E che cosa faccio, adesso, se non posso studiare?

Spero che possiate capire che cosa vuol dire per me ricevere oggi, a più di 86 anni, una laurea honoris causa, dopo che tanti anni fa le leggi di questo Paese mi cacciarono dalla scuola elementare. Un riconoscimento per il mio impegno con i ragazzi, nelle scuole e ovunque mi chiamino per testimoniare la mia storia. É per me il riconoscimento più grande; e la speranza che possa davvero cambiare qualcosa nel mondo in cui vivo me la danno proprio i giovani. Se riesco a spiegare loro qualcosa, a farli riflettere sul passato e ad aiutarli a diventare cittadini onesti e consapevoli, significa che io il mio dovere l’ho fatto. Ecco cosa è per me questa laurea: non un titolo accademico, ma il riconoscimento per un impegno che ho preso tanti anni fa, per il patto che ho con la mia coscienza, con le nuove generazioni e con chi non è tornato. Anche a nome di queste persone, grazie.

Piero Terracina, Lectio magistralis

 

Il 23 marzo 2015 l’Università degli Studi del Molise ha conferito la laurea honoris causa in Scienze della Formazione Primaria a ciclo unico a Piero Terracina: ebreo romano espulso dall’istituto Francesco Crispi con il R.d.l. 5 settembre 1938, n. 1930 Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista. “Ricordo bene che mia madre”, racconta il “candidato” in apertura della lectio magistralis, “ci diceva che per riuscire nella vita dovevamo, i miei fratelli, mia sorella  ed io, riuscire prima nello studio. Anche per questo mi disperai quando mi mandarono via dalla scuola. – E che cosa faccio, adesso, se non posso studiare? – pensai”[1].

A distanza di settantasette anni dalle leggi razziali, le istituzioni italiane riconoscono i meriti di un uomo che ha fatto della parola l’antidoto al pregiudizio, alla barbarie e alla violenza. Nell’Aula Magna dove si svolge la cerimonia si coglie uno straordinario senso di restituzione, che lascia sperare che la Memoria in Italia sia ancora possibile. In quest’era del testimone[2], così mediatica e approssimativa, caratterizzata da quelle “semplificazioni eccessive” dalle quali Primo Levi metteva in guardia fin dagli anni Ottanta[3], i volti attenti degli studenti e il rigore degli interventi che si susseguono dimostrano l’esistenza di una via alternativa alla banalizzazione e alla retorica del «Mai più».

Sono le undici di mattina e l’aula, a gradoni come in un anfiteatro, è gremita di persone; studenti universitari, ragazzi della scuola ebraica arrivati con un pullman da Roma, professori, giornalisti, rappresentanti istituzionali, parenti e amici nelle prime file aspettano che Piero Terracina – portato via per essere vestito come un re – torni in aula dando inizio alla cerimonia. Il “candidato” entra ed è visibilmente emozionato. I docenti si alzano in piedi. Gli studenti, i giornalisti, i rappresentanti istituzionali, i parenti e gli amici pure. Ne deriva un applauso composto che sa di rispetto. Nelle prime file c’è già chi si commuove. Terracina prende posto e s’inizia con i saluti istituzionali. Gli interventi che precedono la Laudatio sono brevi ed efficaci. Sembra che nessuno abbia voglia di magnificare se stesso in un’occasione pubblica. Gianmaria Palmieri[4], Rafael Erdreich[5], Mario Marazziti[6], Riccardo Pacifici[7] ed Enrico Modigliani[8] sono essenziali e diretti; senza retorica esortano a riflettere sul nesso – inscindibile ma nei fatti sempre più messo in discussione – tra storia e memoria. Tra conoscenza e tradizione. Tra esperienza individuale e sapere collettivo.

Enzo Di Nuoscio – direttore del Dipartimento di Scienze Umanistiche, Sociali e della Formazione, nonché promotore dell’iniziativa – introduce la storia di Terracina, ripercorrendo le fasi della persecuzione dei diritti e delle vite degli ebrei in Italia. Piero Terracina, spiega il professore, fu arrestato, in quanto ebreo, il 7 aprile 1944. Quella sera, in casa c’erano anche il nonno paterno Leone David (ottantaquattro anni), lo zio Amedeo (quarantanove), il padre Giovanni (cinquantasei), la madre Lidia Ascoli (cinquantasette) e i fratelli Leo, Cesare e Anna (rispettivamente di ventuno, venti e ventitré anni)[9]. La famiglia, prelevata dall’appartamento dove aveva trovato rifugio dopo la razzia del 16 ottobre (in Piazza Rosolino Pilo, 17), fu condotta in ambulanza nel carcere romano di Regina Coeli. Dopo pochi giorni, fu trasferita nel campo di Fossoli; da qui, il 16 maggio 1944 fu deportata ad Auschwitz. Dopo un viaggio di sei giorni e sette notti il treno entrò nel campo di Birkenau. Leone Davide Terracina, il figlio Giovanni e Lidia Ascoli furono selezionati per la morte immediata. Amedeo Terracina e i più giovani furono incolonnati nelle file di chi era ritenuto abile al lavoro.

All’arrivo dell’Armata Rossa ad Auschwitz, il 27 gennaio 1945, della famiglia Terracina rimaneva solamente il più piccolo: Piero, che aveva da poco compiuto 16 anni. Il ragazzo peregrinò tra l’Europa dell’Est e i territori dell’Unione Sovietica; rientrò a Roma alla fine del dicembre 1945, a quasi un anno dalla liberazione dal Lager. Il lento processo di ricostruzione identitaria, iniziatosi durante la stagione del rimpatrio, riuscì grazie all’affetto di amici e parenti – che il “candidato” ringrazia uno ad uno durante l’intervento – e alla solidarietà dispiegata dai dirigenti della ditta Bondì, dove il giovane iniziò a lavorare a pochi giorni dal ritorno a casa. “[…] io non sapevo fare niente”, racconta il testimone, “non potevo essere utile all’azienda”; “mi assunsero”, quindi, “per solidarietà; lo fecero per aiutarmi e forse anche in memoria dei miei fratelli e di mia sorella che loro conoscevano”; “sapendo che non avrei potuto realizzarmi attraverso lo studio, cercai di farlo attraverso il lavoro. […] Non era normale per un ragazzo di 17 anni l’impegno che ci mettevo. Ma io dovevo farcela; tra l’altro, […] mi distraeva da tanti altri pensieri dolorosi”[10].

La ricomposizione dell’infranto[11] avviene, quindi, anche attraverso la realizzazione professionale, che permette al giovane sopravvissuto di conquistare una posizione economica stabile; il lavoro, inoltre, è un mezzo attraverso il quale Terracina tenta di andare oltre l’esperienza concentrazionaria, costruendo quella che lui stesso ha definito la seconda vita: ovvero, quello spazio dell’esistenza in cui tornare a sentirsi una persona normale. Il bisogno di pace non lascia spazio alla narrazione di ciò che è stato e Terracina tace per più di quarant’anni. Tace anche perché teme di non essere ascoltato, o creduto, e perché non riesce a sostenere gli sguardi che accompagnano la domanda che i sopravvissuti si sentirono rivolgere al loro rientro: “Ma come ti sei salvato?”. Un interrogativo che suona come un atto d’accusa, poiché lascia intendere che la sopravvivenza di qualcuno sia avvenuta a scapito di qualcun altro. Le tensioni degli anni Ottanta segnano una svolta nel percorso dell’ex deportato: il suicidio di Primo Levi (“che con i suoi racconti ci rappresentava tutti”) e le nuove manifestazioni antisemite che attraversano e sconvolgono l’Europa, culminando nell’orrore della profanazione del cimitero di Carpentras, lo inducono a parlare. È il 1992, Piero Terracina è a Tivoli ospite dell’Accademia dei Lincei che sta dedicando una giornata di studio alla memoria del Nobel per la fisica Emilio Gino Segre; per la prima volta prende la parola in pubblico e ripercorre la propria esperienza. Da allora non ha più smesso di raccontare; da oltre vent’anni, infatti, l’ex deportato è ospite in scuole, università, conferenze, seminari di formazione, istituzioni militari, trasmissioni radiofoniche e televisive, carceri. Ovunque lo chiamino, in Italia e all’estero, per raccontare il proprio vissuto, Terracina va; ed è proprio “per i suoi grandi meriti nell’educazione delle giovani generazioni ai valori della libertà, della tolleranza, del rispetto delle diversità” e “del rifiuto della violenza”[12], pronuncia Di Nuoscio rivolgendosi al “candidato”, che “il Magnifico Rettore” e “il Senato accademico […], a nome di tutto l’Ateneo, hanno deciso di conferirle la laurea magistrale honoris causa in Scienze della Formazione Primaria”[13].

Fornite le coordinate necessarie per accostarsi all’esperienza di Piero Terracina – dando a tutti i presenti in sala gli strumenti per un’effettiva partecipazione – il professore si avvia a illustrare alcuni aspetti del magistero morale e pedagogico del “candidato”. Due, in particolare, i meriti che gli sono attribuiti: innanzi tutto, l’insegnamento a non rimanere prigionieri dell’emozione e delle facili interpretazioni del passato. “Terracina”, infatti, “ci ha insegnato a non cadere nella trappola tesa da chi vuole delegare la responsabilità di quello che è stato ai mostri della storia, alla follia di pochi. “Sarebbe un errore imperdonabile”, prosegue Di Nuoscio, “perché ci impedirebbe di comprendere le cause di questa tragedia […]. Occorre dunque la comprensione storica. Capire che l’antisemitismo non è un incidente della storia, un frutto impazzito del Secolo breve”; bensì, un evento drammatico che “come un fiume carsico, a cui hanno contribuito […] tanti rivoli intellettuali, ha attraversato tutta la nostra storia, inabissandosi per poi riemergere prepotentemente; un fenomeno di lunga durata che ha trovato preziosi alleati nelle teorie razziali insegnate verso la fine dell’Ottocento nelle più prestigiose università europee. Un fiume carsico che, con la crisi economica, con la fine degli equilibri europei basati sugli stati nazionali, con la paura della rivoluzione, con la perdita di centralità di alcune classi sociali e con l’affermazione di altre, negli anni Trenta è diventata una devastante inondazione che travolse l’Europa”[14]. Portando l’attenzione sul testamento morale di Primo Levi e sulla normalità dei persecutori[15], Di Nuoscio si sofferma sull’importanza delle ideologie e sul processo di costruzione di una mentalità totalitaria; quindi, esorta l’auditorio a “guardare alle idee prima ancora che alle persone, perché se non si comprendono le idee nella loro genesi storica, non sarà possibile intervenire sulle cause della loro diffusione, e, di conseguenza, l’antisemitismo troverà sempre nuovi interpreti, pronti a levare la bandiera del capro espiatorio nei momenti di grande difficoltà e smarrimento”[16].

Al “candidato” è poi attribuito il merito di aver saputo “trasformare la propria esperienza personale in un patrimonio comune, i ricordi individuali in memoria collettiva, la tragica storia della sua famiglia in una risorsa a disposizione di tutti […] insegnando a noi “uomini normali” spesso erroneamente convinti che le nostre libertà siano irreversibili, a capire invece che tutto è possibile, che tutto quello che è accaduto può ripetersi, che non c’è nulla che lo proibisce una volta per sempre. Ci ha insegnato che, se tutto è possibile, è proprio nella banalità della vita di ogni giorno che si combatte la battaglia contro l’antisemitismo, il razzismo e il fanatismo”[17]. Ed è soprattutto per questi motivi che l’Università del Molise, conclude Di Nuoscio, “con grande onore concede a Piero Terracina la laurea magistrale a ciclo unico in Scienze della Formazione Primaria, la laurea dei futuri maestri”, poiché lei, sostiene il professore voltandosi verso il “candidato”, “è stato un vero Maestro nell’insegnare a rialzarsi dopo una tragedia, a trarre la speranza dall’orrore, a vedere nei giovani la più grande risorsa, a dedicarsi agli altri per riscattare quello che le è stato tolto, nel farci capire che bisogna giudicare gli altri per quello che fanno e non per quello che sono. Se oggi la guarnigione culturale che difende la nostra democrazia è più forte, lo dobbiamo anche al suo magistero morale e pedagogico”[18].

Il “vero Maestro” prende la parola. Piero Terracina, che di solito non legge i suoi interventi ed è abituato, come lui stesso si esprime, “ad andare a braccio perché la verità non ha bisogno di essere preparata”, questa volta ha con sé un testo scritto. Teme che l’emozione lo possa tradire e prima della cerimonia ripete più volte di non essere un “professionista della parola”. L’impressione di chi lo ascolta da anni è diversa. Chi conosce la sua testimonianza, infatti, conosce anche il ritmo della narrazione. Conosce il tempo e i toni del racconto. Conosce i silenzi e riconosce quelle omissioni volontarie e categoriche che Terracina adotta nel riguardo di chi ascolta. Quei fogli poggiati sul leggio sembrano essere, piuttosto, un atto di rispetto per l’istituzione che lo accoglie e, finalmente, lo riconosce nel suo impegno morale, civile e politico di testimone.

Terracina interseca riflessione e testimonianza: “Non è di Auschwitz che voglio parlare”, prorompe, quanto “piuttosto di quei valori che mi hanno consentito, dopo la liberazione, di cominciare la mia seconda vita”[19]. Suddividendo la propria esistenza in due sfere diverse e separate, il “candidato” focalizza il proprio intervento su quel che accadde dopo Auschwitz e recupera, in un percorso a ritroso che procede per nuclei tematici, le immagini e i volti di chi gli è stato accanto; di chi ha condiviso con lui l’esperienza concentrazionaria e di chi l’ha sostenuto durante il lento e faticoso processo di ricostruzione dell’io. Proprio nella relazione con gli altri – nell’amicizia, nell’amore e nella solidarietà tra esseri umani – l’ex deportato individua l’elemento centrale della vita e della sopravvivenza. Una parte del discorso, quindi, è dedicata all’aiuto ricevuto nel secondo dopoguerra; tornando con la memoria alla seconda metà degli anni Quaranta, Terracina non tace sull’assenza delle istituzioni italiane, che nulla fecero per il suo reinserimento nel tessuto civile[20]. Anche in occasione formale che è motivo di gioia, Piero Terracina non rinuncia al suo sguardo critico sulla società e sulla politica: di ieri e di oggi. Il ricordo di ciò che è stato lo porta, come sempre fa nella sua testimonianza, a una riflessione sul mondo contemporaneo, marcato dall’ingiustizia e popolato da minoranze abusate e piegate dall’indifferenza degli altri e dall’uso – sempre inutile – della violenza. Ed elenca: “Parlo dei disperati che giungono nelle nostre coste per sottrarsi alla fame, alle malattie, alle guerre, alle persecuzioni”. “Parlo di Rom e Sinti […] costretti da noi a vivere in condizioni di estremo degrado, ancora oggi trattati come una razza inferiore”. La memoria torna al silenzio di Birkenau la mattina del 3 agosto 1944, dopo la notte in cui, in massa, Rom e Sinti furono avviati alle camere a gas. “Non è possibile che io dimentichi quello a cui assistetti, solo in parte perché ero dentro una baracca chiusa […]”. “Gli zingari […] erano rinchiusi  nel lager vicino al nostro, ci separava solamente del filo spinato attraversato dalla corrente ad alta tensione”; prima di quella notte “udivamo il suono dei loro strumenti che avevano conservato, le loro canzoni e le grida dei bambini […] che giocavano, che si rincorrevano. […] e dove ci sono i bambini, c’è speranza” e “c’è futuro”. “Nel nostro settore c’era disperazione e morte, dall’altra parte del filo spinato c’era la vita. Poi, quella notte, dopo un gran frastuono non si sentì più nulla”[21].

“Siamo tutti uguali”, riprende l’ex deportato, e “dobbiamo sempre ricordare i particolari rischi a cui sono soggette le minoranze, come fu allora per noi ebrei” ed “è anche per questo che parlo e racconto la mia storia. Anzi, soprattutto per questo. Perché la memoria di quello che è stato ci deve aiutare a non perpetrare più certi orrori, che in molti, troppi, si ostinano a chiamare solo errori”[22]. “E ogni volta che una società attraversa una crisi”, come quella contemporanea, che “è prima morale e poi politica ed economica, le insicurezze dei cittadini si trasformano in una caccia alle streghe”, poiché “nulla meglio di un capro espiatorio lenisce le ansie di una società”[23]. Terracina conclude, quindi, riportando l’attenzione di chi ascolta, a settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla liberazione dai campi di concentramento e di sterminio nazisti, sul significato della parola libertà, che definisce attraverso il suo contrario e ribadisce che, fino a quando l’uomo non riuscirà a spezzare l’ingranaggio della paura, le ingiustizie e le oppressioni saranno destinate a ripetersi, diverse nella forma, ma uguali nel significato. “La libertà non è un dono”, conclude l’ex prigioniero di Auschwitz-Birkenau; ma “il bene supremo degli esseri umani […] che deve essere continuamente sorvegliato e difeso […] con impegno e partecipazione nella democrazia”. “La libertà”, tuona Terracina, “o è di tutti o non è di nessuno”[24].

 


[1] P. Terracina, «Lectio magistralis» in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa in Scienze della formazione Primaria, Università degli Studi del Molise, Campobasso, 23 marzo 2015, ora integralmente riportata in http://www.unimol.it/wp-content/uploads/2015/03/Lectio-magistralis-Piero-Terracna.pdf, p. 14.

[2] L’espressione è di A. Wieviorka, L’era del testimone, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1999.

[3] Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986, p. 11. (Dal testo: «Non è detto che le cerimonie e le celebrazioni, i monumenti e le bandiere, siano sempre e dappertutto da deplorare. Una certa dose di retorica è forse indispensabile affinché il ricordo duri. Che i sepolcri, “l’urne de’ forti”, accendano gli animi a egregie cose, o almeno conservino memoria delle imprese compiute, era vero ai tempi del Foscolo ed è vero ancor oggi; ma bisogna stare in guardia dalle semplificazioni eccessive», P. Levi, cit., pp. 10-11).

[4] Rettore dell’Università degli Studi del Molise.

[5] Ministro dell’Ambasciata d’Israele a Roma.

[6] Rappresentante della Comunità di Sant’Egidio.

[7] Presidente della Comunità Ebraica di Roma

[8] Presidente dell’Associazione Progetto Memoria.

[9] Dati tratti da L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli Ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Mursia, Milano, 2002 (I ed. 1991)

[10] P. Terracina, Lectio magistralis, cit., p. 16. (Ancora dalla Lectio magistralis di P. Terracina: «Feci quindi una rapida carriera che, in poco tempo, mi consentì di mantenermi, addirittura di acquistare un’automobile che allora pochi possedevano. Ho avuto tante soddisfazioni dal lavoro, ho imparato la professione  e sono diventato dirigente»).

[11] L’espressione è di D. Meghnagi, Ricomporre l’infranto. L’esperienza dei sopravvissuti della Shoah, Marsilio, Venezia, 2005.

[12] E. Di Nuoscio, Laudatio per il conferimento della Laurea Honoris Causa in Scienze della Formazione Primaria a Piero Terracina, ora integralmente riportata in http://www.unimol.it/wp-content/uploads/2015/03/Laudatio-Di-Nuoscio-.pdf, p. 5. (Ringrazio il prof. Di Nuoscio per avermi fornito copia della documentazione per la redazione di questo articolo).

[13] Ibidem.

[14] Ivi, p. 6.

[15] Cfr. P. Levi, cit. (Dal testo: «Il termine [aguzzini] allude ai nostri ex custodi, alle SS, e a mio parere è improprio: fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male. Erano, in massima parte, gregari e funzionari rozzi e diligenti: alcuni fanaticamente convinti del verso nazista, molti indifferenti, o paurosi di punizioni, o desiderosi di fare carriera, o troppo obbedienti», P. Levi, cit., pp. 166-167).

[16] E. Di Nuoscio, Laudatio, cit., p. 7.

[17] Ivi, pp. 7-8. (L’espressione “tutto è possibile” richiama con chiarezza la studiosa Hanna Arendt, che riflettendo sul sistema concentrazionario nazista e sul totalitarismo, ha scritto: «Neppure i campi di concentramento sono un’invenzione totalitaria. Essi apparvero per la prima volta durante la guerra boera, all’inizio del secolo, e continuarono ad essere usati in Sudafrica come in India per gli “elementi indesiderabili” […]. Questi campi corrispondevano per molti aspetti a quelli dell’inizio del regime totalitario; essi accoglievano i “sospetti” che non si potevano condannare con un processo normale mancando il reato o le prove. Tutto ciò preannuncia chiaramente i metodi totalitari; si tratta di elementi che tali metodi utilizzano, sviluppano e cristallizzano sulla base del principio nichilista secondo cui “tutto è permesso”, da essi ereditato come qualcosa di evidente e naturale. Ma, dovunque assumono la loro struttura autenticamente totalitaria, le nuove forme di dominio vanno oltre questo principio, che è ancora legato ai motivi utilitari e agli interessi dei governanti, e si avventurano in un campo completamente sconosciuto, il campo del “tutto è possibile”, che per sua natura non può esser limitato né da motivi utilitari né dall’interesse egoistico, comunque inteso», H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2004, (ed. or. 1962), pp. 602-603.

[18] Ivi, p. 11.

[19] P. Terracina, Lectio magistralis, cit., p. 14. (Ancora dal discorso di Terracina: «Io posso dire di avere avuto due vite: la prima va da quando sono nato fino all’internamento ad Auschwitz-Birkenau; la seconda è iniziata dopo la liberazione. […] ho  lavorato, ho sofferto e sono stato anche felice, come tutti. Ma a volte, il peso di quello che ho visto e vissuto ritorna e diventa insopportabile. Se sono stato anche felice è per quei valori, e per quelle persone, che mi hanno aiutato a ricostruire un’esistenza normale»).

[20] Ancora dalla Lectio magistralis di P. Terracina, cit., p. 16: «A questo proposito voglio ricordare che al mio ritorno ero solo e non avevo mezzi per vivere. Il primo atto fu quello di chiedermi le tasse arretrate di mio nonno che era stato deportato all’età di 84 anni e che da molti  anni non svolgeva più nessuna attività. Mi rivolsi allo Stato con la speranza di poter avere un aiuto. Dopo varie visite mediche e indagini fatte da autorità preposte, dopo 8 anni mi arrivò un assegno. 48.065 lire, un po’ meno di 300 euro di oggi, che destinai ad una iniziativa del giornale “Il Messaggero”, che raccoglieva offerte “per i casi pietosi”. Conservo ancora la matrice dell’assegno. La solidarietà che non venne dall’alto arrivò dalla gente comune, dai compagni di scuola e dai familiari che con la propria presenza aiutarono a ricostruirsi comportamento solidale». (Rileggendo il testo Terracina specifica che si tratta dei compagni delle scuole ebraiche, che frequentò dal 1938 al 1943, e «non di quelli della scuola pubblica, che erano spariti tutti già nel 1938», testimonianza scritta rilasciata da P. Terracina a E. Guida, Roma, 29 aprile 2015.

[21] P. Terracina, Lectio magistralis, cit., p. 17.

[22] Ibidem.

[23] Ibidem.

[24] Ivi, p.18.

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    By: Elisa Guida

    Elisa Guida e’ iscritta al Dottorato di ricerca in “Storia d’Europa: società, politica, istituzioni (XIX-XX secolo)” dell’Università di Viterbo. Si occupa della storia della Shoah e del rapporto fra storia, letteratura e memoria, con particolare attenzione alle figure di Edith Bruck e Piero Terracina. Tra le sue pubblicazioni Dopo l’era del testimone: riflessioni di metodo in S. Consenti, Il futuro della memoria, Edizioni Paoline, Milano, 2011, pp. 122-132; Dentro la sostanza. In viaggio con Edith Bruck, Fondazione Villa Emma, Perugia, 2012; Dall’era dei divieti alla memoria del XXI secolo: un percorso nella rappresentazione della Shoahattraverso la poetica di Edith Bruck in “Cuadernos de filologia italiana”, Universidad Complutense de Madrid, vol. 18, 2011, pp. 141-159.

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