria collettiva, mass media e discorso pubblico. Roma , Carocci, 2005.

[48] Sul passaggio cruciale degli anni novanta come “rottura” della narrazione del fascismo e dell’antifascismo sui media nazionali, cfr. Vanessa Roghi, La Resistenza in TV, in Aldo Agosti e Chiara Colombini (a cura di), Resistenza e autobiografia della nazione. Uso pubblico, rappresentazione, memoria, Torino, SEB, 2012, pp. 208-219 e id., Mussolini and post-war Italian television in Stephen Gundle, Christopher Duggan e Giuliana Pieri (a cura di), The Cult of the Duce Mussolini and the Italians, Manchester, Manchester University Press, 2013. Questa “rottura” individuata da Roghi si caratterizza, nello specifico, in una generale invadenza della politica nazionale nelle rappresentazioni televisive a tema storico e in uno spostamento dell’asse della narrazione di queste opere dalla dimensione pubblica a quella privata. Entrambe queste caratteristiche torneranno nei racconti televisivi sulle Foibe presentati di seguito.

[49] Tra gli Speciali TG1, i servizi di Porta a Porta e altri servizi specifici andati in onda a ridosso del Giorno del ricordo tra il 2004 e il 2014, sul sito www.rai.tv è possibile contare 86 risultati con la chiave di ricerca “foibe” (consultato il 15 settembre 2014).

[50] Sul sito http://www.portaaporta.rai.it/ è possibile cercare e rivedere tutti gli speciali andati in onda in occasione della Giornata della memoria e del Giorno del ricordo (consultato il 15 settembre 2014).

[51] A proposito dell’utilizzo del termine, cfr. Eva Hahn e Hans Henning Hahn, The Holocaustizing of the Transfer Discourse. Historical Revisionism or Old Wine in New Bottles?, in Michael Kopek (a cura di), Past in the Making. Recent History Revisions and Historical Revisionism in Central Europe after 1989, Central European University Press, Budapest, 2008, pp. 39-55.

[52] [52]Gasparri: ora spero di vedere una seria fiction sulle foibe in «La Stampa», 18 aprile 2002, disponibile a http://bit.ly/1XAHeNp  [consultato il 15 settembre 2014].

[53] La miniserie è andata in onda in prima serata su Rai Uno lunedì 28 e martedì 29 gennaio 2002, con uno share tra il 38,9% e il 43,81%. Cfr. Milly Buonanno (a cura di), Storie e memorie. La fiction italiana. L’Italia nella fiction. Anno quattordicesimo, Rai Eri, Roma, 2003, p. 277.

[54] Il film è tratto dalla ricostruzione giornalistica di Enrico Deaglio, La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca, Feltrinelli, Milano, 1991. Per un’analisi del film di Negrin. cfr Emiliano Perra, Conflicts of Memory. The Reception of Holocaust Films and TV Programmes in Italy, 1945 to the Present, Oxford, Peter Lang, pp. 223-231 e id., Legitimizing Fascism Through the Holocaust? The Reception of the Miniseries Perlasca: un eroe italiano in Italy, in «Memory Studies», n. 3/2010, Thousand Oaks, Sage, 2009, pp. 95-109. In quest’ultimo articolo, in particolare, Perra sottolinea come la messa in onda di Perlasca rappresenti un punto di svolta per la riabilitazione culturale del fascismo in Italia.

[55] Sabbatucci, in un’intervista al «Corriere della sera» di qualche anno prima, aveva sostenuto che «le foibe erano peggio delle Fosse Ardeatine, poiché queste ultime sarebbero state un’azione di guerra – e in questa logica giustificabili – le foibe invece pulizia etnica». Cfr. Lo storico: “In Istria fu pulizia etnica. La strage alle Fosse, azione di guerra” in «Corriere della sera», 15 agosto 1996, disponibile a Lo storico: ” In Istria fu pulizia etnica. La strage alle Fosse, azione di guerra “ [consultato il 15 settembre 2014].

[56] Dell’episodio di Pisino ne parla Nerina Feresini in id., La foiba di Pisino, Pisino, Famiglia pisinota, 1972. Esso è ripreso a proposito del film in Claudia Cernigoi, In merito al film “Il cuore nel pozzo” prodotto da Angelo Rizzoli per RAI Fiction, disponibile a http://www.resistenze.org/sito/os/ip/osip4i08.htm [consultato il 15 settembre 2014].

[57] Per una critica militante al film di Negrin si rimanda al video prodotto dal collettivo indipendente Militant, dal titolo Il cuore nel pozzo: un caso di revisionismo storico (2008), disponibile a https://www.youtube.com/watch?v=zn9nbAQa_vg [consultato il 15 settembre 2014].

[58] Sul ruolo dei bambini ne Il cuore nel pozzo, cfr. Silvia Zetto Cassano, I cuori e la frontiera: rappresentazione dell’esodo nel cinema, in «Qualestoria», n. 33/2005, p. 109.

[59] Il sottotitolo della fiction richiama certamente tutta una serie di stereotipi legati all’ italianità dell’eroe in questione: dall’incoscienza alla generosità, dall’istintività all’improvvisazione. Non sembra un caso, infatti, che il personaggio di Giorgio Perlasca ricordi velatamente il Guido Orefice de La vita è bella. Sul paradigma dell’italianità, cfr. Millicent Marcus, Italian Film in the Shadow of Auschwitz, Toronto-Buffalo-London, University of Toronto Press, 2007, pp. 125-137. Nello specifico, attraverso questo film le gesta di Perlasca diventano una specie di sineddoche per il comportamento di tutti gli italiani nei confronti degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, cfr. Robert Gordon, The Holocaust in Italian Culture, 1944-2012, Stanford, Stanford University Press, 2012, pp. 152-153 (trad. it. Scolpitelo nei cuori. L’Olocausto nella cultura italiana (1944-2010), Torino, Bollati Boringhieri, 2013) e Milly Buonanno, Italian TV-Drama and Beyond. Stories from the Soil, Stories from the Sea, Bristol, Intellect, 2012, pp. 211-222.

[60] Claudio Gaetani ha sottolineato come le caratteristiche del personaggio di Perlasca richiamino, nello specifico, la definizione cinematografica di altri giusti sparsi nel genere degli Holocaust Film. Cfr. Claudio Gaetani, This Must Be The Memory. Vent’anni di sguardi del cinema italiano sulla Shoah, in Andrea Minuz e Guido Vitiello (a cura di), La Shoah nel cinema italiano, in «Cinema e Storia», n.2, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013, pp. 112-113. Per un’analisi incrociata di Perlasca con una fiction su un altro «eroe italiano» – Giovanni XXIII – cfr. Giovanni Bechelloni, Il programma dell’anno. Papa Giovanni e Perlasca: due eroi dell’Italia profonda, in Milly Buonanno (a cura di), Storie e memorie, cit., pp. 89-120 (per una breve rassegna critica sulla fiction di Negrin, cfr. pp. 108-114).

[61] Sussanne C. Knittel ha osservato, nello specifico, delle analogie di produzione tra Il cuore nel pozzo e la serie americana Holocaust (1978, M. Chomsky). L’obiettivo dei produttori della serie italiana, secondo Knittel, sarebbe infatti quello di suscitare un dibattito pubblico attorno al tema delle Foibe, esattamente come era avvenuto venticinque anni prima sulla Shoah dopo la messa in onda della la serie americana in Italia con il titolo Olocausto (1979). Cfr. Sussanne C. Knittel, Memory Redux. The Foibe on Italian Television, cit., p. 174. Sulla ricezione italiana di Holocaust, cfr. Emiliano Perra, Politica, Memoria, Identità. La ricezione italiana di Holocaust e Schindler’s List, in Andrea Minuz e Guido Vitiello (a cura di), La Shoah nel cinema italiano, cit., pp. 49-68.

[62] [62]Jože Pirjevec, Foibe, cit., p. 228.

[63] [63]Claudio Magris, Le foibe. Silenzio e chiasso, in «La Voce del Popolo», 2 febbraio 2005.

[64] Cfr. Alessandra Kersevan, Breve storia del confine orientale d’Italia nel Novecento, cit., p. 99. Nel film di Negrin, in una schermata iniziale, si parla genericamente di «migliaia e migliaia di italiani».

[65] Per l’analisi di questa virata e delle sue conseguenze sugli sceneggiati televisivi ad argomento storico si rimanda ai due lavori di Elisa Giomi, Centralità della fiction, in Franco Monteleone (a cura di), Televisione ieri e oggi. Analisi e studi del caso italiano, Marsilio, Venezia, 2006, pp. 230-272. e Public and Private, Global and Local in Italian Crime Drama: The case of “La Piovra”, in Michela Ardizzoni e Chiara Ferrari (a cura di), Beyond Monopoly. Globalization And Contemporary Italian Media, Lexington Books, Lanham, 2010, pp. 79-100.

[66] Francesco Casetti, Le funzioni della fiction televisiva, in Francesco Casetti e Federica Villa (a cura di), La storia comune. Funzioni, forma e generi della fiction televisiva, Rai Eri, Roma, 1992, p. 23.

[67] Secondo una puntuale definizione di Edgar Morin, gli immaginari sono i punti di coincidenza soggettiva tra immagini e immaginazioni, cfr. Edgar Morin, Le cinéma oh l’homme imaginaire, Minuit, paris, 1956, trad. it. Il cinema o l’uomo immaginario, Feltrinelli, Milano, 1982, p. 89.

[68] John Foot, Fratture d’Italia, cit., p. 37.

[69] In questo contesto, è importante ricordare la pièce teatrale sulle Foibe e sull’esodo giuliano-dalmata, dal titolo «Magazzino 18»,  ideata e realizzata dal cantante pop Simone Cristicchi. La rappresentazione, infatti, si distingue per una serie di imprecisioni storiche, banalità interpretative e omissioni intenzionali; per il fatto, cioè, di essere unicamente tesa alla diffusione del già citato paradigma della memoria condivisa. Anche qui, peraltro, non mancano una serie di riferimenti musicali alla colonna sonora di quello che è considerato l’Holocaust film per eccellenza, Schindler’s List. Per un ottimo articolo di critica all’intera operazione teatrale, cfr. Piero Purini e Wu Ming, Quello che Cristicchi dimentica. Magazzino 18, gli «italiani brava gente» e le vere larghe intese, pubblicato il 24 febbraio 2014 e disponibile al link http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=16149 (consultato il 15 settembre 2014).

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