Il mestiere di storico e le «metafore del cinema»

Introduzione

Nell’ambito del seminario «Dalla storia dei media ai media come fonti di storia», il tema del rapporto tra cinema e storia è stato affrontato da Gino Frezza[1], chiamando gli storici e i sociologi dei processi culturali a mettere a confronto teorie, strumenti di analisi e percorsi di ricerca, con l’obiettivo di una riflessione congiunta sul significato della storia e della memoria nell’età della comunicazione di massa, della «preminenza del visivo» e della «simultaneità».

Prendendo le mosse dalle osservazioni di Gilles Deleuze[2] sulla facoltà dell’immagine filmica di restituire al passato quel «presente che il passato è stato», il discorso di Frezza si è dispiegato lungo i nodi problematici del rapporto tra linguaggio cinematografico, storia e documento, del racconto della storia e della riorganizzazione dello sguardo filmico prodotta dalle tecnologie digitali.

Si tratta di questioni centrali per l’uso delle fonti audiovisive come documenti decisivi per leggere la contemporaneità, in sintonia con le considerazioni di Peter Burque sul «significato storico delle immagini»[3],  di Antoine de Bacque e Christian Delage su «l’histoire au cinéma»[4] e di Giovanni De Luna su «la passione e la ragione» che devono contraddistinguere «il mestiere dello storico contemporaneo»[5].

Alcune suggestioni derivanti dal dibattito anglosassone, francese e italiano, dalla storia del cinema e dall’uso pubblico della storia possono essere allora utili per una discussione a tutto campo del discorso di  Frezza e dei punti più controversi del passaggio dalla storia dei media ai media come fonti di storia.

1.L’immagine filmica e la storia

Come ha rimarcato Frezza, fin dalle prime battute del suo intervento, considerare i media come fonte di storia vuol dire abbandonare una concezione dell’immagine filmica come semplice  testimonianza di una determinata epoca, per affrontare il rapporto tra cinema e storia in connessione con «l’identità mediologica» del cinema e con le sue trasformazioni tecnologiche.

Immergendosi nella storia del cinema e nel mutamento del linguaggio cinematografico, lo storico può analizzare dall’interno la tensione tra il racconto della realtà e la sua riproduzione filmica, in una dialettica incessante tra il tempo presente, la rielaborazione della storia e le emozioni della visione cinematografica.

E’ una considerazione che trova riscontro fin dagli esordi del cinematografo, basti pensare alle produzioni dei fratelli Lumière e di Georges Méliès, all’esperienza di Filoteo Alberini e ai capolavori di Charlie Chaplin, in un arco cronologico compreso tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento[6].

Nonostante la distanza tra la produzione realistica dei fratelli Lumière, rappresentata dalle immagini  classiche de «La sortie de l’usine Lumière à Lyon» e de «LArrivée d’un train à la Ciotat» e  quella fantasmagorica di Georges Méliès, condensata nell’eccezionale «Le voyage dans la lune», la dialettica tra il tempo presente che diviene storia e la sua proiezione nell’immagine filmica percorre il cinema dei Lumière e di Méliès in maniera ancora oggi sorprendente, per la sua aderenza alle dinamiche della politica e della società europea della loro epoca[7].

Scorrendo il catalogo della produzione artistica dei fratelli Lumière e di Georgies Méliès, il rapporto tra il cinema, la storia e le metafore della visione appare  costitutivo della stessa avventura del cinematografo e della sua capacità di fondere sullo schermo documentazione, narrazione e trasfigurazione della realtà a beneficio dello spettatore.

Nel catalogo dei fratelli Lumière, le serie intitolate «Voyage de M. le Président de la République en Russie», «Fêtes à l’occasion de l’Exposition de Turin», «Funérailles du Roi d’Italie Humbert I», «Exposition universelle de Paris», «Courennement de S. M. le Roi Edouard VII» riprendono con la macchina da presa alcuni avvenimenti della politica e della società europea e li proiettano quasi in tempo reale sullo schermo cinematografico, trasformandoli  in storia e attribuendo ad essi i connotati della meraviglia, insiti nel mondo delle immagini[8].

Nel catalogo di Georges Méliès, alcuni titoli come «Habitants mahométans de la Crète massacrent des Grecs chrétiens» e «Turc attaquant une maison défendue par des Grecs» ricostruiscono in studio gli avvenimenti della guerra greco – turca, mentre i dodici episodi de «L’Affaire Dreyfus» riproducono con gli strumenti della finzione cinematografica i momenti salienti di un passaggio dirompente nella storia politica della Francia e dell’Europa di fine secolo[9].

Nel primo Novecento, il pioniere del cinema Filoteo Alberini dedica i lungometraggi «La presa di Roma» e «Il piccolo garibaldino» ad avvenimenti della storia italiana come la Breccia di Porta Pia e la spedizione dei Mille, raggiungendo risultati ragguardevoli sia sul terreno della ricostruzione cinematografica che in quello del racconto melodrammatico della storia nazionale[10].

Negli anni tra le due guerre, un maestro del cinema come Charlie Chaplin lascia una impronta indelebile nel linguaggio cinematografico, con film come «Charlot soldato», «Tempi moderni» e «Il Grande Dittatore», rendendo immortale il suo sguardo poetico sul dramma della Grande Guerra, la condizione operaia nella fabbrica fordista e la tragedia del nazismo e della II Guerra mondiale[11].

Dagli albori del cinematografo ai capolavori del cinema muto, i sociologi dei processi culturali e gli storici dell’età contemporanea devono quindi fare i conti con l’evoluzione del linguaggio filmico, l’avvento del colore e del sonoro, la moltiplicazione della produzione cinematografica e il difficile rapporto fra storia e documento.

 

2.Il linguaggio cinematografico e il rapporto fra storia e documento

Abbandonando ogni concezione didascalica del cinema, il discorso di Frezza è scandito da una frase memorabile di un regista che ha saputo raccontare la politica e la società italiana del secondo dopoguerra come Elio Petri :  «Non vedo mai i documentari. Mi fanno ridere. Perché partono dal presupposto di poter recuperare l’irrecuperabile».

Come sottolinea Frezza, utilizzando le categorie analitiche del decostruzionismo di Jacques Derrida, «il racconto audiovisivo del cinema, e specialmente quello con ambizioni storiche», è  «il risultato di una costruzione a sua volta delicata e difficile», nella quale «il cosiddetto reale viene incluso e anche decostruito e poi ricostruito in strategie narrative e in posizioni assai peculiari, relative, parziali» determinate dal lavoro degli autori, «fino al soggettivismo più spinto».

È soltanto attraverso tale «lavorio inesausto» e dalla tensione inesauribile tra linguaggio cinematografico, storia e documento che può realizzarsi quel rapporto tra «visione racconto, denuncia e testimonianza, riflessione e conoscenza» che sfida i sociologi e gli storici ad interrogarsi sul cinema come fonte di storia.

Sul lavorio incessante del regista per quadrare il cerchio tra linguaggio cinematografico, storia e documento sono eloquenti l’opera e le riflessioni di Carlo Lizzani, Francesco Rosi, Bernardo Bertolucci ed Ermanno Olmi, che con stili e linguaggi diversi hanno saputo trasfigurare sullo schermo momenti tragici ed esaltanti della storia italiana come la caduta del fascismo e la Resistenza[12], pagine controverse dell’Italia repubblicana come la strage di Portella della Ginestra e l’assassinio del presidente dell’Eni Enrico Mattei[13], fino alla rappresentazione filmica delle contraddizioni del Novecento, tra utopie rivoluzionarie e riscoperta della complessità della dimensione umana[14].

Soffermandoci sul cinema di Rosi, attraverso la sua conversazione con Giuseppe Tornatore nel volume «Io lo chiamo cinematografo»[15], la tensione esistente tra il linguaggio cinematografico e il rapporto tra  storia e documento è espressa dal procedimento d’inchiesta alla base del film «Il Bandito Giuliano» e dalle scelte stilistiche del regista partenopeo, dettate dalla volontà di chiamare lo spettatore a prendere posizione sulla commistione tra mafia e politica, sulla strage del 1 Maggio 1947 e la versione ufficiale della morte del bandito Salvatore Giuliano.

Il poderoso lavoro compiuto sugli atti del processo di Viterbo del 1951, gli articoli del giornalista de «L’Espresso» Tommaso Besozzi sulla morte di Giuliano, la mole di testimonianze raccolte dai suoi assistenti, sono rielaborate da Rosi in maniera coerente dal punto di vista della ricostruzione storica e trasfigurate sullo schermo mediante un linguaggio cinematografico originale e un montaggio incalzante, nonchè dalla scelta di seguire con la macchina da presa l’attore che interpreta Giuliano sempre e soltanto di spalle, senza mai inquadrarlo in primo piano[16].

Ecco allora che lo storico deve confrontarsi con le peculiarità del linguaggio cinematografico, immergersi nel flusso delle immagini,, lasciarsi guidare dal piacere della visione e dalle emozioni vissute come spettatore, per poter a sua volta decostruire il discorso filmico, misurarne la coerenza narrativa con le dinamiche della storia ed interrogarsi sull’uso pubblico della storia che il cinema porta sempre con sé,  grazie a un impatto sull’opinione pubblica molto più forte dei dibattiti accademici tra gli storici e i sociologi.

Come osserva De Luna, si impone allo storico dell’età contemporanea l’esigenza di «una nuova critica delle fonti», con riferimento al cinema e ai media, «lungo il percorso che da beni culturali, prodotti artistici, oggetti di consumo e di mercato li trasporta dentro lo statuto scientifico della storia, trasformandoli in fonti per la ricerca storica»[17].

Nell’età della simultaneità e della « preminenza del visivo», che  confonde il piano dell’immagine e lo spazio pubblico della politica e della storia con la  logica della «machine de vision» analizzata da Debray, Debord e Braudillard, gli storici  non possono più limitarsi a «certificare se le immagini confermano la storia», ma devono studiarne le rappresentazioni e il loro essere parte integrante della storia,  attraverso «un duplice viaggio nel tempo, rispetto al passato che il film racconta e rispetto al presente in cui il film viene girato e proiettato»[18].

Perduto l’entusiasmo dell’operatore polacco Boleslaw Matuszewski, autore nel 1898 a Parigi del volumetto «Una nouvelle source de l’histoire. Création d’un depot cinematographie historique», sulla possibilità di usare il cinema come mezzo di prova della realtà così come è realmente accaduta, lo storico deve appropriarsi del «film-fonte» non soltanto all’interno della storia del cinema e della sua estetica, «ma come documento, uscendo dal film e integrandolo nel mondo che lo circonda e con il quale necessariamente comunica»[19].

Ne deriva uno sguardo di indagine dentro e fuori il linguaggio cinematografico e il rapporto tra storia e documento, con l’obiettivo di individuare e analizzare «i pezzi di verità che sono sempre presenti anche nel più fantastico dei film» e «gli elementi simbolici presenti anche nel più realistico dei film»[20], nella consapevolezza che il regista, il sociologo e lo storico devono comunque affrontare la prova della narrazione della storia, dimostrando di «saper fare e raccontare storia» nell’età dell’immagine e della simultaneità.

 

3. Il racconto della storia nell’età dell’immagine e della simultaneità

Nell’età dell’immagine e della simultaneità, i processi storici sembrano evaporare in un presente permanente e confondersi con il clamore di un evento mediatico, privo di connessioni con la dimensione del passato e del futuro individuale e collettivo[21].

Come ha rimarcato Frezza, spetta ai sociologi e agli storici ristabilire l’ordine degli avvenimenti ed elaborare il modo più efficace per restituire alla storia spessore e complessità, confrontandosi con «le strategie espressive con cui la storia può divenire racconto, immagine, e perfino testimonianza, o ancora di più : memoria, cioè attestazione dell’oggi dell’esperienza accaduta».

Nella ricerca del linguaggio e delle immagini più efficaci,  il cinema ha dalla sua parte un ventaglio di strumenti che lo pongono in una posizione di superiorità nei confronti delle forme tradizionali del racconto scientifico, soprattutto in virtù della capacità di coinvolgere sia la sfera razionale che quella emotiva dello spettatore.

Attraverso il linguaggio delle immagini, la scenografia e la recitazione, la disposizione dell’inquadratura e il ritmo del montaggio,  «la storia al cinema è vissuta dagli spettatori come se accadesse ora, ossia con la vividezza di una presenzialità di azione e di movimento e soprattutto con quote vive emozionali ineliminabili – cosa che è la sua forza e il suo limite insieme».

Le argomentazioni di Frezza sulla relazione tra «storia e set filmico» chiamano gli storici ad uscire dalla presunta oggettività della documentazione archivistica e a ricercare in prima persona modi nuovi di saper fare e raccontare storia, utilizzando compiutamente il cinema e i media come fonti di storia.

Come sottolinea De Luna, lo storico non deve temere di abbandonare «le trincee difensive dell’oggettività», ma deve accettare fino in fondo la sfida del saper fare e raccontare storia nell’età della simultaneità, rivendicando il suo protagonismo nella selezione degli avvenimenti e nella scelta delle fonti. Partendo dalle forme riconosciute della narrazione scritta e dell’esposizione convegnistica in uso nel mondo accademico, lo storico deve trasformarsi in uno «storico narratore», dotato di cultura cinematografica e capace di impadronirsi delle immagini come fonti pienamente legittime della sua interpretazione della storia.

Occorre affermare che gli storici dell’età contemporanea stanno dimostrando la capacità di compiere tale passo e di sapersi muovere con risultati originali nell’intreccio tra le fonti d’archivio più classiche e la produzione  audiovisiva che  ha attraversato il Novecento.

Il tema dei linguaggi della politica, della comunicazione e della propaganda nei regimi totalitari e nelle democrazie del Novecento è stato affrontato guardando in maniera organica alla dimensione simbolica della politica, alla pervasività delle immagini e  dei mezzi di comunicazione di massa[22]. La storia della guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica è stata ricostruita facendo attenzione alla produzione audiovisiva che l’ha accompagnata su scala globale, con un equilibrio tra storia politica e storia culturale al quale ha certamente contribuito il ricorso ai media come fonti di storia[23].

Rimanendo al tema della guerra fredda, un intellettuale e un autore cinematografico di frontiera come Pier Paolo Pasolini accettava nel 1963 di confrontarsi sulle questioni della pace e della guerra, della libertà e dell’uguaglianza, del rapporto tra il Nord e il Sud del mondo con lo scrittore Giovanni Guareschi, attraverso la realizzazione di un film di montaggio costruito con una selezione dei filmati dell’archivio del cinegiornale «Mondo Libero», dando vita nell’opera «La Rabbia» ad un racconto per immagini assai stimolante per i sociologi dei processi culturali e gli storici dell’età contemporanea[24].

È una lezione di metodo che deve essere  tenuta a mente da quanti si propongono di ricercare modi nuovi di fare e raccontare storia nell’età delle tecnologie digitali e della rete internet.

 

4. Il digitale, l’«arca futura» e lo «storico video-maker»

Nell’età delle tecnologie digitali e della rete internet, il rapporto tra cinema e storia può essere ancora più ambivalente ed approdare ad una polverizzazione del reale e della storia, al limite della falsificazione.

Nel discorso di Frezza, la possibilità delle tecnologie digitali di ricreare la realtà sullo schermo in maniera virtuale, senza dover affrontare i passaggi materiali della ricostruzione di un ambiente storico nei teatri di posa, costituisce un salto di qualità nella contraddizione tra «il cinema inteso come fotodinamica del reale e il cinema inteso come animazione totale», in virtù di un nesso ancor più pervasivo fra digitale, disegno e animazione. L’innovazione digitale «ribalta la concezione foto documentaristica del cinema» e la situa su «una diversa soglia speculativa », rispetto a pochi decenni or sono. Le questioni del fotografico si tessono e si fanno assai poliedriche con le pratiche del «disegno digitale del reale», mentre si «decostruiscono i vecchi parametri di valutazione sul rapporto stesso fra immagine e realtà». Le tecnologie digitali mettono ancora «radicalmente in questione che cosa sia l’immagine del reale» e l’animazione digitale esprime «la domanda di fondo sul reale stesso e sulla sua concreta processabilità».

Riprendendo gli studi di Stefano Vignali, si può tuttavia affermare che la diffusione delle tecnologiche digitali può offrire la possibilità di ritrovare nel regno della rete internet alcuni strumenti di conservazione del «passato digitale» e di sperimentare nuovi modi di saper fare e raccontare storia nell’era del computer[25]. Secondo il titolo di un volume dello stesso Frezza, la diffusione degli archivi digitali in rete può costituire per i sociologi dei processi culturali e gli storici dell’età contemporanea una autentica «arca futura», con l’effetto di salvare dal diluvio universale della simultaneità e dalla perdita della memoria una grande quantità di fonti audiovisive da utilizzare come fonte di storia, al fine di aprire nuovi sentieri di ricerca e di elaborazione della storia e del tempo presente.

Gli archivi digitali in rete consentono, infatti, di accedere a innumerevoli fonti audiovisive, facilitando il lavoro di decostruzione e interpretazione delle immagini e favorendo la trasformazione dello storico tradizionale in umo «storico video-maker», in grado di confrontarsi con le immagini e di realizzare «video-saggi» corrispondenti ai criteri scientifici della verifica delle fonti e di ricorrere a una scrittura della storia che unisca le forme del saggio tradizionale a quelle del montaggio cinematografico.

Muovendosi con consapevolezza nell’ambiente digitale, lo storico «video-maker» può misurarsi con i linguaggi audiovisivi e riconquistare uno spazio nell’uso pubblico della storia, altrimenti appannaggio degli esperti di comunicazione e dei divulgatori improvvisati nel mare indistinto della rete.

Si tratta di una modalità di fare e raccontare storia che comincia a diffondersi in una generazione di storici che non esita a utilizzare l’ambiente digitale per realizzare riviste online attente al dialogo interdisciplinare con le scienze sociali, a lavorare fianco a fianco con esperti del linguaggio audiovisivo, fino a sperimentare forme inedite di scrittura della storia come quella del «video-saggio».

In questo senso, la storia del Partito comunista italiano in Emilia – Romagna  si è recentemente rivelata un laboratorio di sperimentazioni piuttosto originale, come mostrano sulla rivista digitale «E-review»  i filmati di montaggio dal titolo «Il Pci è un partito finito. Video – documentario sulla scomparsa della piazza rossa» e «Il modello emiliano da Giuseppe Dozza a Pierluigi Bersani. Video – saggio tra comunicazione e propaganda politica»[26].

Nell’età della preminenza del visivo e della simultaneità viene così a delinearsi un campo di azione comune agli storici dell’età contemporanea, ai sociologi dei processi culturali e ai professionisti del mondo audiovisivo, con l’obiettivo di restituire profondità storica al regno delle rappresentazioni virtuali e di imporre il ruolo degli storici nell’uso pubblico della storia.

 

Conclusioni

Nell’età della comunicazione di massa, della preminenza del visivo e del dominio della rete,  la dissoluzione della percezione collettiva dello spazio e del tempo ha ridimensionato il ruolo degli storici nel discorso pubblico, in balia del messaggio più accattivante delle immagini e delle semplificazioni spesso populiste dei social – network.

Come dimostrano le riflessioni di Gino Frezza sul rapporto tra cinema e storia, il confronto con i sociologi dei processi culturali può contribuire alla controffensiva degli storici nei circuiti della comunicazione di massa, allo scopo di superare la «crisi di nervi» della disciplina e di riconquistare un ruolo forte nel discorso pubblico sulla storia.

Il passaggio dalla storia dei media ai media come fonte di storia diviene così un momento imprescindibile di un saper fare e raccontare storia che permette allo storico di parlare la lingua della razionalità e di padroneggiare nello stesso tempo le emozioni della multimedialità,  tornando protagonista di quel lavoro incessante tra passato e presente che è alla base di ogni  progetto culturale per il futuro della vita individuale e collettiva.

Riprendendo i saggi di Sigmund Freud sulla memoria nel lavoro psicoanalitico, Paul Ricoeur ha istituito un nesso assai suggestivo tra l’elaborazione del lutto e della malinconia nel trattamento psicoanalitico e la pratica di ricostruzione ed interpretazione del passato nel mestiere dello storico[27].

In entrambi i casi, la riflessione sul passato trova la sua struttura di transizione nel racconto di una storia che diviene terapeutica soltanto a condizione di stringere nessi tematici tra ciò che appare disordinato e privo di rapporti con il presente ed è invece il suo nucleo essenziale, rivelandosi per questo  il fattore fondante di ogni possibilità di progettare il futuro.

Muovendosi al confine tra la storia e le scienze sociali, lo storico può contribuire «à la guérison de la mémoire collective» e ribadire la sua funzione intellettuale rispetto al passato e al tempo presente. Concludendo con le parole di Paul Ricoeur, si riscopre così «la situation exceptionnelle de l’histoire par rapport aux autre sciences», perchè «écrire l’histoire fai partie de l’action de faire l’histoire», costituendo il punto di congiunzione tra «l’histoire ques les hommes font, et celle qu’ils écrivent». La funzione critica della storia viene dunque moltiplicata : «elle ne lutte pas seulement contre les prejudges de la mémoire collective, mais contre ceux de la mémoire officielle qui assume le rôle social d’une mémoire enseignée. Ce qui est en jeu, c’est l’identité même des collectivités et des communautés qui se racontent à elles-mêmes leur propre histoire en racontant l’histoire des autres»[28].

Partendo dal cuore del suo statuto scientifico, assumendo i media come fonti di storia ed avanzando senza remore nell’ambiente digitale, lo storico può promuovere la riscoperta e la rivincita della storia nell’epoca della dissoluzione del tempo, della preminenza del visivo e della simultaneità.

 

 

 

 

 


[1] Luigi (Gino) Frezza è professore ordinario di Sociologia dei processi culturali presso l’Università di Salerno. Si occupa dell’industria culturale italiana e statunitense, della storia dei media e delle tecnologie della comunicazione. Tra le sue pubblicazioni Effetto notte. Le metafore del cinema, Melteni, Roma 2006; L’arca futura. Archivi mediali digitali, audiovisivi, web, Melteni, Roma 2008; Dissolvenze : mutazioni del cinema, Tunué, Latina  2013.

[2] G. Deleuze, L’immagine – tempo : cinema 2, Ubulibri, Milano 1989.

[3] P. Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Carocci, Roma 2002.

[4] A. de Baecque, C. Delage (sous la direction de), De l’histoire au cinéma, Éditions Complexe, Paris 1990.

[5] G. De Luna, La passione e la ragione. Il mestiere dello storico contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano 2004.

[6] G. Rondolino, Storia del cinema, Utet, Torino 1988.

[7] Ivi, pp. 17 – 34.

[8] Ivi, pp. 17 – 22.

[9] Ivi, pp. 27 – 34.

[10] M. Musumeci e S. Toffetti (a cura di), Da La presa di Roma a Il piccolo garibaldino. Risorgimento, massoneria e istituzioni . l’immagine della nazione nel cinema muto (1905-1909), Cangemi, Roma 2007.

[11] G. Cremonini, Charlie Chaplin, Il castoro, Milano 2004.

[12] C. Lizzani, Il mio lungo viaggio nel secolo breve, Einaudi, Torino 2007.

[13] A. Tassone, G. Rizza, C. Tognolotti (a cura di), La sfida delle verità : il cinema di Francesco Rosi, Aida, Firenze 2005.

[14] B. Bertolucci, La mia magnifica ossessione. Scritti, ricordi, interventi (1962-2010), a cura di F. Francione e P. Spila, Garzanti, Roma 2010.

[15] F. Rosi, Io lo chiamo cinematografo. Conversazione con Giuseppe Tornatore, Mondadori, Milano 2012.

[16] S. Cruciani, M. P. Del Rossi, E. Claudiani, Portella della Ginestra e il processo di Viterbo. Politica, memoria e uso pubblico della storia (1947-2012), Ediesse, Roma 2014.

[17] G. De Luna, La passione e la ragione, cit., pp. 1- 4.

[18] Ivi, pp. 172 – 192.

[19] Ivi, pp. 134 – 140.

[20] Ivi, pp. 179 – 185.

[21] A. Tarpino, Sentimenti del passato, La Nuova Italia, Firenze 1997.

[22] M. Ridolfi (a cura di), Propaganda e comunicazione politica. Storia e trasformazione nell’età contemporanea, Bruno Mondadori, Milano 2004.

[23] F. Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Einaudi, Torino 2009.

[24] P. P. Pasolini e G. Guareschi, La Rabbia, 1963. RaroVideo, Aliberti editore, supplemento editoriale a Il Fatto quotidiano, 2011 n.1.

[25] S. Vitali, Passato digitale. Le fonti dello storico nell’era del computer, Bruno Mondadori, Milano 2004.

[26] G. Gaspari, M. Pasetti, «Il Pci è un partito finito». Video-documentario sulla scomparsa della “piazza rossa”; S. Cruciani, G. Gasperi, Il modello emiliano da Giuseppe Dozza e Pier Luigi Bersani. Video- saggio tra comunicazione e propaganda politica, in E -. Review. Rivista degli Istituti Storici dell’Emilia Romagna in Rete, n. 1, 2013 (http:www.e-review.it).

[27] P. Ricoeur, Histoire er mémoire, in A. De Baecque, C, Delage (sous la direction de), De l’histoire au cinèma, cit., pp.  17 – 28.

[28] Ibidem, pp. 26 – 27.

 

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    By: Sante Cruciani

    Sante Cruciani, ricercatore a tempo determinato (tipo b) in Storia delle relazioni internazionali all’Università della Tuscia. Si occupa del processo di integrazione, delle culture politiche e sindacali della sinistra europea, delle rappresentazioni mediatiche della guerra fredda. Tra le sue pubblicazioni: L’Europa delle sinistre. La nascita del Mercato comune europeo attraverso i casi francese e italiano (1955-1957), Carocci, 2007; Passioni politiche in tempo di guerra fredda. La Repubblica di San Marino e l’Italia repubblicana tra storia nazionale e relazioni internazionali (1945–1957), Università di San Marino, 2010. È curatore di: Bruno Trentin e la sinistra italiana e francese, École Française de Rome, 2012; Il socialismo europeo e il processo di integrazione. Dai Trattati di Roma alla crisi politica dell’Unione (1957-2016), FrancoAngeli, 2016.  Insieme a M. Ridolfi, ha recentemente curato i volumi L’Unione Europea e il Mediterraneo. Relazioni internazionali, crisi politiche e regionali (1947-2016), FrancoAngeli, 2017; L’Unione Europea e il Mediterraneo. Interdipendenza politica e rappresentazioni mediatiche (1947-2017), FrancoAngeli, 2017. È condirettore della rivista digitale www.officinadellastoria.eu.

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