Il 13 e il 14 gennaio 2014 l’artista tedesco Gunter Demnig ha installato a Roma 15 Stolpersteine; proprio il 24 marzo è stata riposizionata la “pietra d’inciampo” in memoria di don Pietro Pappagallo, sacerdote pugliese eroe della Resistenza italiana assassinato nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Gli inciampi nella memoria diventano sempre più frequenti, ma che cosa sono esattamente gli Stolpersteine e perché il progetto merita l’attenzione degli storici?
L’archetipo delle pietre d’inciampo va ricercato nel lavoro di Demnig Mai 1940-1,000 Roma und Sinti realizzato a Colonia nel 1990 in memoria del Porajmos[i]; nel 1992, l’artista installa il primo Stolpersteine, che reca incisa una parte del decreto legge che determinò la deportazione ad Auschwitz degli zingari[ii]. Una donna del luogo lo osserva mentre lavora, commenta la scultura e nega che in città abbiano mai abitato Rom e Sinti. L’artista risponde all’obiezione decidendo di dedicare la propria esistenza a un’impresa straordinaria e irrealizzabile nell’arco di una sola vita: quella di installare uno Stolpersteine per ogni persona perseguitata e deportata nei campi di concentramento e di sterminio durante la seconda guerra mondiale.
L’idea è semplice e prevede di interrare nel marciapiede prospiciente le case dei deportati (razziali, politici, militari, rom, omosessuali e testimoni di Geova) dei sampietrini che si distinguono da quelli comuni perché sulla superficie superiore, che è in ottone, sono incisi i loro dati biografici (nome e cognome, anno di nascita, anno e luogo di deportazione, anno e luogo di morte); l’obiettivo è quello di “tradurre la cifra astratta e incommensurabile di 10.000.000 nei dieci milioni di individui cui restituire dignità di persone ricordandone il nome e il tragico destino”[iii].
Da Colonia il progetto si è diffuso con velocità ed è entrato nelle memorie nazionali di 17 paesi europei; nel 2010 è arrivato a Roma e in pochi anni si è esteso ad altre città italiane (L’Aquila, Prato, Genova, Brescia, Bergamo, Padova, Ravenna, Venezia e Livorno). A dimostrare il successo dell’iniziativa, anche l’inserimento, nel 2013, dell’espressione “Pietre d’inciampo” nel lemmario aggiornato dell’Enciclopedia Italiana Treccani[iv].
Riflettendo sugli Stolpersteine ciò che è necessario sottolineare è l’innovazione di un linguaggio capace di commemorare il passato senza scadere in quelle “semplificazioni eccessive” dalle quali Primo Levi metteva in guardia già negli anni Ottanta[v] e sulle quali, invece, è andata costruendosi la memoria pubblica in Italia[vi]. Gli Stolpersteine – che ad oggi costituiscono “la contravvenzione più clamorosa del monumento unico, centrale e centripeto”[vii] – aprono la strada a un nuovo rapporto tra architettura e memoria. A distinguerli dagli altri monumenti sono, innanzi tutto, la discrezione e l’assenza di quegli elementi consustanziali alla tradizione monumentale; secondo Adachiara Zevi è addirittura possibile parlare di “monumenti per difetto”, perché le pietre d’inciampo non hanno quelle prerogative che sono generalmente attribuite ai monumenti, quali, ad esempio, l’unicità, la staticità, la ieraticità, la persistenza, l’ipertrofia dimensionale, la simmetria, la centralità, l’aulicità dei materiali e l’eloquenza[viii].
Fermiamo l’attenzione sull’esperienza italiana e sull’assenza di quella retorica celebrativa che sta permettendo di fare memoria attraverso un percorso ragionato e non emozionale. Ciò che contraddistingue le installazioni è anche il lavoro di indagine storica che accompagna il progetto e che sta permettendo di riportare alla luce centinaia di esperienze individuali che, fino ad oggi, sono rimaste confinate nella sfera del ricordo familiare. La posa di ogni Stolpersteine, infatti, non solo prevede quell’attività di ricerca necessaria per la verifica dei dati biografici dei deportati e per l’individuazione delle abitazioni dalle quali essi furono prelevati, ma si completa attraverso una ricerca che continua nel tempo e che sta andando a formare un nuovo archivio digitale. L’associazione Arte in Memoria, responsabile delle installazioni a Roma, infatti, si dedica anche alla raccolta della documentazione inedita (formata per lo più da diari, lettere e cartoline) custodita negli archivi privati dei parenti delle vittime; raccoglie testimonianze di prima e di seconda generazione e redige ricostruzioni biografiche attraverso le quali ricordare, in modo dettagliato e completo, le vicende di ogni persona alla quale è stato dedicato un sampietrino. Dal 2010 a oggi sono state raccolte e rese pubbliche – attraverso il sito ufficiale dell’associazione – circa duecento storie di vita; l’eterogeneità della documentazione offre ampio materiale per approfondire la storia della deportazione dei cittadini romani e per indagare sulle modalità e sulla quotidianità della vita clandestina, permettendo di approfondire la riflessione sulla precarietà delle vite dei perseguitati e, quindi, sui rapporti – o sull’assenza di rapporti – degli ebrei con il resto della popolazione. Diverse le testimonianze che aiutano a ricostruire, secondo il prisma delle esperienze e delle percezioni individuali, gli eventi drammatici del 16 ottobre 1943. Nell’impossibilità di fornire, in questa sede, un resoconto dettagliato del mosaico che sta componendosi, mi limiterò ad alcune tessere particolarmente rappresentative; ecco, ad esempio, un passo tratto dall’intervista rilasciata da Letizia Pavoncello – scampata alla razzia del ghetto di Roma – in occasione della posa di una pietra d’inciampo in memoria di suo padre, Leone Pavoncello, arrestato il 13 aprile 1944 e deportato ad Auschwitz:
Ero piccola, ma ricorderò per sempre l’alba di quel 16 ottobre […]. Era un giorno grigio e piovoso, la mamma si alzò all’alba e affacciandosi alla finestra vide i tedeschi che rastrellavano uomini, donne e bambini. Da noi non salì nessuno e così, dopo qualche ora, quando il ghetto sembrava più tranquillo, uscimmo di casa per scappare. Ma in via Portico d’Ottavia ci prese un tedesco che, dopo poco, ci consegnò a un altro soldato. Questo, con il gesto della mano, ci fece cenno di scappare. Non sapendo dove andare tornammo a casa, ma non appena rientrati, sentimmo bussare violentemente alla porta: battevano con il calcio del fucile, inveendo e urlando malamente il nostro cognome. Scoppiai a piangere e la mamma per non farci scoprire mi tappò la bocca con un fazzoletto. Eravamo terrorizzati, ma rimanemmo in silenzio e per fortuna non sfondarono la porta e se ne andarono[ix].
Tra le altre esperienze tornate alla luce grazie alle ricerche correlate alla posa degli Stolpersteine, quelle di Costanza Spizzichino – arrestata la mattina del 16 ottobre e assassinata all’arrivo ad Auschwitz[x]- e dei coniugi Della Seta, che al momento dell’occupazione di Roma, e malgrado le esortazioni dei figli, rifiutarono di lasciare la propria casa, convinti che due persone anziane come loro non corressero alcun pericolo[xi]. Per lo stesso motivo, anche Angelo e Giorgina Guglielma Piperno – rispettivamente di sessantuno e cinquantacinque anni – scelsero di non abbandonare l’appartamento neppure quando le SS irruppero nel palazzo. Dal diario della figlia, scampata alla razzia perché nascosta da una famiglia di giusti: “Se solo avessi insistito…”[xii], ha scritto Giuseppina Piperno che ha rievocato in questo modo l’ultima immagine dei suoi genitori:
Davanti alla casa erano fermi due grandi camion neri, coperti da tendoni. Affacciandomi vedo uno stivaletto di un uomo che saliva (Dio mio mi sembra il piede di babbo!). In quel momento vedo salire mia madre, che si teneva la gonna troppo stretta, a testa alta […].
«Voglio andare anche io! Lasciatemi andare! Non posso lasciarli soli». Mi hanno retta in tre in questa mia crisi di disperazione fino a che i camion […] non si furono mossi da sotto alla finestra di Via Arenula 41[xiii].
Il fine ultimo degli Stolpersteine e delle ricerche ad essi collegate è quello di diffondere la consapevolezza del passato nella cultura del paese, disconoscendo quegli appuntamenti occasionali e celebrativi che hanno reso così fragile la memoria pubblica in Italia. Tra le iniziative che proliferano in quella che Giovanni De Luna ha definito La Repubblica del dolore, le pietre d’inciampo sono una voce fuori dal coro: un progetto diverso che mira a restituire la frattura provocata dalla Shoah attraverso una rottura del linguaggio artistico e un recupero dell’analisi storica necessaria per superare il passato. Non è un caso, allora, che all’iniziativa si affianchi un progetto didattico che ha già coinvolto decine di istituti superiori, chiamando i più giovani a partecipare e a impegnarsi in un lavoro di ricerca dal basso, di contestualizzazione e di riflessione. La strada che sta aprendosi mette in discussione il meccanismo stesso della memoria collettiva; e l’avanguardia artistica reagisce a “un’epoca che conosce solo l’istante”[xiv] lasciandoci inciampare nella storia. Chi cammina per le strade d’Italia (e d’Europa) è costretto a interrompere la passeggiata e a interrogarsi su queste installazioni atipiche che destano curiosità, che non s’impongono ma in cui s’inciampa casualmente. É un inciampo che coniuga la politica della memoria alla politica della storia; un ostacolo che attraversa quest’“era delle commemorazioni”[xv] (che ben “esprime l’inquietudine di un mondo privato di senso”[xvi]) e che ai riti della religione civile contrappone l’impegno costante di chi non smette di interrogarsi sul passato e, quindi, sulla forma da dare al presente.
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Elisa Guida
Laureatasi in Filologia moderna, ha conseguito il dottorato di ricerca in “Storia d’Europa: società, politica, istituzioni (XIX-XX secolo)” presso l’Università degli Studi della Tuscia (Viterbo). Si occupa di storia della Shoah, è cultrice della materia presso la cattedra di Storia dell’Europa (Università degli Studi della Tuscia, DISTU) ed è socio fondatore e segretario dell’Associazione Arte in Memoria, responsabile della posa delle pietre d’inciampo a Roma. Tra le sue pubblicazioni: Dall’era dei divieti alla memoria del XXI secolo: un percorso nella rappresentazione della Shoah attraverso la poetica di Edith Bruck, in «Cuadernos de Filologia italiana», Publicaciones Universidad Complutense de Madrid, vol. 18, 2011, pp. 141-159; Dentro la sostanza. In viaggio con Edith Bruck, Fondazione Villa Emma, Modena, 2012; “To write is bread”. The function of writing for Edith Bruck, in «Trauma and Memory», (Four-Monthly European Review of Psychoanalysis and Social Science), vol. 2, n. 1, (28 March 2014), pp. 24-30.
[i] Per un’analisi approfondita del percorso artistico di G. Demnig cfr. AA. VV., Stolpersteine in Berlin. 12 Kiezspaziergänge, Kulturprojecte Berlin, Berlino, 2013; K. Fings (a cura di), Stolpersteine. Gunter Demnig und sein Projekt, Emons. Köln, 2007. In italiano, cfr. A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, Donzelli, Roma, 2014.
[ii] Decreto di internamento ad Auschwitz di meticci zingari, zingari Rom e zingari dei Balcani, Ufficio di sicurezza del Reich, Berlino, 29 gennaio 1943, V. A 2 Nr. 59/43 g, ora consultabile in www.romsintimemory.it, (USC Shoah Foundation).
[iii] A. Zevi, cit., p. 171.
[v] Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986. («Non è detto che le cerimonie e le celebrazioni, i monumenti e le bandiere, siano sempre e dappertutto da deplorare. Una certa dose di retorica è forse indispensabile affinché il ricordo duri. Che i sepolcri, «l’urne de’ forti», accendano gli animi a egregie cose, o almeno conservino memoria delle imprese compiute, era vero ai tempi del Foscolo ed è vero ancor oggi; ma bisogna stare in guardia dalle semplificazioni eccessive»), P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., pp. 10-11.
[vi] È utile chiarire che cosa si intende con l’espressione “memoria pubblica”; secondo G. De Luna «Quando parliamo di memoria pubblica ci riferiamo a un “patto” in cui ci si accorda su cosa trattenere e cosa lasciare cadere degli eventi del nostro passato. Su questi eventi si costruisce l’albero genealogico di una nazione. Sono i pilastri su cui fondare i programmi di studio da proporre nelle scuole, i luoghi di memoria, i criteri espositivi dei musei, i calendari delle festività civili, le priorità da proporre nella grande arena dell’uso pubblico della storia, le scelte sulla base delle quali si orientano tutti i sentimenti del passato che attraversano la nostra esistenza collettiva», G. De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano, 2011, p. 13. Per un’analisi della politica della memoria della Shoah, cfr. almeno G. Bensoussan, L’eredità di Auschwitz. Come ricordare?, Einaudi, Torino, 2002; D. Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Einaudi, Torino, 2009; R. S. C. Gordon, Scolpitelo nei cuori. L’Olocausto nella cultura italiana (1944-2010), Bollati Boringhieri, Torino, 2013; S. Meghnagi (a cura di), Memoria della Shoah. Dopo i «testimoni», Donzelli, Roma, 2007; E. Traverso, Il passato: istruzioni per l’uso, Ombre Corte, Verona, 2006;
[vii] A. Zevi, cit., p. IX.
[viii] Cfr. A. Zevi, cit., p. VII.
[ix] Intervista rilasciata da L. Pavoncello a E. Guida, Roma, 4 maggio 2011, ora parzialmente confluita, in forma narrativa, in E. Guida, Mio padre Leone, in www.arteinmemoria.com
[x] Cfr. l’intervista rilasciata da A. Astrologo a E. Guida, Roma, 23 giugno 2011, ora parzialmente confluita, in forma narrativa, in E. Guida, A. Astrologo, Un ricordo di Costanza Spizzichino in www.arteinmemoria.com
[xi] Cfr. P. Della Seta, Samuele Leone Della Seta e Giulia Di Segni, in www.arteinmemoria.com
[xii] Archivio Privato di M. Grego, Diario di Giuseppina Piperno in Grego, Roma, 1987, ora in www.arteinmemoria.com. (Per la testimonianza, cfr. anche l’intervista di G. Piperno, USC Shoah Foundation Institute, Roma 2 giugno 1998).
[xiii] Ibidem.
[xiv] G. Bensoussan, cit., p. IX.
[xv] L’espressione è di G. Bensoussan, cit., p. VI.
[xvi] G. Bensoussan, cit., p. VI.