L’Unione necessaria: stallo dell’integrazione?

 

Abstract

The needed Union: Integration locked in stalemate?

Starting from the important reasons which lead to the signing of the Treaties of Rome, the path is directed to the analysis of the difficulties that have gradually characterized the history of the European integration process. The consequences of the enlargements, especially those concerning Central and Eastern European Countries, the financial and migration crisis, terrorism and the increasing phenomenon of populism, represent a test-bed for the Community, presently the Union, which needs a comprehensive policy, and not just an economic-financial one.

 

Introduzione*

La storia dell’integrazione europea identifica un processo che non può essere trattato guardando unicamente indietro, alle tappe che progressivamente hanno portato alla conquista di importanti risultati. La strada è ancora lunga e densa di obiettivi che mirano a consolidare e ad arricchire quanto già raggiunto. Il confronto tra passato e presente è inevitabile, soprattutto per individuare e colmare i vuoti ancora presenti e arginare le difficoltà dei nostri tempi. Una storia “in divenire”, quindi, che ci invita a riflettere sui motivi che spinsero i padri fondatori verso il cammino per l’integrazione europea, oltre a prendere ispirazione per le numerose sfide che interessano oggi il vecchio continente.

Se il momento di svolta all’interno del processo d’integrazione può ricondursi alla firma dei Trattati di Roma, è pur vero che tale momento segna l’inizio di quella ricerca di costruzione di un apparato sovranazionale per il quale la voglia di crescere e cambiare, insieme al timore stesso dei cambiamenti, posero l’Europa come un “problema” da risolvere, un problema aperto[1]. La ricorrenza del 60°anniversario dei Trattati di Roma è stata celebrata in un momento storico-politico molto complesso e delicato, particolarmente incerto per il futuro dell’Unione europea; ripercorrere il cammino che ha portato ad una lenta e articolata costruzione dell’Unione, oggi insidiata da minacce che tendono ad indebolirla e vederla come di certo non si sarebbe immaginato all’inizio della sua storia, permette di poter confrontare le motivazioni poste alla base della sua costruzione, con gli attuali tentativi volti a tenere in piedi un assetto, evidentemente vulnerabile, di fronte alle numerose sfide che da anni ne minacciano la stabilità[2].

Le conseguenze degli allargamenti, soprattutto riguardo i Paesi dell’Europa centro-orientale[3], la crisi economica e migratoria[4], il terrorismo[5], il crescente fenomeno dei populismi rappresentano serie prove di tenuta della Comunità, divenuta Unione, a cui oggi necessita una politica che non sia soltanto economico-finanziaria[6].

Nel 2017 sono ricorsi altri momenti fondanti del processo di integrazione europeo: i trenta anni dell’Atto Unico europeo, i venticinque del Trattato di Maastricht, due tappe importantissime che hanno segnato momenti in cui la Comunità/Unione si è vista interprete di notevoli evoluzioni. Se i Trattati di Roma segnarono l’inizio della ripresa di un’Europa indebolita dalla guerra, in cammino, quindi, verso una ricostruzione economica, industriale e soprattutto di pace, le due tappe appena ricordate si pongono quali pietre miliari, in quanto consolidano i principi del 1957 ponendo l’accento sul completamento della costruzione del mercato interno, in stallo dopo le crisi economiche degli anni Settanta e l’avvio di una bozza di Unione politica (Atto Unico europeo), oltre a trasformare la Comunità in Unione, sostenuta sui tre pilastri  ‒ Comunità europea (CECA+EURATOM), Giustizia e Affari Interni, Politica Estera e di Sicurezza Comune (Trattato di Maastricht). Circa dieci anni fa, inoltre, nel dicembre 2007, veniva sottoscritto il Trattato di Lisbona, risultato di tormentati tentativi che avrebbero voluto una Costituzione europea, ma che tuttavia completava il disegno istituzionale dell’Unione, inserendovi la Banca Centrale europea, consolidando la figura dell’Alto Rappresentante per la Politica estera dell’Unione, divenuto anche vice Presidente della Commissione, incaricato del coordinamento dell’azione esterna dell’esecutivo e, infine, conferendo il riconoscimento della personalità giuridica all’Unione. Tre fasi cruciali del processo di integrazione che sembrava potessero dare un futuro solido, ma che a partire dal 2008, hanno visto l’Unione dover affrontare difficoltà che hanno mostrato invece una profonda debolezza, mettendo in serio pericolo il concetto di unità[7]. Aver celebrato i sessanta anni della nascita della Comunità europea è sembrata piuttosto una necessità in un momento in cui si considera un’Europa a più velocità, purché si resti uniti di fronte al concreto rischio di frammentazione e di conseguenti conflitti.

Ci si chiede allora come mai dopo anni di cammino non ci si trovi di fronte ad un apparato politico-istituzionale che abbia i requisiti adatti per gestire le crisi di vario genere. La risposta sta proprio nella mancanza di politica nell’Unione europea. Non basta un mercato unico, una moneta unica per essere in grado di governare un’alleanza, manca l’unione politica e quanto sta accadendo ai nostri giorni mette allo scoperto questo persistente vuoto[8]. Le necessità che hanno dato origine al difficoltoso processo di integrazione hanno portato ad un risultato che per molti anni ha assicurato benessere e, soprattutto, una lunga pax europaea, che tuttavia ha fatto dimenticare lo stato di incertezza economica e politica per il quale si cercò di lavorare verso una raccolta di forze necessarie a rinascere dalle ceneri del conflitto mondiale. Negli ultimi anni, il susseguirsi di complessi momenti di difficoltà che hanno interessato non solo l’aspetto economico finanziario, ma anche la tranquillità della società civile, oltre ai numerosi conflitti sparsi per il mondo, hanno riportato la memoria a vecchi contesti che richiedono necessariamente cambiamenti e ripensamenti di una Unione che si vede incapace di tutelare le garanzie stabilite sessanta anni fa[9]. Il rischio di disgregazione è reale e il recente Libro bianco presentato dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker[10], proponendo un’Europa a più velocità, ci fa comprendere come la necessità di restare uniti sia l’unica possibilità per evitare il peggio. Delusione o senso di sconfitta quindi? Effettivamente molti cittadini si trovano a riflettere sulla capacità dell’Unione di affrontare le numerose e pericolose sfide che minacciano l’Europa e sugli evidenti limiti che ne stanno scaturendo. La diffidenza nei confronti dell’apparato istituzionale europeo trova, nel contesto attuale, un riscontro pericoloso che potrebbe progressivamente veicolare l’euroscetticismo verso la deriva al consenso populista che mai come in questi tempi trova ispirazione su quanto succede[11]. È in questo contesto che la costruzione di un vero coordinamento tra società civile, politiche domestiche e sovranazionali si rende quanto mai urgente e necessaria, tenendo anche conto delle prossime elezioni europee del maggio 2019.

 

  1. Ricordare e ripartire

Se i motivi ispiratori dei Trattati di Roma furono quelli di ricostruire benessere e pace in una comunità di sei Paesi usciti da due devastanti conflitti mondiali, ciò che ha reso attuale la loro celebrazione è il rinnovato motivo di emergenza e riconfigurazione che sta interessando l’Unione europea. Dai sei Stati fondatori si era arrivati a 28, ridimensionati poi a 27 visto il risultato del referendum britannico sulla Brexit, nel giugno 2016 e all’avvio, quindi, delle procedure per l’uscita del Regno Unito. Oltre, infatti, alla crisi economica che da diversi anni sta interessando l’Europa, e non solo, il continuo flusso di migranti in fuga dalla guerra e dal disagio presente nei loro Paesi, il concreto rischio del terrorismo e una rinnovata insidia proveniente dalla politica espansionista della Russia, la decisione anglosassone si pongono a corollario di quella fragilità che emerge da tanti problemi e che rischia di ispirare altre derive secessioniste. Benessere e pace, dunque sono due argomenti che tornano in primo piano, non a seguito di una guerra, ma per scongiurare l’idea di ipotetici conflitti e divisioni che potrebbero scatenarsi in conseguenza a tali insidie[12]. La necessità di restare uniti è prioritaria ed è su questo punto che l’Europa a più velocità sembra essere la soluzione più praticabile, tenendo conto delle difficoltà economico-finanziarie che molti paesi, soprattutto dell’Europa mediterranea, cercano di combattere.

Il concetto di unione indispensabile non sfugge, tuttavia, ad una certa dose di ambiguità, in quanto le ipotesi legate alla differenziazione delle velocità potrebbero rivelarsi quali false alternative.

La vulnerabilità dell’Unione, come si accennava, sta nella totale mancanza di azione politica posta a garanzia dei risultati raggiunti e orientata al conseguimento di ulteriori e importanti obiettivi[13]. Quelle che sono state, fino ai nostri giorni, le soluzioni tecnocratiche in cui l’apparato burocratico sovranazionale è altamente specializzato, non possono definirsi adattabili alle minacce di latenti derive populiste, quando non nazionaliste. Occorrerebbe pertanto riadattare l’Unione al presente, ricercando e valorizzando i punti di convergenza comunque esistenti, sebbene il contesto si riveli alquanto eterogeneo a causa della forte demarcazione sia tra Nord e Sud, sotto l’aspetto propriamente economico, che tra Est e Ovest, a decorrere dal primo allargamento del 2004 e i successivi del 2007 e 2013, riguardo alla crescente crisi di democrazia che interessa il cd. Gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia), in particolar modo riguardo al fenomeno migratorio[14]. È dunque necessario ripensare l’Unione in chiave politica e non solo economico-finanziaria. Il modo stesso di ricordare alcune tappe salienti del processo di integrazione dovrebbe cambiare, cercando di prestare maggiore attenzione ai tanti piccoli passi che hanno rafforzato l’intero assetto istituzionale comunitario. L’idea che la sola integrazione economica non sarebbe bastata a consolidare la Comunità europea e che una successiva unità politica sarebbe stata necessaria, era già presente nei pensieri dei padri fondatori; lo stesso Paul-Henri Spaak era convinto che l’integrazione economica avrebbe costituito il passo iniziale verso l’unione politica. Lo sviluppo dell’integrazione economica non avrebbe dovuto, pertanto, ostacolare l’evoluzione politica dell’Europa comunitaria. In seguito, l’Atto unico e i Trattati di Maastricht e di Lisbona, oltre ad aver consolidato il mercato, la finanza, la moneta, hanno contribuito ad organizzare, mediante una distribuzione di funzioni, le istituzioni e le loro competenze. Su quest’ultimo punto si rende necessaria un’evoluzione che interessi in particolar modo il Parlamento europeo, nell’intento di renderlo ancor più garante di quella democrazia tuttora debole e non in grado di sollevare un vero dibattito pubblico europeo, orientato a raggiungere risultati in campo sociale ed economico, cercando di coniugare il già collaudato metodo intergovernativo con il metodo sovranazionale. Il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma, quindi, oltre a farci ripercorrere i passi che portarono all’accordo, risulta di fondamentale riferimento per quanto interessa l’Europa di oggi. Le necessità di allora si affiancano alle emergenze di oggi, ciò che è successo nell’arco temporale trascorso è stato importante, utile e costruttivo, ma la fragilità che affiora pone nuovamente in primo piano l’importanza di una vera e propria politica comunitaria.

 

  1. L’Unione ridimensionata: 28 – 1 (?)

Nel 1957 i Paesi che firmarono i Trattati di Roma non potevano immaginare le trasformazioni che la Comunità europea avrebbe vissuto in sessanta anni. Numerosi gli allargamenti tra i quali il più consistente quello del 2004, momento in cui molti Paesi dell’Europa centro-orientale sono entrati a far parte dell’Unione[15]. Dopo essere arrivati a 28 nel 2013, con l’adesione della Croazia, per la prima volta stiamo assistendo all’abbandono da parte di un Paese, il Regno Unito, che ha costantemente mantenuto un rapporto assai controverso con l’Unione, ma più in generale, con l’intero processo di integrazione europea. Ricordiamo come nel 1957 il governo di Londra istituì un’organizzazione alternativa alla Cee, con l’obiettivo di liberalizzare le tariffe economiche, la cosiddetta Area Europea di Libero Scambio ‒ EFTA/AELE ‒, ipotizzando di sostituire o annettere la CEE. Una simile previsione non ebbe in realtà alcuna possibilità di realizzazione, soprattutto a causa della crisi economica e alle conseguenti rivolte organizzate diffusamente nel territorio britannico. Il Pil del Regno Unito era, all’epoca, uno dei più bassi d’Europa e il tasso di disoccupazione tra i più alti. Con queste premesse, l’idea di percorrere la via europea divenne sempre più un’ipotesi praticabile. Nel 1973 il Regno Unito, insieme a Danimarca e Irlanda, entrò nel mercato comune, l’accordo venne firmato dal governo conservatore di Edward Heath[16]. Nonostante dal 1° gennaio 1973 fosse stata formalizzata l’adesione alla Cee, nel 1975 fu indetto un referendum per la permanenza del Regno Unito all’interno della Comunità europea, il risultato del quale – il 67,2% votò per il “Sì” contro il 32,8% per il “No” con un’affluenza alle urne del 64,5% – consolidò la scelta[17]. Sulla scia di quel primo referendum istituito per chiedere ai cittadini il consenso di rimanere o meno all’interno della CEE, il Regno Unito, a seguito dei risultati emersi dalla consultazione popolare del 2016 sulla Brexit, si vede ora pronto a lasciare l’Unione. Di fatto, per effetto di una miope campagna elettorale[18] portata avanti da David Cameron ai fini della propria rielezione, si è rafforzato il latente sentimento secessionista degli inglesi, producendo gli effetti che ben conosciamo, costringendo alle dimissioni il Primo ministro e lasciando il Paese alle prese con le procedure per lo scioglimento del vincolo comunitario. L’attuale premier, Theresa May, tra non poche difficoltà e perplessità sta sostenendo l’onere di portare a termine questa complicata vicenda.  Se Margaret Thatcher è ricordata per il suo famoso “I want my money back”, Theresa May passerà alla storia con “I want my country back”. In più, l’idea di indire elezioni anticipate, cd. snap general election, per “legittimare” il suo ruolo di primo ministro non ha sortito gli effetti sperati, infatti Theresa May ne è uscita alquanto “indebolita” a causa del ridotto consenso ottenuto dai Conservatori al termine della consultazione elettorale. Inevitabilmente gli effetti stanno ricadendo sia sul Regno Unito, che nelle trattative volte a formalizzare la separazione dal contesto sovranazionale, interessando i meccanismi di funzionamento dell’Unione e l’evoluzione delle relazioni transatlantiche. Ciò che questa vicenda sta mettendo in evidenza è la presenza di numerosi “exit-focolai”[19] che minacciano una già debole comunità[20]. Il ridimensionamento dell’Unione europea obbliga, pertanto, ad individuare tutti gli elementi possibili che possano arginare ipotetiche e pericolose divisioni dell’Europa, sfiorando scenari esistenti all’epoca della fine della guerra fredda[21].

Occorre interrogarsi sul perché si voglia uscire dall’Unione. Le correnti populiste presenti in molti Paesi sembrano rivestire un ruolo di portavoce dello scontento dei cittadini e, per questo, potrebbero rivelarsi come possibili espressioni di un crescente consenso. La politica distratta degli ultimi anni ha permesso che tale fenomeno potesse assumere dimensioni preoccupanti; in più, nel caso anglosassone, la decisione scaturita non interessa uno Stato in costante difficoltà economico-finanziaria, perché “vessato” da un’Europa inflessibile e tale aspetto ci porta a riflettere su come l’idea di “uscire”, dunque, non appartiene soltanto ai Paesi in costante affanno con i bilanci da far quadrare, ma trova spazio anche tra quelli più forti e più stabili. Il ridimensionamento dell’Unione porta ad una considerazione che richiede di non sottovalutare le reali minacce provenienti dalle appena citate correnti di pensiero, a causa dei rischi che potrebbero scaturirne, ma mettersi piuttosto al lavoro orientandosi verso il lungo termine, per valorizzare i tanti punti positivi ancora esistenti, renderli più forti adattandoli alle nuove sfide, ponendo quale conditio sine qua non il vincolo a restare uniti.

Secondo Thierry Chopin

Lutter contre le populisme, c’est in fine (re)créer une vision et un sens, un projet politique de long terme. Ce projet doit être celui de reconstruire un modèle politique proprement européen à l’échelle du continent capable de prendre en compte un certain nombre d’exigences incontournables: répondre à la crise de sens, au besoin de solidarité et de lutte contre les inégalités, recréer un sentiment d’appartenance par la recherche de la communauté et de l’identité, et enfin répondre à la demande de protection en matière économique et sociale mais aussi en matière de sécurité. Sur le plan externe, il s’agit de rendre ce projet politique “compétitif” dans la concurrence mondiale des modèles d’organisation politique et socioéconomique[22].

Per tutto ciò si potrebbe agire sostanzialmente su alcune direttrici particolari, nella fattispecie un consolidamento della zona Euro, trovare risposte efficaci alla necessità di una prosperità economica diffusa nella società civile, individuare una strategia a lungo termine per gestire la crisi migratoria contestualmente ad un’azione di protezione dei cittadini europei, riprogettare la politica estera dell’Unione, trasformare le istituzioni europee in organismi più democratici e più snelli. La ricerca di politiche adatte a tutto questo si rende ineludibile per conferire all’Unione una maggiore e più importante dimensione nello scenario internazionale.

 

  1. L’Europa per cui impegnarsi: un populismo positivo

Un miglioramento potrebbe essere attuato, in realtà, attraverso le numerose iniziative che in controtendenza all’ondata populista, cercano di catturare l’attenzione e la partecipazione della società civile.

Se i movimenti europeisti possono vantare una lunga storia nel corso del processo d’integrazione europea[23], soprattutto nel periodo antecedente le prime elezioni per il Parlamento europeo, in quanto “hanno assunto un’importanza sostanziale nell’ambito della mobilitazione internazionale, fornendo i riferimenti necessari alla classe politica che, in prossimità delle prime elezioni a suffragio universale diretto, avrebbe inevitabilmente occupato la scena principale”[24], l’ispirazione aggregante che appartiene a gruppi apolitici che vogliono ribadire il concetto di unione, sta caratterizzando in modo considerevole molte capitali europee.

E’ il caso di citare due esempi tra i tanti esistenti, il primo Pulse of Europe, consiste in una iniziativa popolare ed autonoma pro-europea nota per gli eventi settimanali in cui riunendo migliaia di persone in diverse città coglie l’occasione per cantare l’inno europeo; fondata a Francoforte nel 2016, ha per obiettivo quello di “rendere di nuovo visibile e udibile il pensiero europeo”. In contrapposizione all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea e all’incremento di partiti populisti di destra e nazionalisti, questa azione mira ad incoraggiare positivamente i cittadini ad ascoltare il “battito” d’Europa (Pulse of Europe appunto)[25]. Il secondo Des Europes et des Hommes, nato da giovani di Lille che hanno organizzato un Tour de France volto a costruire una dinamica partecipativa per inventare l’Europa di domani. Lo scopo è stato quello di parlare di Europa sulle strade della Francia e attraverso i media, al fine di raccogliere proposte da parte dei cittadini, adattabili alle difficili sfide di oggi. Il percorso iniziato nell’ottobre 2016, è terminato ad aprile 2017. Due facce di una medaglia in cui si identificano cittadini europei che credono nell’importanza e nei vantaggi di rimanere uniti e di rafforzare l’Unione. L’eterogeneità dei partecipanti è un valore aggiunto, in quanto si portano avanti gli scottanti temi che affliggono il continente, cercando di individuare soluzioni e proposte che possano essere accolte dagli “addetti ai lavori”. Non solo, molti di questi stanno intraprendendo una vera e propria rivoluzione della comunicazione, proponendo una sostanziale trasformazione del linguaggio per renderlo capace di trasmettere i valori che possono contrastare la retorica populista e promuovere tolleranza e apertura.

C’è da dire che di tali realtà non si parla abbastanza, infatti i media preferiscono dare più risalto alle correnti avverse all’Europa e al processo di integrazione, probabilmente perché alcune di loro sono ben conosciute, in quanto rappresentate anche all’interno del Parlamento europeo. Le iniziative popolari a favore della coesione e del rafforzamento sovranazionale stanno comunque diffondendosi soprattutto attraverso i social network per raggiungere un numero sempre più grande di adesioni e partecipazioni ai periodici incontri. Se consideriamo le analogie con il ruolo dei movimenti europeisti dobbiamo anche riconoscere che essi

hanno rappresentato, dopo il fallimento della CED, un riferimento essenziale in un processo d’integrazione tendenzialmente attento all’aspetto economico. La strategia utilizzata, soprattutto verso il raggiungimento del voto europeo, ha messo in evidenza il contatto con le forze politiche, ma anche il coinvolgimento dell’opinione pubblica attraverso una seria mobilitazione a livello transnazionale[26].

Sembra che i corsi e ricorsi della storia vedano il ripetersi di iniziative a favore dell’Europa di oggi alla ricerca del consenso popolare, per opera delle varie organizzazioni che dovranno, come in passato, stabilire un contatto con le forze politiche al fine di trasformare le loro proposte in azioni positive.

 

  1. Un legame irrinunciabile

L’irrinunciabilità al legame è ancor più evidente se si considerano le dimensioni dello spazio europeo, le sue trasformazioni e le più volte citate insidie, oltre al preoccupante espansionismo della Russia e la necessità di una difesa che cooperi con l’alleanza atlantica. Per gestire tali criticità si rende quanto mai indispensabile l’intento di incrementare il processo di integrazione contrastando il rischio di disfacimento. Quando si pensa ai vantaggi che fino ai nostri giorni sono scaturiti dalla costruzione europea, il riferimento va immediatamente alla pace, ma nonostante l’Unione abbia ricevuto a tale proposito il premio Nobel nel 2012, occorre che se ne prenda cura per salvaguardarla. Sebbene l’assetto istituzionale comunitario risulti complesso, non si può negare il suo ruolo indispensabile nell’assicurare la possibilità di confronto, discussione, ricerca di soluzioni. All’interno delle sue strutture vengono impiegati tutti quegli strumenti che a partire dai Trattati di Roma fino a quello di Lisbona sono stati utili per trovare compromessi finalizzati al consolidamento della democrazia, libertà, giustizia e benessere sociale. La burocrazia europea, spesso giudicata in modo negativo a causa dell’eccessivo tecnicismo, mal sopportato dagli Stati membri e poco conosciuto dai cittadini, è stata in grado, tuttavia, di assicurare cooperazione e pace all’interno della comunità. Le nuove sfide, proprio perché inducono ad una presa di coscienza della necessità di rimanere uniti, impongono, altresì, una revisione delle procedure finalizzate ad una migliorata efficienza e velocità per la risoluzione delle crisi. È il caso di ribadire che, come scrive Pascal Fontaine,

la risposta europea, concertata, solidale, è più che mai necessaria. L’Europa non è all’origine della crisi; essa è stata inventata per rispondere alle crisi ad un livello e con dei mezzi che raggiungono la massa critica di questa nuova economia globale, fenomeno irresistibile e irreversibile[27].

La consapevolezza dell’irrinunciabilità del legame comunitario fonda le sue ragioni sull’importanza di una interdipendenza profonda e durevole, interdipendenza che deve continuare ad esistere tra parlamenti nazionali, cittadini e istituzioni europee[28]. Se l’insieme deve proseguire e assicurare il proprio funzionamento, le parti devono dare il loro contributo. La serie di timori che scaturiscono da terrorismo, migranti, minacce informatiche – cosiddetti cyberattacks – potrebbero portare ad una rinnovata unità[29] da conquistare attraverso le riforme di quei settori che si rivelano inadatti ad affrontare e risolvere le situazioni presenti nello scenario internazionale, oramai da un po’ di tempo. Occorrerà dunque intraprendere una vera e propria costruzione della politica europea che sia in grado di coordinare le attuali politiche settoriali esistenti: economia, cultura/formazione (ricordiamo, tra l’altro che nel 2017 si sono celebrati anche i 30 anni del progetto Erasmu)[30], partecipazione sociale, sicurezza, difesa. Su quest’ultimo settore, la forte motivazione di mostrare al resto del mondo un’Europa in grado di potersi difendere (lontana tuttavia dal volersi sovrapporre alla NATO, alleanza della quale alcuni Paesi membri fanno parte)[31], spinge seriamente verso l’ipotesi di una concreta realizzazione del difficoltoso obiettivo, sempre più oggetto di attenzione[32].

I delicati equilibri da rispettare invitano ad una attenta valutazione della sua struttura e delle sue finalità. Più che chiamarla difesa europea, infatti, si tende a sottolineare la volontà di consolidare una politica di difesa da parte degli Stati membri che si vedranno coinvolti, ciascuno per la propria possibilità. L’assenza del Regno Unito, peraltro, costituisce una importante diminuzione del potenziale militare all’interno dell’Ue, per non parlare della possibilità di eventuali Stati che dovessero decidere di lasciare l’Unione e i cui effetti andrebbero a sommarsi alla già delicata cooperazione tra NATO e Ue. Il clima di incertezza presente nello scenario internazionale vorrebbe, in ogni caso, che le due realtà potessero invece stabilizzare l’attuale collaborazione. Se per tutto il periodo della guerra fredda, nell’ambito quindi di uno scenario bipolare, vi poteva essere una ripartizione dei compiti (sicurezza esterna alla NATO, pace e prosperità all’interno dell’Europa alla Comunità/Unione europea), dopo la caduta del Muro di Berlino le crescenti ambizioni sulla sicurezza continentale sono state percepite dall’Alleanza come insidie alla sua primazia. Il contesto, che nel tempo ha subito un sostanziale cambiamento divenendo multipolare, ma soprattutto maggiormente instabile, ha aumentato così le esigenze di protezione da parte dell’Unione considerate pertanto sempre più necessarie[33]. In effetti il 6 marzo 2017, l’Unione europea ha approvato l’istituzione di un quartier generale, o meglio, un comando per le operazioni militari europee all’estero, il cosiddetto MPCC (Military Planning and Conduct Capability)[34], un iniziale e importante passo nella direzione giusta verso l’attuazione della politica di sicurezza e difesa europea. L’obiettivo, volto a salvaguardare l’Unione dai reali pericoli provenienti da più fronti, soprattutto dal terrorismo, colpevole di confondere la linea di demarcazione tra sicurezza interna ed esterna, è il cosiddetto “Horizon 2025”, uno stanziamento di fondi comunitari destinati ad una sorta di “messa a punto” degli armamenti europei, una riflessione sulla “difesa europea”, piuttosto che sull’“Europa della difesa”, una puissance douce intesa come concetto di condivisione di sicurezza e difesa tra gli Stati membri. Come sostenne già nel 2014 il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker “L’Europe est pour l’essentiel, une soft power. Mais même les plus grandes puissances pacifiques ne peuvent faire l’impasse sur des capacités de défense intégrées”[35]. Nella sostanza, l’obiettivo della Commissione affrontato nel  giugno 2017 non è esattamente quello di costituire un fondo, ma di mettere a disposizione una serie di finanziamenti per sostenere, nel complesso, il ciclo di sviluppo delle capacità di difesa[36]. Il fine di tutto ciò è quello di riuscire finalmente nel raggiungimento di quello che oramai è stato definito il traguardo più importante nel processo di integrazione, dopo la moneta unica[37].

 

Conclusioni

Se la pace e la prosperità sono stati possibili per tanti anni attraverso una forte volontà di rinascere dallo sconforto, dalla desolazione e dalla povertà, non si può certo dire che i motivi per voler scuotere l’Unione europea siano oggi di portata minore. È troppo tempo oramai che si reclama la mancanza di politica sovranazionale e l’assetto istituzionale comunitario si rivela sempre più inadeguato alla soluzione di crisi presenti su molteplici piani. Fino a qualche anno fa l’argomento Europa non riceveva particolare attenzione da parte dei governi nazionali, soprattutto all’interno del dibattito politico pre-elettorale europeo; oggi di Europa se ne parla fin troppo[38], ma non basta, occorre procedere verso un rafforzamento di ciò che si è indebolito e rischia ancora più di alimentare il processo di détricotage. La ricorrente inadeguatezza delle politiche nazionali ha una grossa responsabilità verso l’inefficienza della politica europea. La confusione dei ruoli e l’aggressività dei toni inevitabilmente si riflette più in alto e i fatti lo dimostrano in tutta la loro evidenza. Ciò che dovrebbe, però, preoccupare i politici, soprattutto quelli di lungo corso, è la crescente affermazione di alternative populiste e nazionaliste a cui l’opinione pubblica dimostra di prestare sempre più attenzione. Se inizialmente si poteva ritenere un fenomeno passeggero o comunque di importanza secondaria, oggi non si può più far finta di nulla. Ripensare l’Europa dopo questi sessanta anni di storia significa anche riconsiderare il ruolo e l’atteggiamento dei parlamenti nazionali.

Se Brexit rappresenta una delusione europea nei confronti del processo di integrazione, è pur vero che essa racchiude un potenziale non trascurabile, capace di scuotere lo scenario internazionale. Le conseguenze potrebbero svilupparsi in una dicotomia che ipoteticamente vedrebbe da una parte la volontà di costruire politiche in direzione di un incremento democratico dell’apparato istituzionale comunitario, aggiungendo la troppo assente politica sovranazionale, causa di diffuso euroscetticismo, quando non di euroavversione; dall’altra, e questo è il rovescio della medaglia, l’uscita dalla Unione potrebbe essere presa in considerazione da altri Paesi in cui la deriva populista dovesse prendere il sopravvento. Il 2017 è stato un anno ricco di elezioni (Olanda, Bulgaria, Francia, Regno Unito, Germania) e il dibattito politico dei partiti tradizionali è stato spesso insidiato da movimenti inneggianti a un ritorno ai nazionalismi, all’uscita dall’Euro, a politiche repressive nei confronti dei migranti, temi che facilmente possono riuscire a far presa su un’opinione pubblica stanca e sfiduciata dalle tante promesse e dai troppi protagonismi di politiche incapaci di dare risposte certe ai problemi che affliggono la società civile. La stessa stanchezza potrebbe, altresì, portare verso la scelta dell’astensionismo, mostrando il disinteresse degli elettori, come già accaduto in Francia durante le elezioni legislative del giugno 2017.

I rappresentanti dei partiti tradizionali sconfinano sempre più in polemiche, sopraffatti da un inesauribile desiderio di gettarsi addosso fango, perdendo così di vista la tradizione, la storia, e principi ispiratori della propria ideologia, trasformando i dibattiti pre-elettorali in occasioni che mostrano un livellamento di quelle differenze che una volta marcavano appartenenze ben precise. La percezione sociale che ne scaturisce mostra il ruolo dei parlamenti nazionali relegati a controllori distanti, o spettatori assenti[39]. In realtà la necessità di parlare di Europa e di credere nell’Unione europea, da parte dei cittadini e dei governi nazionali, è quanto mai indispensabile e dovrebbe restare lontana da strumentalizzazioni contingenti sottolineando, piuttosto, l’accezione di quel ruolo di garante e veicolo di pace e benessere che l’ha costantemente contraddistinta lungo l’articolato e continuo processo di integrazione; già De Gasperi ricordava nel suo discorso sull’Europa del 1952 come “nel passato sono stati tanti i conflitti e le guerre per questa impossibilità di trovare l’accordo, di discutere, per l’impossibilità di mettersi insieme in un’Assemblea e trattare di pace; non è meglio che facciamo uno sforzo per raggiungere la pace, per avere delle formule, per avere delle istituzioni che garantiscano questa pace?”[40].

 

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A. Lang, P. Mariani, La politica estera dell’Unione europea – inquadramento giuridico e prassi applicativa, Giappichelli, Torino, 2009

L. Mattina, La sfida dell’allargamento: l’Unione europea e la democratizzazione dell’Europa centro-orientale, Il Mulino, Bologna, 2004

B. Olivi, L’Europa difficile: storia politica dell’integrazione europea: 1948 – 2000, Il Mulino, Bologna, 2000

S. Panebianco (a cura di), Sulle onde del Mediterraneo – Cambiamenti globali e risposte alle crisi migratorie, Egea, Milano, 2016

D. Pasquinucci, L. Verzichelli (a cura di), Contro l’Europa – I diversi scetticismi verso l’integrazione europea, Il Mulino, Bologna, 2016

S. Pistone (a cura di), I movimenti per l’unità europea (1945 – 1954), Jaca book, Milano, 1992

I. Poggiolini, Alle origini dell’Europa allargata. La Gran Bretagna e l’adesione alla CEE (1972-1973), Unicopli, Milano, 2004

D. Preda (a cura di), Avanti adagio, CEDAM, Padova, 2013

F. Raspadori, La politica estera dell’Unione europea: istituzioni e strumenti di pace, Morlacchi editore, Perugia, 2007

D. Sassoon, QuoVadis Europa?, Castelvecchi, Roma, 2014

M. Telò, L’Europe en crise et le monde, ULB éditions, Bruxelles, 2016

F. Terpan, La politique étrangere et de securitè commune de l’Union européenne, Bruylant, Bruxelles, 2003

A. Tizzano (a cura di), Il processo d’integrazione europea: un bilancio 50 anni dopo i trattati di Roma, Giappichelli, Torino, 2008

D. W. Urwin The Community of Europe: A History of European Integration Since 1945, Routledge, London- New York, 2014

L. Zingales, Europa o no – sogno da realizzare o incubo da cui uscire, Rizzoli, Milano, 2014

 

 

 

* Il saggio è stato sottoposto alla procedura di doppia revisione da parte di esperti esterni alla rivista (blind referees).

[1] Cfr. Avanti adagio, a cura di D. Preda, CEDAM, Padova 2013.

[2] Per approfondimenti, si veda il recentissimo volume, Études Européennes, O. Costa, F. Mérand éds., Bruylant, Bruxelles 2018.

[3] Cfr. L. Mattina, La sfida dell’allargamento: l’Unione europea e la democratizzazione dell’Europa centro-orientale, Il Mulino, Bologna 2004.

[4] Cfr. Sulle onde del Mediterraneo. Cambiamenti globali e risposte alle crisi migratorie, a cura di S. Panebianco, Egea, Milano 2016.

[5] La bibliografia su questo argomento è copiosa, tuttavia è il caso di evidenziare alcuni importanti volumi tra i quali Undici settembre 2021. Le minacce del prossimo decennio, a cura di G. Ansalone, A. Zappalà, FrancoAngeli, Milano 2012; D. Fotia, Terrorismo … per non addetti ai lavori. Il circolo vizioso dell’aggressività, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2012; International Terrorism and World Security, D. Carlton, Carlo Schaerf ed., Routledge, London-New York 2015; An International History of Terrorism. Western and Non-Western Experiences, J.M Hanhimäki, B. Blumenau ed., Routledge, London-New York 2013.

[6] Cfr. La competitività dell’Unione europea dopo Lisbona, a cura di F. Borghese, M.P. Caruso, S. Riela, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005.

[7] Per un approfondimento sulle fasi relative alla crisi dell’Unione europea cfr. M. Telò, L’Europe en crise et le monde, ULB éditions, Bruxelles 2016.

[8] Per riferimenti sul concetto di integrazione politica, oltre che economica e di consolidamento istituzionale cfr. N. Ghazaryan, The European Neighborhood Policy and Democratic Values of the EU, Hart Publishing, Oxford 2014; G. Giraudi, Ripensare l’Europa. Storia, processi e sfide dell’integrazione europea, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008; D. Sassoon, QuoVadis Europa?, Castelvecchi, Roma 2014.

[9] Cfr. A. Armellini, G. Mombelli, Né Centauro né chimera. Modesta proposta per un’Europa plurale, Marsilio editori, Venezia 2016.

[10] Si tratta del Libro Bianco sul futuro dell’Europa. Riflessioni e scenari per l’UE a 27 verso il 2025, pubblicato in https://ec.europa.eu.commission/sites/beta-political/files/libro_bianco_sul_futuro_dell_europa_it.pdf.

[11] Cfr. Contro l’Europa. I diversi scetticismi verso l’integrazione europea, a cura di D. Pasquinucci, L. Verzichelli, Il Mulino, Bologna 2016.

[12] Cfr. P. Bergamaschi, Area di crisi: guerre e pace ai confini d’Europa, Edizioni La Meridiana, Molfetta 2007.

[13] Cfr E. Fazi, G. Pittella, Breve storia del futuro degli Stati Uniti d’Europa, Fazi editore, Roma 2013. Si veda anche La dimensione sociale dell’Unione europea alla prova della crisi globale, a cura di A. Ciccarelli, P. Gargiulo, FrancoAngeli, Milano 2012, con riferimento particolare ai contributi di P. Gargiulo, La cittadinanza europea alla luce dei recenti sviluppi della giurisprudenza della Corte di Giustizia; C. Di Marco, Multiculturalismo e diritti, fra immigrazione e politiche dell’accoglienza in Europa e in Italia; M. D’Orsogna, Modello sociale europeo ed europeizzazione dell’Amministrazione Pubblica.

[14] The Perfect Storm of European Crisis, D. Dungaciu, R. Iordache ed., Cambridge Scholar Publishing, Newcastle upon Tyne 2017.

[15] Il 16 aprile 2003 ebbe luogo la cerimonia per la firma del cd. Trattato di Atene a cui presero parte sia i Paesi già membri che i dieci richiedenti l’adesione. Dopo il processo di ratifica, il 1° maggio 2004, con delibera del 13 dicembre 2002, il Consiglio dell’Unione europea approvò l’adesione di Cipro, Malta, Ungheria, Polonia, Slovacchia, Lettonia, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca, e Slovenia. Nel 2007 si aggiungeranno Bulgaria e Romania e nel 2013 la Croazia.

[16] Sull’adesione del Regno Unito alla Comunità europea cfr. G. Bentivoglio, La relazione necessaria. La Gran Bretagna del Governo Heath (1970 – 1974), FrancoAngeli, Milano 2011; I. Poggiolini, Alle origini dell’Europa allargata. La Gran Bretagna e l’adesione alla CEE (1972-1973), Unicopli, Milano 2004.

[17] Poco dopo l’adesione del Regno Unito alla Cee, tuttavia, il Premier Edward Heath, sconfitto alle elezioni, venne sostituito dal nuovo Premier, nonché leader del partito laburista, Harold Wilson, il quale indisse il referendum per decidere sulla permanenza del Regno Unito all’interno della Cee. I principali partiti politici così come la stampa sostennero l’adesione, il referendum ebbe luogo il 26 aprile 1975.

[18] La campagna elettorale pre-referendum ha raggiunto toni estremamente accesi, culminando nell’omicidio di Joe Cox, deputata Labour, assassinata per mano di un presunto estremista nazionalista, una settimana prima (16 giugno 2016) della consultazione popolare.

[19] Si pensi alla Grecia, all’Olanda, alla Danimarca.

[20] Cfr. L. Zingales, Europa o no. Sogno da realizzare o incubo da cui uscire, Rizzoli, Milano 2014.

[21] Cfr. A.A. Mitcha, A Europe of Clusters, in “Carnegie Europe, Judy Dempsey’s Strategic Europe”, 31 marzo 2017, il quale sostiene che “The EU is on the threshold of a systemic adjustment comparable with that seen at the end of the Cold War. The process of reorganization is likely to be anything but orderly”,

https://carnegieeurope.eu/strategiceurope/68473 (ultimo accesso 31 marzo 2017).

[22] T. Chopin, Le “moment populiste”: vers une Europe “post-libérale”? In “Question d’Europe”, n. 414, “Policy paper, Fondation Robert Schuman”, 12 dicembre 2016, consultabile su https://www.robert-schuman.eu/fr/doc/questions-d-europe/qe-414-fr-pdf.

[23] Per approfondimenti sul ruolo dei movimenti europei cfr. I movimenti per l’unità europea (1945-1954), a cura di S. Pistone, Jaca Book, Milano, 1992; I movimenti per l’unità europea (1970-1986), a cura di A. Landuyt, D. Preda, Il Mulino, Bologna 2000.

[24] D. Floris, Europei al voto. Politica, propaganda e partecipazione in Italia, Francia e Regno Unito (1979-1989), FrancoAngeli, Milano 2017, p. 17.

[25] Https://pulseofeurope.eu/it/ (ultimo accesso 27 giugno 2017).

[26] D. Floris, Europei al voto, cit., p. 51.

[27] P. Fontaine, Viaggio nel cuore dell’Europa 1953-2009. Storia del Gruppo Democratico Cristiano e del Partito Popolare Europeo al Parlamento europeo, Racine, Bruxelles 2010, p. 570.

[28] Cfr. D. Mahncke, What’s wrong with the European Union? And what can be done?, in “Bruges Political Research Papers/Cahiers de recherche politique de Bruges”, 2016, n. 54.

[29] “Beaucoup de raisons, aujourd’hui, peuvent conduire à retrouver un tel état d’esprit pour approfondir l’Europe sur l’air de l’«hymne à la peur»”, Y. Bertoncini, La peur peut favoriser l’unité des Européens, in “L’Opinion”, 6 febbraio 2017.

[30] Cfr. il sito dell’Unione europea www.erasmusplus.it.

[31] I ventuno Paesi (post Brexit) appartenenti contestualmente all’Unione europea e alla NATO sono: Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Olanda, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Ungheria.

[32] Cfr. F. Terpan, La politique étrangère et de securité commune de l’Union européenne, Bruylant, Bruxelles 2003; M. Clementi, L’Europa e il mondo, La politica estera, di sicurezza e difesa europea, Il Mulino, Bologna 2004.

[33] Basti pensare che il tema della sicurezza ha assunto il ruolo principale nelle elezioni svoltesi in Austria, Paesi Bassi, Francia, Regno Unito e Germania, visto il clima di altissima minaccia terroristica, nel quale le forze populiste hanno trovato ispirazione per definire l’Europa incapace di proteggere la propria gente.

[34] Il Military Planning and Conduct Capability comanderà le missioni militari europee “non executive”; tre quelle attualmente in corso, in Mali, Centrafrica e Somalia.

http:// www.difesa.it/Primo_Piano/Pagine/Difesa_europea_UE_vara_il_primo_comando_militare_unificato.aspx  (ultimo accesso 11 aprile 2017.

[35] J.-C. Junker, juin 2014 (http://europa.eu/rapid/press-release_IP-17-1516_fr.htm?locale=FR).

[36] Cfr. A. Dumoulin, N. Gros-Verheyde, La Politique européenne de sécurité et de défense, Editions du Villard, Paris 2017.

[37] Tra i sostenitori di questa tesi si ricorda Manfred Weber, capogruppo del Partito Popolare Europeo.

[38] Si pensi alla campagna elettorale del Presidente Emmanuel Macron in cui per la prima volta si è verificata una europeizzazione della propaganda nazionale, in controtendenza alla ricorrente nazionalizzazione della propaganda europea.

[39] “Il faut redonner un rôle majeur aux parlements nationaux […]; ils deviendront ainsi des acteurs de la politique européenne, et non plus des contrôleurs distants ou des spectateurs attentifs”, A. De La Grange, Jean-Pierre Raffarin: “Sur l’Europe, affirmer le rôle des parlements nationaux”, in “Le Figaro”, 6 marzo 2017.

[40] A. De Gasperi, discorso sull’Europa trasmesso alla radio il 5 gennaio 1952, http://www.sturzo.it/files/edu/cap4/2-3/DeGasperi_discorso_euroepismo.pdf.

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