L’archivista: una figura in costante trasformazione

 

L’archivista dissociato

Che cos’è meglio: l’archivista-erudito, l’archivista-burocrate, l’archivista storico delle istituzioni, l’archivista storico tout court, l’archivista esperto di tecniche elettroniche, l’archivista promotore ed organizzatore di iniziative culturali? Forse l’archivista modello, l’archivista esemplare, dovrebbe essere un po’ tutto. Anche in tempi passati si diceva che un grande archivista è soprattutto un grande eclettico. Ma gli archivisti modello, gli archivisti “tipo”, non esistono. E forse non esistono neppure gli eclettici. Se l’archivista esercita un mestiere ha un suo specifico settore di lavoro. E ha anche un suo settore specialistico. L’archivista è specialista di archivi. Ma gli archivi sono tanti e tanto diversi (Zanni Rosiello 2000, 387).

Chi è l’archivista oggi? Diciotto anni fa Isabella Zanni Rosiello aveva già bene interpretato le difficoltà che si incontrano nel definire il lavoro dell’archivista. Ancor più nell’attualità, l’archivista contemporaneo sembra essere una figura antropologicamente dissociata. La storia e la storia della prassi si sono frantumate; in altre parole, l’archivista non può più sentirsi al sicuro dentro alle sue metodologie e norme consolidate, perché il diversificarsi delle fonti documentarie sembra sovrastarlo. Nuovi supporti, nuovi documenti, nuove partiche, e nuovi standard. Ad esempio, la pubblicazione del modello concettuale Records in contexts. A conceptual model for archival description (International Council on Archives – Experts Group on Archival Description 2016) non ha solo riacceso un vivace dibattito sulla descrizione archivistica, ma, a parere di chi scrive, anche sulla professione. Il modello concettuale attesta l’evoluzione della descrizione archivistica, multidimensionale oltre che multilivellare; di conseguenza, la professione, dovrebbe assumere una forma reintepretata; arricchendosi metaforicamente di entità, proprietà e relazioni. Si tratterrebbe dunque di:

  • (ri)trovare la sua entità, o in altre parole la sua identità. Come ha affermato Luciana Duranti, il ruolo dell’archivista è uno e uno soltanto; ciò che si modella di volta in volta sono le competenze che gli archivisti mettono a disposizione delle carte e non il contrario (Duranti 2000, 9).
  • dare maggior valore al suo lavoro e quindi attribuire ad esso delle proprietà che lo identifichi;
  • infine, stabilire relazioni sia professionali che disciplinari, perché, in generale, un’archivistica chiusa e conclusa in sé stessa serve a ben poco.

L’archivista oggi si confronta con una realtà multidimensionale composta da archivi tipologicamente diversi, memorizzati su supporti sia cartacei sia digitali; quest’ultimi necessitano di competenze altre rispetto alle tradizionali, ponendo altresì interrogativi in ordine ad un necessario ripensamento della professione. Il diffondersi delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) ha indotto turbamenti disciplinari, oggi ancora lontani dall’essere risolti.  Ed è noto che il contesto sociale di riferimento influisce sullo sviluppo e sulla prassi delle professionalità di dominio; l’archivista – e più in generali quanti operano nelle digital humanities – è chiamato ad operare al passo con i tempi del proprio tempo, del tempo presente.

[…] (L’archivista) non deve farsi cogliere impreparato dà nessuna novità e deve sempre essere in grado di portare un contributo finalizzato alle esigenze culturali, nella convinzione che il futuro dell’archivio sarà tanto più scientificamente redditizio quanto più l’archivio stesso sia nato in modo razionale (Pavone 1964, 359–60).

Un archivista quindi contemporaneo e antesignano, chiamato a prevedere i tempi, anticipando prassi conservative per fonti documentarie nate da poco o ancora in gestazione. È evidente come una conservazione zoppicante all’interno degli archivi informatici possa portare alla perdita di pezzi di memoria. L’archivista, quindi, gioca un ruolo fondamentale nella società; mentre nel film di Aki Kaurismäki[1] smarrire il passato conduce ad una rinascita interiore, nel mondo reale significa perdere identità, individuali e collettive.

Chi è dunque l’archivista oggi? È difficile definire univocamente una professione che ha il compito di governare una realtà così complessa. In linea di massima possiamo distinguere gli archivisti deputati alla conservazione della documentazione analogica e quelli invece che trattano documentazione prevalentemente digitale. I distinguo però sono riduttivi in quanto in ogni singolo dominio professionale gli archivisti assumono anche il ruolo di mediatori della documentazione, ognuno con prerogative proprie, prospettive e visioni differenti. Il minimo comune denominatore tra le varie realtà professionali è, e rimane, la memoria.

Memoria, soffio di nuvola sul cielo passato. Segnali di fumo portati dal vento. Non tradizione ma vita che si annoda alla vita. Specchio nel tempo, linfa del presente, occhio del futuro. Affacciati al balcone della memoria gli uomini conoscono sé stessi. Abbracciano un tempo che si fa amico e complice consigliere. La memoria è la sola speranza di futuro, sicuro antidoto alle catene di un presente onnivoro (Valacchi 2018, 29).

E se la memoria è la sola speranza di futuro, gli archivisti sono chiamati a garantirla. Questo compito vale la fatica di ritrovare e rinnovare un’identità, di ripensarsi, per influire sulle decisioni politiche e sociali che governano la nostra memoria. Attendere dall’alto che albi e badge professionali ridiano spessore e vitalità al lavoro degli archivisti può risultare una fatica vana. A parere di chi scrive, è necessario riconoscersi, gli uni con gli altri, ognuno con le proprie competenze ed esperienze professionali, e prendere conoscenza che gli archivisti oggi, come nella storia, sono chiamati a giocare una partita importante: garantire la memoria e contribuire a costruirla per noi e per chi verrà dopo. In fondo gli archivisti sono storicamente stati il braccio destro del potere, che grazie al loro lavoro poteva essere legittimato… una vena di presunzione dovremmo dunque concedercela.

 

Gli archivi nell’antichità: qualche considerazione

È nostro fermo convincimento che non abbiamo inventato nulla in fatto di archivio, né di archivistica. Secondo noi, basta risalire nei secoli per provare come gli uni e gl’altri siano sempre esistiti, né siano una gloria di questo, né di quell’altro popolo. I progressi, verificatisi nelle loro interminabili vicende, non appartengono unicamente a una civiltà, né a uno Stato date le stesse circostanze, quei progressi si manifestano da per tutto ugualmente, e soltanto nella rapidità della diffusione di essi, soltanto nei particolari, suggeriti da nuovi avanzamenti delle scienze, risiede la differenza, che distingue un paese dall’altro (Casanova 1928, 293).

La letteratura di settore sulla storia degli archivi, sull’archivistica e sulla professione è copiosa e non è questa la sede per proporne una disamina critica. Non si vogliono qui ripercorrere le tappe evolutive che hanno portato alla nascita della disciplina e alla successiva definizione del modello conservativo italiano; queste tematiche sono infatti già state diffusamente argomentati in contributi di indiscusso valore (Casanova 1928; Lodolini 2001; Romiti 2003; Giuva e Guercio 2014)[2]. Le considerazioni di seguito proposte intendono porre l’accento sul ruolo che gli archivisti hanno avuto nella società antica e in parte in quella moderna, con l’intento di offrire una riflessione sulla contemporaneità e sull’identità odierna, che appare un po’ sbiadita, a tratti opaca.

Nella storia gli uomini hanno sempre avuto l’esigenza di ricordare, di non perdere la memoria, in prevalenza con intenti più pragmatici di quelli attuali. Rispetto al passato, infatti, la memoria culturale ricopre un valore rilevante nella nostra società e i beni culturali, essendo una testimonianza materiale avente valore di civiltà, sono tutelati e valorizzati dall’impianto normativo vigente[3].

Ma per gli Incas[4] prima, e i Mnemon (Le Goff 1977, 16–17; Angelucci 2008, 15–16) nell’Antica Grecia poi, ricordare i fatti del passato o mantenere traccia documentaria di atti ufficiali non era un’esigenza culturale, quanto una necessità legata al funzionamento delle attività quotidiane, sociali, commerciali e politiche. Il ruolo sociale e antropologico del Mnemon, custode della memoria collettiva, o degli scribi nella società sumera (Lodolini 2001, 18), era certamente determinante. Ricordare fatti, redigere documenti e conservare questi proto-archivi elevava i funzionari della memoria ai gradini più alti della società; essi erano i custodi silenziosi del potere e potevano entrare, non di rado, nelle stanze dei bottoni. Abbiamo poche informazioni sugli archivi nell’Antica Grecia anche se, come afferma Ernest Posner (Posner 1972, 113), essi erano particolarmente efficienti nella conservazione dei documenti; ne consegue che il maggior dispendio dei proto-archivisti erano indirizzato alla tutela del patrimonio (O’Toole 2004). Più ricche sono le fonti in epoca romana, dove gli archivi rispondevano a due principali necessità: da un lato doveva essere assicurata alla documentazione pubblica fede man mano che veniva prodotta, dall’altro il materiale doveva essere adeguatamente conservato affinché se ne potesse disporre all’occorrenza. Per comprendere l’importanza che gli archivi ricoprivano in epoca romana, basti ricordare che in ambito pubblico gli atti venivano conservati nei templi insieme all’aerarium, il tesoro di Stato, ed anche in altri importanti edifici pubblici del Campidoglio (Angelucci 2008, 22).

Le famiglie più agiate potevano inoltre disporre dei servizi di un archivista – o meglio di un proto-archivista –, che aveva il compito di gestire la loro documentazione privata (Lodolini 2001, 27). In aggiunta, in epoca imperiale si rintraccia la figura dell’archivistica anche nello scrinium memoriae, nel quale lavoravano non meno di quattro antiquarii, definiti “archivisti paleografi”(Ibidem, 43).

Questi sparuti esempi servono a segnalare la presenza di professionalità che possiamo ricondurre, in senso lato, a quella dell’archivistica odierno. Grazie ad essi e alla documentazione da loro conservata, si garantiva non solo il potere ai potenti ma anche il diritto del singolo; nella documentazione, infatti, si definiva un privilegio, si sanciva una transazione, si stabiliva un’eredità: perdere o distruggere un atto, sia stato di natura pubblica o privata, equivaleva a perdere diritti o benefici. Gli archivisti quindi, garanti della democrazia, non solo funzionari della memoria. «[…] i Romani avevano altresì perfettamente compreso che non si consolida uno Stato unicamente con le armi: ad un impero occorrono anche gli archivi, cioè una memoria (Moatti 1993, 104)»

In epoca medievale questi garanti cambiarono forma e affinarono le loro competenze. È l’epoca dei notai. A queste figure sono stati dedicati molti contributi nella manualistica, nonché specifiche monografie di alto rilievo (Petrucci 1958; Bartoli Langeli 2006; Cammarosano 2016), dai cui è desumibile una complessità eccentrica del notariato, riferibile all’ambito territoriale e al cotesto storico in cui le figure hanno operato. È in tal senso interessante la lettura di Marino Berengo, il quale, riprendono un’ottava di un notaio del tardo Trecento, ha posto in evidenza lo svuotamento delle funzioni del notaio pubblico, conseguente al quale si è registrato un ripiego verso il privato esercizio. Con la professione privata infatti si guadagnava meglio e non era necessario «accudire i clienti di porta in porta, come fa il fornaio col suo cesto del pane, e addirittura gli tocca esercitare il mestiere nelle osterie.» (Berengo 1976, 151). In generale il notariato tra il X e l’XII secolo evolve rapidamente grazie anche alla costituzione di scuole e percorsi formativi idonei allo svolgimento della professione. Inoltre, godendo dello ius archivi, i notai assunsero la funzione di garanti di pubblica fede, nonché di soggetti produttori di archivi, in senso lato (Angelucci 2008, 29).

Parallelamente, hanno convissuto altre professionalità, più vicine all’idea di archivista che condividiamo oggi. In un regolamento del 1347 emanato dalla moglie di Roberto d’Angiò si definiscono i compiti e orari degli archivarii, che affiancavano all’epoca i maestri razionali nel regno di Napoli (Lodolini 2001, 79). Successivamente, ad esempio dopo la costituzione dell’Archivio di Castel Sant’Angelo (Roma) e di altri uffici periferici, il personale addetto alla conservazione delle carte assunse la qualifica di archivarius (Ibidem 2001, 81). Con la lenta ma necessaria costituzione di piccoli e medi archivi di concentrazione la figura dell’archivista ha visto una progressiva affermazione in qualità di tecnico della conservazione.

Riassumendo: se prima possiamo rintracciare la figura dell’archivista nella civiltà sumera come produttore di documenti, nell’epoca greca e romana come un gestore dei diritti pubblici e in qualche caso anche privati, nel periodo medievale si distinguono il notaio, produttore di diritti, e l’archivarius, funzionario addetto alla conservazione delle carte.

Elio Lodolini ha individuato un bando pubblico del 1601 concernente il principio di “inalienabilità documentale”, vincolato al previo e obbligatorio parere del magnifico archivistica del magnifico maestrato di Biccherna (Lodolini 2001, 101). Un esempio questo, come ci conferma l’autore, che pone la figura dell’archivista come una professionalità centrale in una realtà prestigiosa, in quegli anni.

La Rivoluzione Francese ha segnato una marcata cesura nella storia degli archivi e nell’evoluzione della figura dell’archivista; in questa epoca venne infatti sancito il principio di pubblicità degli archivi (Duranti 1989); questo passaggio storico fondante ha conferito alla figura dell’archivistica il compito della mediazione. Una funzione fondamentale, in virtù della quale gli archivisti hanno assunto il ruolo di intermediari fra le carte e il pubblico: grazie a essi è ancora oggi possibile accedere alla documentazione, leggerla, comprenderla e studiarla. L’archivista è diventato dunque il Virgilio degli utenti, li accompagna nella loro ricerca cosicché le carte possano disvelarsi e rivelarsi.

Di qualche anno più tardi, sono le parole di Michele Battigia che si appella agli archivisti come:

[…] personaggi, soprattutto, che tengono un vicino rapporto coi Governi, con la Letteratura e cogl’interessi di tutta la Società; ed a’ quali è da supporsi che non si sarebbe giammai conferita una carica tanto onorevole e gelosa, quanto e per nobiltà di carattere, e per onestà di costumi non fossero stati riconosciuti al coperto d’ogni maldicenza. E di fatti, tutti i saggi Governi pongono in questo gran cura; poiché vediamo costantemente consegnati gli Archivj ad uomini dì una fedeltà, e di un onore a tutte prove (Lodolini 2001, 139).

Questa breve disamina chiarisce alcune dinamiche che hanno condotto all’affermazione di una professione, nonché alla fiducia e stima riservate a quanti, professionisti del patrimonio documentario, hanno operato in stretto rapporto con gli organismi di potere. Oggi invece qual è la posizione “sociale” ricoperta dagli archivisti? Quale impatto hanno sulla democrazia odierna e dinnanzi a quali sfide li pone il futuro?

 

L’archivista oggi: dalle dichiarazioni ai fatti.

Prima di parlare della figura dell’archivista contemporaneo, sembra utile richiamare alcuni passaggi che hanno contraddistinto i secoli XIX e XX.

Dalla seconda metà dell’Ottocento, i tratti della figura dell’archivista sono stati demarcati con progressiva chiarezza; poi, i lavori delle commissioni Cibrario e Papaldo, ed ancora, i lavori di Casanova, Bonaini, Cencetti e Lodolini, le cesure metodologiche offerte da Pavone e Valenti, finanche la diffusione della manualistica, hanno canonizzato i principi della professione, trasformandola da ancella della storia a disciplina scientifica. E come afferma Stefano Vitali:

[…] l’archivista non ha mai cessato di interrogarsi non solo e non tanto su come condurre speditamente e senza inutili diversivi là dove il ricercatore vuole arrivare, quanto più e spesso soprattutto su come far emergere con quell’evidenza e quella forza comunicativa con le quali ci era riuscito Bonaini, quei significati “altri” che gli archivi recano con sé altri da quelli che possono leggersi nelle loro carte o da quelli che rinviano ai soggetti che li hanno prodotti; significati storici e insieme simbolici, che balzano agli occhi non appena ciascuno archivio è collocato , al posto giusto, all’interno di strutture che lo mettano in relazione con altri archivi (Vitali 2003, 564).

L’evoluzione storica della disciplina e i confortanti principi metodologici sembrano oggi vacillare. In una società a cavallo tra l’analogico e il digitale, in cui il riconoscimento professionale fatica a tradursi in opportunità stimolanti e innovative, l’archivista contemporaneo opera faticosamente in libera professione, nel contesto degli archivi di Stato, incardinati su di una burocrazia asfissiante, e in un mondo liquido, permeato di bit.

Quindi nella pluralità professionale del XXI secolo, per definire i tratti di una figura plurale ed attiva (Valacchi 2018) è utile affidarsi alla Dichiarazione universale sugli archivi[5], approvata nell’assemblea generale dell’International Council on Archives, tenutasi ad Oslo nel settembre 2010. Gli archivisti, infatti, vengono definiti come: «professionisti, dotati   di   una   formazione specifica, iniziale e continua, che svolgono la loro funzione sociale favorendo la   creazione   dei   documenti, selezionandoli, conservandoli   e   rendendoli accessibili per il dovuto utilizzo»

Ma cosa si intende quando si parla di “funzione sociale”? Risponde a questa domanda il Manifesto degli Archivisti Italiani [6] del 2016, dove l’utilità degli archivi si interseca perfettamente con quella degli archivisti. Infatti, grazie al patrimonio documentario e a chi ogni giorno se ne prende cura:

  1. si possono provare i propri diritti.
  2. si può ricordare cosa si è fatto e usare l’esperienza per agire
  3. si può conoscere per comprendere ciò che altri hanno fatto o scoperto
  4. si può costruire l’identità personale e creare coesione sociale.

Il Manifesto continua puntualizzando il raggio di azione degli archivisti, operanti affinché il passato sia conservato correttamente nel presente, garantendo da un lato l’efficienza degli archivi correnti, dall’altro assicurandosi di proteggere la memoria anche dall’obsolescenza tecnologica.

La Dichiarazione e il Manifesto qui richiamati si armonizzano al Codice internazionale di deontologia degli archivisti[7] approvato nel 1996 a Pechino anch’esso dall’assemblea generale dell’ICA. Nel testo si afferma che gli archivisti tutelano il patrimonio documentario affinché questo sia un’affidabile testimonianza del passato; promuovono buone pratiche e metodologie, rispettando il principio di provenienza, il diritto all’informazione e alla riservatezza, tutelando altresì le relazioni esistenti tra la documentazione e l’autenticità degli stessi. Essi garantiscono l’accessibilità e l’intellegibilità del materiale; forniscono in maniera imparziale l’assistenza agli utenti perseguendo il pubblico interesse; garantiscono un’elevata competenza attraverso un aggiornamento professionale continuo; e infine, cooperano tra loro e con altre professionalità[8].

Gli archivisti sono chiamati a ricoprire un ruolo centrale nella realtà odierna e, nella documentazione sopra citata, lo si esplicita bene con parole come “funzione sociale” e “pubblico interesse”. In un mondo dove l’informazione è potere, i professionisti della documentazione, digitale o analogica, sono chiamati a governarla, gestirla e conservarla. In aggiunta, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione non lasciano spazio all’improvvisazione, perché un approccio superficiale nella gestione documentale può tradursi in perdite irreversibili di pezzi di memoria. Riflettere sulla professione non vuol dire solamente rivendicare un riconoscimento sociale; bisogna prendere coscienza che gli archivisti non sono solo dei tecnici della conservazione, ma i garanti della memoria per le future generazioni. Cosa studieranno di noi gli storici o i sociologi, se il nostro lascito non sarà più intellegibile? Dobbiamo impegnarci per ridare smalto e vigore alla professione, non solo nei codici deontologici ma anche nei fatti. Gli archivisti possono fare la differenza nel mondo delle “fake news”, ricordandoci negli archivi, nelle sale convegni e nelle aule universitarie che stiamo perseguendo un pubblico interesse e abbiamo un ruolo e dei compiti ben precisi.

 

Riprendersi il ruolo

Come già segnalato, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione ormai permeano ogni aspetto della nostra vita e oggi come non mai gli archivisti sono chiamati a governare il fragile equilibrio che si sostanzia tra l’informazione e la memoria. Gli archivisti non operano più solo nella fase storica del documento, ma sono presenti fin dalla sua concezione.

Ad esempio, le organizzazioni complesse hanno già compreso l’importanza di dotarsi di un valido sistema di gestione documentale, in quanto perdere dati e informazioni equivale ad essere poco produttivi. Gli archivisti, o sarebbe meglio dire i records manager, possono supportare le organizzazioni in tutto il processo decisionale e operativo che intercorre tra la scelta del sistema fino al suo reale utilizzo e mantenimento. Tra la teoria e la pratica però c’è sempre un gran divario, infatti in un articolo di James Currall e Micheal Moss  si evidenzia come gli archivisti non si sentano ancora del tutto coinvolti in questi processi (Currall e Moss 2008, 9). Gli autori infatti ipotizzano che questa criticità è causata da un lato dalle alte sfere dirigenziali che non conoscerebbero a pieno quali competenze l’archivista possa offrire nel processo di gestione documentale, dall’altro dagli stessi archivisti che faticherebbero a far comprendere la loro professionalità. In altre parole, sembra sia difficile comunicare il proprio ruolo, a far capire all’impresa quale know how gli archivisti possano offrire (Procter 2010).

Un altro esempio di come la figura dell’archivista possa oggi intervenire attivamente nella società e riprendersi un ruolo centrale è rappresentato dall’ E-government (Kallberg 2012). Questo processo non si configura solo nell’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione da parte della Pubblica Amministrazione, ma ha un respiro molto più ampio. L’E-government, nella visione europea, è uno strumento strategico volto a modernizzare le strutture, i processi e il quadro normativo delle pubbliche amministrazioni, al fine di incrementare l’efficienza della PA, garantire trasparenza e migliorare il rapporto con il cittadino(Centeno, van Bavel, e Bergelman 2005, 60). Quest’ultimo diventa parte attiva del processo, perché è coinvolto sia come utente ma anche come “organo di controllo”. Attraverso quella che viene definita E-partecipation, al cittadino vengono messi a disposizioni tutti gli strumenti per partecipare alla “decisione pubblica”. In questo senso la democrazia è veicolata tramite le informazioni (Kallberg 2012, 28), e gli archivisti dovrebbero essere coinvolti in prima persona a governare questo processo. E se gli archivi, come già puntualizzato, sono sensibili ai cambiamenti sociali, anche la professione dell’archivista deve adattarsi alle varie richieste che i mutamenti della società impone. Più in generale, riprendendo le parole di Terry Cook: «Radical changes in society have impact on archival theory and practice (Cook 1997, 20)».

Gli esempi riportati rappresentano solo due macro riflessioni su come l’archivista possa realmente ritrovare un ruolo centrale nell’odierna società dell’informazione. Un ruolo che contemperi le molteplici esigenze che sollecitano la professione. Ma soprattutto un ruolo “civile”, libero e liberato da esasperati tecnicismi. Un ruolo che ricordi alla disciplina, e al mondo, l’importanza di parole come contesto e critica delle fonti, a supporto di una dimensione digitale che si rivela sempre più sfuggente e governata da big data che rischiano di travolgere nella loro imponenza il concetto stesso di data. I dati per i dati o l’analisi dei dati? L’archivista può probabilmente dire la sua anche su questo dilemma.

 

L’autismo documentario

L’archivista architetto (Vitali 2003), l’archivista custode oscuro dei diritti e guardiano di cimiteri di carta (Bertini 2014), l’archivista artigiano del sapere (Zanni Rosiello 1981), l’archivista sacerdote della memoria (Romiti 2012). Oggi l’archivista è tutto questo. È sovraccarico di stimoli: dati, informazioni, tecnologie e tipologie documentarie in una lotta costante contro il tempo. Tenta di conservare il passato arginando l’obsolescenza. Il rischio però è quello dell’autismo documentario, di perdere cioè il contatto con la realtà e di rintanarsi in una vita interiore propria fatta di una solida e tradizionale metodologia. Questa naturalmente è essenziale ma non basta perché rischia di creare steccati. La cura però esiste. Gli archivisti devono di tanto in tanto uscire dall’archivio-tempio. I professionisti, presa coscienza del loro ruolo, dovrebbero non solo sovrintendere alla documentazione, ma anche, e soprattutto, comunicarne il valore. “Scendere in piazza” abbandonando l’autoreferenzialità per far posto alla divulgazione di saperi e di storie. Creare racconti sulle carte e far comprendere il loro ruolo; essere in poche parole degli archivisti attivi.

 

Conclusioni

La democrazia contro l’algocrazia. Questo è il punto. La sensibilità degli umani contrapposti alla lucida asetticità delle macchine, perché se è vero che il web 3.0 porterà a rendere comprensibile alle macchine ciò che per l’uomo è naturale, la moralità e l’etica non potranno essere sostituiti da un algoritmo. L’archivista deve avere un ruolo meno oscuro e più coraggioso; deve – e può- scaraventare il passato nel futuro alla luce di un solido e documentato presente. Un architetto l’archivista, ma forse più semplicemente, nel solco della continuità, un archivista

 

 

Bibliografia

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[1] L’uomo senza passato (Mies vailla menneisyyttä) 2002 diretto da Aki Kaurismäki.

[2] Per un approfondimento sulla bibliografia sulla teoria archivistica italiana si veda Ricci e Carassi (2000).

[3] Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, D. Lgs 22 gennaio 2004, n. 42 e successive integrazioni. Tuttavia, come già affermato da autorevoli voci, un superamento della funzione di tutela in favore di una onnicomprensiva funzione olistica di valorizzazione potrebbe meglio interpretare le utilità del patrimonio; in merito si vedano, fra molti, Manacorda (2014); Casini (2016).

[4] Si pensi ad esempio ai Quipu.

[5] https://www.ica.org/sites/default/files/ICA_2011_UDA_IT.pdf

[6] https://www.ica.org/sites/default/files/Manifesto_IT.pdf

[7] https://www.ica.org/sites/default/files/ICA_1996-09-06_code of ethics_IT.pdf

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    By: Giorgia di Marcantonio

    Giorgia Di Marcantonio, laureata cum Laude in Management dei beni culturali presso l’Università degli studi di Macerata, dal 2016 è cultore della materia della cattedra di Archivistica e Biblioteconomia (M-STO/08) del professore Federico Valacchi all’interno del Dipartimento di Scienze della Formazione, dei Beni Culturali e del Turismo della stessa università. La sua attività di studio e ricerca si focalizza principalmente sul tema della descrizione del patrimonio archivistico in rapporto con le tecnologie dell’informazione con particolare riferimento agli standard archivistici internazionali e ai modelli di restituzioni delle informazioni raccolte in fase di descrizione del patrimonio (G. Di Marcantonio, Il vasto panorama della bibliografia archivistica. Una disciplina al confine tra tradizione e innovazione, in “Biblioteche Oggi Trends”, Vol.2/2(2016), pp. 59-66; G. Di Marcantonio, La catalogazione e la descrizione archivistica in rapporto all’evoluzione dell’ambiente digitale. Riflessioni sul nuovo standard RDA, in “Il Capitale Culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage”, n. 14(2016), pp.973-986.)  Ha collaborato con gli archivi di Stato di Macerata e di Fermo, riordinando alcuni fondi archivistici, e con la Fondazione Mastrocola di Loro Piceno in provincia di Macerata per il riordino del loro patrimonio archivistico e librario.  Recentemente è stata una dei coordinatori del convegno organizzato dall’Università di Macerata e dall’ANAI Marche “Descrivere gli archivi al tempo di RIC” (Ancona, 17-18 ottobre 2017).

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