L’indice storico delle immagini dice, infatti, non solo che esse appartengono a un’epoca determinata,
ma soprattutto che esse giungono a leggibilità solo in un’epoca determinata. […]
Ogni presente è determinato da quelle immagini che gli sono sincrone:
ogni adesso è l’adesso di una determinata conoscibilità.
Walter Benjamin
Lo studio della storia ricopre uno spazio di grande portata. Esso va dal semplice apprendimento scolastico, impartito in giovanissima età a ogni allievo, fino alle vette più alte della produzione intellettuale. Difficilmente un’altra disciplina può situarsi in un terreno così ampio e accompagnare, in modi così differenti, l’esperienza di un ingente numero di persone. Ciò si giustifica, probabilmente, con l’umanissima sensazione di trovarsi durante il corso della propria vita all’interno del tempo, di un’epoca, di un’età. Pur presentandosi in una veste così pacifica, la relazione tra i concetti di tempo e di storia presenta numerosi elementi problematici. Un importante contributo all’analisi del rapporto tra i due concetti citati è offerta da Giorgio Agamben in apertura di un suo saggio intitolato, non casualmente, Tempo e storia. Critica dell’istante e del continuo.
Ogni concezione della storia è sempre data insieme con una certa esperienza del tempo che è implicita in essa, che la condiziona e che si tratta, appunto, di portare alla luce. Parimenti ogni cultura è innanzitutto una certa esperienza del tempo e una nuova cultura non è possibile senza un mutamento di questa esperienza[1].
Seguendo il ragionamento di Agamben possiamo osservare in quale misura tempo e storia siano concetti legati da una relazione ambivalente, al cui centro appare in tutta evidenza l’azione decisiva dell’esperienza. Ciò suggerisce l’esigenza di ribaltare il piano dell’analisi, e perseguire la concezione della Storia partendo non tanto da un’idea astratta del tempo, bensì dall’indagine della sua esperienza concreta. Un assunto teorico di questo genere apre il campo a un ricchissimo bacino di questioni, tutte orbitanti intorno alla natura problematica e sfuggente dell’esperienza corrente. Già nel 1978, l’epoca di uscita del saggio citato, Agamben pensava alla modernità come un’epoca capace di distruggere il concetto di esperienza, almeno nel suo significato tradizionale[2]. Secondo il filosofo, la ragione di tale atrofia dell’esperienza[3] risiedeva nella natura profonda della modernità occidentale, ovvero nella sua vocazione alla ciclica distruzione e riconfigurazione di qualsiasi significato e di qualsiasi autorità. Da ciò non può che fuoriuscire un modello di esperienza del tempo differente rispetto a quello immutabile e continuo delle società tradizionali. La forma di questa nuova modalità esperienziale del tempo, propria della modernità, diviene dunque la moda. Solo da questo tipo di idea “formale” del tempo è possibile pensare una concezione della storia adatta al presente[4]. Di conseguenza qualsiasi approccio teorico allo studio della storia non può che risultare mutato.
Posto in quest’ordine, il rapporto esistente nella modernità tra esperienza del tempo e concezione della storia deve includere tra i suoi elementi fondamentali anche l’armamentario tecnoculturale, e con esso i dispositivi della comunicazione, che l’occidente ha prodotto nell’epoca in questione. Il ruolo svolto dai media moderni nel processo di distruzione dell’esperienza che ha in mente Agamben è comprensibile, ad esempio, nella spiegazione che Walter Benjamin offre del rapporto tra il lettore e il giornale quotidiano:
Se la stampa si proponesse di far sì che il lettore possa appropriarsi delle sue informazioni come di una parte della sua esperienza, mancherebbe interamente il suo scopo. Ma il suo intento è proprio l’opposto, ed essa lo raggiunge. È quello di escludere rigorosamente gli eventi dall’ambito in cui potrebbero colpire l’esperienza del lettore[5].
Nell’avverarsi di una data forma storica di esperienza, i media sembrano assumere un ruolo di primario interesse. Per dirla con una terminologia benjaminiana, il medium della stampa, entrando nella costellazione storica del tempo moderno favorisce una discontinuità nella natura dell’esperienza umana, le cui ripercussioni sul concetto di storia sono per nulla secondarie. La partita si va dunque giocando intorno al concetto di esperienza, è peraltro lo stesso Benjamin a ricordarlo poche righe dopo la citazione precedente:
La rigida esclusione dell’informazione [dall’esperienza privata del singolo] dipende anche dal fatto che essa non entra nella «tradizione». I giornali appaiono in forti tirature. Nessun lettore ha più facilmente qualcosa da poter raccontare all’altro. C’è una specie di concorrenza storica tra varie forme di comunicazione[6].
La difficoltà dell’uomo moderno, non tanto di incontrare la dimensione pubblica per mezzo della stampa, bensì di riconoscere nell’informazione un grado di autorità capace di resistere alle forze distruttive della modernità suggerisce, secondo Benjamin, una diminutio dell’esperienza tradizionale. L’informazione mediata dalla stampa non proviene dalla metafisica della tradizione, essa si riceve, è necessaria per entrare in contatto con la società, ma non si accumula come sapere, e soprattutto non si tramanda come saper-fare. L’esperienza del lettore del giornale quotidiano spezza così la congiunzione tra la vita pratica e la dimensione metafisica della società, “relegandosi” nel terreno dell’immaginario collettivo. Il tipo di esperienza che vive il lettore della stampa è finalmente un’esperienza che si può fare, ma che non si può mai avere.
È noto che le teorie di Walter Benjamin, specialmente quelle riguardanti il concetto d’esperienza, permettano al lettore diversi percorsi interpretativi. Così nel pensiero di quest’autore, la lettura di un giornale quotidiano, ma lo stesso vale per tutte le altre forme mediali successive alla rivoluzione industriale, presuppone un tipo di esperienza “post-tradizionale”, in cui l’atrofia del precedente modello sembra paradossalmente la condizione necessaria all’insorgenza di nuove forme esperienziali. In questo modo Benjamin, le sue tesi di filosofia della storia sono in tal senso fondamentali, indica al suo lettore il punto di rottura tra tradizione e modernità da cui discenderà ugualmente una rinnovata concezione della storia. Al centro di tale idea di storia rifulge lo splendore dei dispositivi della comunicazione[7].
Alcune considerazioni sull’intervento di Mario Pireddu in occasione del seminario “Dalla storia dei media ai media come fonti di storia”
Sin qui abbiamo voluto evidenziare la facoltà dei media moderni di ridefinire in profondità l’esperienza del tempo vissuta dall’individuo, e con essa lo stesso concetto di storia. Il senso di tale affermazione chiarisce oltremodo l’entità del contributo che gli studi mediologici e culturali possono apportare a una corretta teorizzazione del concetto in questione. L’idea, tipicamente mediologica, che ogni dispositivo della comunicazione favorisca la rielaborazione personale e collettiva del concetto di tempo, oltre a ricadere positivamente sull’indagine del medium preso in esame, offre un’opzione fondamentale al lavoro degli storici, che da questa evidenza possono arricchire la portata del proprio sapere. Su questa direttrice teorica è così possibile passare a contropelo la connessione Media/Storia al fine di cogliere le indubbie potenzialità di un simile approccio metodologico.
Lo stesso ordine di problemi che qui si sta affrontando, è stato preso in esame in occasione del seminario “Dalla storia dei media ai media come fonti di storia”, la cui ultima sessione, che in questa sede prenderemo in esame, è stata dedicata allo specifico ambito dei social network. Rispetto alle forme mediali così dette di massa, reperire nell’ambito dei social network elementi (fonti?) funzionali ad un’indagine storico-mediologica presenta numerose criticità e altrettante potenzialità. La stessa costruzione di un discorso su questo legame, pur essendo altamente necessaria, fatica ad affermarsi nel dibattito intellettuale, così come in quello d’opinione. È plausibile che le ragioni di questa difficoltà risiedano nelle novità che i processi sociali e culturali tipici di questi ambienti di comunicazione digitale pongono all’attenzione di tutti, ricercatori e semplici utenti. Tali novità, sia sul versante dei processi, sia su quello dei contenuti, facendo emergere nuove forme esperienziali sembrano costringerci a un ripensamento complessivo delle teorie e dei metodi d’indagine adatti allo studio della storia. Questo perché gli stessi processi e gli stessi contenuti, differentemente da quanto poteva avvenire per il cinema, evidenziano sostanziali differenze sul piano delle loro forme relazionali, dei loro immaginari di riferimento, dei loro processi di produzione/fruizione e del tipo di tecnologie entro cui prendono vita. Ciò non può che rendere inefficaci molte delle categorie mobilitate tradizionalmente per l’analisi storica, non ultima quelle relative alle “fonti”. Questo perché il salto tecnologico rappresentato dai media digitali produce un tipo di conseguenze non dissimili da quelle osservate da Benjamin in merito alla fotografia:
già precedentemente era stato sprecato molto acume per decidere la questione se la fotografia fosse un’arte – ma senza che ci si fosse posta la domanda preliminare: e cioè, se attraverso la scoperta della fotografia non si fosse modificato il carattere complessivo dell’arte – ,i teorici del cinema ripresero ben presto questa male impostata problematica[8].
La riproducibilità tecnica dell’opera per Benjamin non si limita semplicemente a “uccidere” l’aurea, ma se ne sostituisce come fattore qualificante. L’innovazione tecnologica, in tal senso, deborda i confini scientifici della sua applicazione, influenzando al contrario tutta la dimensione dei prodotti e dei processi a essa ascrivibili. Di conseguenza, la modificazione del carattere complessivo dell’arte, sia nel caso della riproducibilità tecnica sia in quello dei media digitali, non può che esigere una modificazione nell’impianto teorico dei saperi che cercano di comprendere i suoi fondamenti. La semplice concezione del significato di documento o fonte storica ne esce ovviamente rinnovata.
Per fare luce sull’ordine dei problemi elencati, durante il seminario ha avuto luogo l’intervento di Mario Pireddu. Quest’ultimo ha cercato di venire a capo delle questioni sin qui brevemente esposte, attraverso un’analisi articolata in tre macro aree: breve storia dei social media; cultura della condivisione e fonti; big big big data. Pur nella successione logica dell’esposizione orale, i tre punti proposti disegnano un discorso generale e omogeneo sulla natura dei dispositivi e degli ambienti di comunicazione che rientrano nella categoria dei social media. L’organicità dell’intervento di Pireddu si evince dalle connessioni tra i suddetti punti, e dalla loro “messa in opera” finalizzata all’evocazione di talune trasformazioni, tecnologiche e culturali, favorite dai social network. Così i dati illustrati in apertura sull’incremento vertiginoso della diffusione dei social network, e dei dispositivi digitali che ne permettono un uso quantitativamente significativo nel quotidiano, hanno senso come fotografia di un processo di alfabetizzazione ai media digitali entro cui si sono elaborate trasformazioni fondamentali sul piano sociale e culturale. La cultura della condivisione, richiamata da Pireddu nella seconda sezione del suo intervento, è pertanto la “forma” generale e comprensiva dei processi che si sono sviluppati a cavallo tra ventesimo e ventunesimo secolo. In questa fase storica le potenzialità tecnologiche dei media digitali hanno abilitato modalità sempre più complesse di consumo produttivo, di relazione bidirezionali tra singoli utenti o tra utenti e istituzioni – siano esse politiche o private – modificato in profondità il significato collettivo della dimensione pubblica e di quella privata, del concetto di spazio e di quello di tempo, così importante, come abbiamo visto, per gli studi storici. Dentro la cornice di possibilità rappresentate dalle tecnologie digitali hanno preso corpo, con tutti gli aspetti fisiologicamente conflittuali del caso, modalità esperienziali della rete e dei social network che possono ragionevolmente essere comprese dentro la definizione di cultura della condivisione. Grazie alla connessione, che in-forma tanto i dispositivi tecnologici tanto le loro modalità d’uso socialmente accettate, l’utente ha potuto mettersi in gioco come produttore di contenuti e allo stesso tempo come vettore di distribuzione degli stessi contenuti verso altri utenti connessi con lui. Tutta la gamma di processi sociali e culturali ascrivibili a tali comportamenti si sono via via normalizzati nel quotidiano delle persone, finendo per diventare materia di “senso comune”, abitudine.
I social network, dando vita alla massa complessa di relazioni e di contenuti che caratterizzano le loro modalità di comunicazione, pongono un ulteriore problema teorico innanzi alla storiografia. In altre parole: le immagini, i video, le conversazioni e tutti i contenuti prodotti e distribuiti dagli utenti dei social network sono fonti storiche? Il problema delle fonti è una questione capitale per la storiografia, giacché essa ha tradizionalmente lavorato con ciò che nel presente possiamo osservare del passato. Individuare o convenire sull’attendibilità delle fonti, sul loro portato di verità, può dunque essere considerato la base del lavoro storiografico. Pensando alla struttura dei social network è lecito domandarci, lo stesso ha fatto Pireddu nel suo intervento, se la traccia di uno status o la possibilità di ripercorrere a ritroso la time line di un nostro contatto possa o debba essere materia per gli storici. L’incredibile massa di dati a cui è oggi possibile accedere sembra suggerire un ventaglio di possibilità e di sfide che qualsiasi osservatore, sia esso uno storico o un mediologo, non può ignorare. Non è in tal senso casuale che molti autori vedano nei big data, e nella loro “malleabilità” statistica, l’orizzonte di una nuova era per le scienze sociali. È altrettanto vero però, che su questo tipo di problematica si fatichi ancora nel trovare un terreno comune tra strenui oppositori delle tecnologie digitali e la restante parte degli osservatori, più o meno ottimisti sull’impatto delle stesse tecnologie negli scenari globali[9]. Ciò suggerisce la necessità di un ulteriore sforzo teorico per poter pensare un rapporto così significativo come quello tra media e storia.
Pensare la storia attraverso l’esperienza dei media
Guardare al problema dell’esperienza, così come abbiamo fatto in apertura, è a nostro avviso una possibile via d’uscita all’impasse tra apocalittici e integrati. Riconsiderare la connessione tra media e storia partendo da questo concetto è possibile pensando al suo significato moderno, ovvero come afferma Jedlowski:
la presenza immediata di una percezione nella coscienza del soggetto, che si realizza un una forma unica e irripetibile, e tuttavia dipendente dall’immersione del soggetto stesso in un mondo di significati storici[…] è la “cosa” percepita e insieme il “significato” che essa assume nel rapporto con colui che la percepisce[10]
Leggendo queste righe si capisce quanto il concetto di esperienza si leghi a doppio filo ai processi percettivi del soggetto, al significato della “cosa” percepita, e a un tempo storico determinato che avvolge tutte le parti in gioco con le proprie caratteristiche peculiari. Tutti e tre i fattori (percezione, cosa e tempo storico) concorrono a dare all’esperienza la forma del processo, ossia una prassi intellettuale finalizzata alla percezione del mondo circostante[11]. Il concetto di esperienza finisce così per sovrapporsi a quello di medium, anch’esso determinante nei processi percettivi e conoscitivi della persona. Comprendiamo il mondo che circonda, ne facciamo esperienza, in virtù di una struttura cognitiva modellata sulle caratteristiche del medium che utilizziamo. Allo stesso tempo conosciamo il medium – sia esso la tv o uno smartphone – facendone esperienza, ovvero costruendo personalmente e collettivamente una sua modalità d’uso e un suo significato. Ripercorrendo quanto affermato rispetto ai social network, possiamo vedere quanto l’esperienza delle reti sociali, o più specificatamente l’esperienza nelle reti sociali, metta in evidenza la centralità della relazione come processo cognitivo e percettivo non solo relativamente a ciò che intendiamo per società, ma anche rispetto al chiarimento di ciò che si intende per storia. Sulla stessa problematica si espresse, con stupefacente lungimiranza, Georg Simmel, affermando che:
Non è ora più possibile spiegare i fatti storici, nel senso più ampio della parola, cioè i contenuti della cultura, i tipi di economia, le norme della moralità partendo dall’uomo singolo, dal suo intelletto e dai suoi interessi, e dove ciò non riesce, ricorrere subito a cause metafisiche o magiche. […] Piuttosto noi crediamo ora di comprendere i fenomeni storici in base all’agire reciproco e all’agire in comune degli individui, in base alla somma e alla sublimazione d’innumerevoli contributi individuali, in base al concretarsi delle energie sociali che stanno e si sviluppano al di là dell’individuo[12].
In questo frammento del fondamentale tomo sulla sociologia Simmel afferma con forza l’esigenza di una nuova sensibilità intellettuale rispetto allo studio del tempo storico e dei suoi fenomeni più significativi, siano essi di natura economica, culturale o morale. La stessa genesi di un fatto storico, secondo il filosofo tedesco, si produce nell’esperienza della relazione, nell’azione reciproca, nelle energie sociali che superano l’interesse individuale. La società, intesa come somma delle relazioni, è dunque il medium del tempo storico, il processo che ne costituisce la sua forma concreta. Ne consegue che la comprensione del tempo storico si realizzi essa stessa all’interno di questo reticolo di relazioni. Non in un semplice ripiegamento su di esse, bensì nella presa di coscienza che il loro spazio è il luogo dell’indagine, è la forma esperienziale entro cui la vita si realizza. Se è in questi termini che Simmel si districava, con la sapienza del detective all’interno dei problemi fondamentali della sociologia, ci sembra naturale assumere le sue teorie sulla Wechselwirkung come un sapere in grado di arricchire sensibilmente il dibattito corrente sui social network. Questo perché gli ambienti digitali di comunicazione pongono i processi relazionali immediatamente sotto gli occhi del ricercatore, e non nell’oscurità delle coscienze individuali come poteva accadere nell’esperienza televisiva o del cinema. I processi relazionali sono il nucleo vitale delle modalità comunicative dei social network, di fatto una loro condizione essenziale di esistenza. L’esperienza che si costruisce al loro interno deriva proprio dalla concretezza delle relazioni che ogni utente esperisce, mutando forma in virtù di tale “eccesso” relazionale.
Rimanendo su questa via, nonostante un salto temporale di più di cento anni, ci sembra di cogliere ancora la traccia dei problemi fondamentali della sociologia simmeliana nelle seguenti affermazioni di Giovanni Boccia Artieri, molto utili per fotografare la realtà corrente nei social network:
Cosa accade nel momento in cui milioni di persone nel mondo non sono più semplicemente pubblico massa, non sono più semplicemente connesse attorno a comunicazioni di massa secondo un principio “gravitazionale” – come il pulviscolo attorno ad un pianeta la cui unica relazione è la condivisione di un orbita – ma possono produrre connessioni “di massa” tra loro, con e attraverso contenuti che imparano non solo a fruire ma a produrre e distribuire?[13].
Secondo Boccia Artieri accade che l’individuo, a fronte dei nuovi processi sociali e culturali innescati dai media digitali, muti il proprio “senso della posizione” rispetto alla comunicazione.
Quello che, innanzitutto, cambia è il senso della posizione nella comunicazione. Eravamo abituati a essere (e pensarci come) pubblico, consumatori, cittadini. Ad abitare in un quadro di comunicazioni di massa, credendo di poter sviluppare comunicazioni interpersonali profondamente distinte dal mondo dei mass-media. […] Oggi invece ci troviamo difronte allo sviluppo di tecnologie di comunicazione e pratiche correlate che modificano la nostra idea di “amicizia” e di “cerchia sociale”, che mutano il nostro percepirci come oggetto passivo delle comunicazioni di massa e cambiano il nostro pensarci come cittadini, consumatori, pubblico. Il paradigma comunicativo è mutato: non siamo più solo “oggetto” di comunicazione ma “soggetto” di questa. Quello che stiamo costruendo è un equilibrio sociale diverso[14].
Il cambio di posizione di cui parla Boccia Artieri è dunque esplicabile nello slittamento del pubblico da oggetto a soggetto, e da una condizione di separazione a una d’inclusione nei processi comunicativi. È, di fatto, una modificazione nell’esperienza della persona, ora in grado di ricostruire il senso e la percezione del proprio abitare i media attraverso abitudini modellate alla forma dei media digitali. Effetto di tale trasformazione è, ad esempio, la fine della funzione puramente rappresentativa dei media. I media contemporanei non sono più delle finestre attraverso cui guardiamo la società che ci circonda. Essi diventano “l’ecosistema” entro cui si compone il nostro quotidiano, fatto di relazioni, scambi e abitudini. Pertanto non ci limitiamo più a “guardare la tv”, siamo in realtà connessi a essa, giacché è parte dei processi comunicativi che ci attraversano.
Prendendo ad esempio l’evoluzione del medium televisivo è possibile cogliere quanto l’evoluzione tecnologica di questo dispositivo, oggi completamente con-fusa con i dispositivi digitali connessi, abbia abilitato e favorito una sostanziale modificazione dell’esperienza televisiva. Oggi il semplice pronunciare il termine televisione rimanda immediatamente ad una serie di comportamenti e pratiche di fruizione provenienti dal mondo delle reti, e in particolare dei social network. La stessa esperienza televisiva, modellandosi su quella degli utenti degli ambienti di comunicazione digitale, finisce per ridelineare la sua concezione del tempo, fino a pochi anni fa definita dal modello dei palinsesti. Una così brusca discontinuità nell’esperienza collettiva del tempo, almeno secondo le teorie di Agamben, non può che mettere in questione la stessa concezione della storia. Ne consegue che l’estrema dilatazione del tempo che ogni utente vive nella sua esperienza dei social network, così diversa rispetto alla linearità temporale dell’ideologia del progresso industriale, esiga un ripensamento complessivo del concetto di Storia, ora particolarmente dipendente dallo studio dei media.
[1] G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino, 2001, p. 95
[2] Sulle trasformazioni del concetto di esperienza tra società tradizionali e società moderne si veda: P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza. Fra l’abitudine e il dubbio, Carocci, Roma 2013.
[3] Sull’atrofia dell’esperienza tradizionale si veda: W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1995.
[4] L’esperienza del tempo nella modernità, al netto delle caratteristiche generali di quest’epoca, assume la ritmica e il senso della moda, ossia una ciclica distruzione e ricostruzione di abitudini, stili di vita, valori, estetiche. Su questo argomento si veda: G. Simmel, La moda, Mondadori, Milano 1988; A. Rafele, Figure della moda. Metropoli e riflessione mediologica tra Ottocento e Novecento, Liguori, Napoli 2010.
[5] W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, cit., p. 92
[6] W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, cit., p. 93
[7] Sul rapporto tra esperienza della modernità, in particolare della metropoli, e sviluppo dell’industria culturale si veda: A. Abruzzese, Lo splendore della Tv. Origini e destino del linguaggio audiovisivo, Costa&Nolan, Genova 2000
[8] Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, pp. 29-30
[9] Per una lettura esaustiva del dibattito corrente sui social network si veda: M. Pireddu, Facebook: comunicazione e reti sociali. Uno sguardo laico, in Galassia Facebook. Comunicazione e vita quotidiana, a cura di G. Fiorentino, M. Pireddu, Nutrimenti, Roma 2012
[10] Paolo Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, cit., p. 64
[11] Sul concetto di medium come processo si veda: M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Roma 2008
[12] G. Simmel, Sociologia, Edizioni di comunità, Milano 1989, pp. 6-7
[13] G. Boccia Artieri, Stati di connessione. Pubblici, cittadini e consumatori nella (Social) Network Society, FrancoAngeli, Milano 2012
[14] Ibid.