SHOAH di Claude Lanzmann

Claude Lanzmann, nato a Parigi nel 1925, è uno dei più importanti documentaristi viventi. Ha partecipato, giovanissimo, alla Resistenza francese e nel 1952 ha incontrato Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, con i quali ha stretto un rapporto d’amicizia e di collaborazione professionale. Inizia, così, la sua militanza nella rivista filosofica Les Temps Modernes , fondata da Sartre, della quale, oggi, è direttore. Fino al 1970 svolge attività di giornalista e saggista; nel 1972 realizza il suo primo documentario, Pourquoi Israel, sorta di manifesto contro coloro i quali, da sinistra, si opponevano all’esistenza dello stato di Israele . A partire dall’estate del 1973 comincia a lavorare a Shoah, al quale si dedicherà per undici anni, cinque e mezzo dei quali utilizzati per il montaggio delle oltre 350 ore di materiale girato. Altre pellicole firmate dal regista-filoso sono: Tsahal (1994), sul problema della guerra arabo-israeliana, Un vivant qui passe (1997) e Sobibor (2001), documentario sull’omonimo campo di concentramento nazista.
Shoah, film-fiume della durata di nove ore, non è un semplice documentario sullo sterminio di sei milioni di ebrei, ma un’opera filosofica sulla morte e sul non senso dell’agire umano. Il lavoro di Lanzmann è, insieme, uno straordinario documento storico, un’esperienza metafisica, ma anche, e soprattutto, un lungo poema funebre, in cui i racconti dei sopravvissuti delle squadre speciali (ebrei costretti a lavorare nei forni crematori e nelle camere a gas) si intrecciano e si accavallano, interrotti dal rumore insopportabile dei treni della morte. Shoah si fonda sulla convalida reciproca: ogni testimonianza conferma l’altra ma i protagonisti non si incontrano mai tra loro. E’ il montaggio a creare rimandi e, persino, una specie di suspense, grazie all’abolizione del tempo. La costruzione di Lanzmann non risponde ad un ordine cronologico anche perché, come ha spiegato lo stesso regista, “ tra tutte le ragioni e le spiegazioni che si possono dare dello sterminio (la crisi economica, la disoccupazione, la psicoanalisi, ecc) e il fatto stesso dello sterminio, c’è uno iato, un salto, un abisso”. L’evento della Shoah, per la sua disumanità, viene rigettato in un “illo tempore” esterno alla durata umana: è come se lo spettatore , di fronte alla catastrofe, scandita in un’allucinante atemporalità, pensasse: “ non è potuto succedere 65 anni fa!”. Lanzmann raccoglie, non solo le testimonianze degli uomini del Sonderkommando (le squadre speciali), ma anche dei nazisti che hanno assistito o che sono stati esecutori del massacro e dei polacchi che vivevano, indifferenti, nei dintorni dei campi. Con tutti, il regista-filosofo utilizza lo stesso tono perché un coinvolgimento emotivo eccessivo potrebbe distruggere l’efficacia comunicativa dei racconti. Analogamente, Lanzmann non adotta un atteggiamento “pietoso” di fronte ai sopravvissuti, bensì li costringe a ricordare, restituisce loro la parola, talora dissacrandola, ma risacralizzandola ad un livello più profondo: quello della Verità.
In definitiva, si tratta di un’opera complessa, di un immenso fiume di dolore e di verità, che smaschera le proteste di innocenza dei tedeschi e di ignoranza dei polacchi. “Il mio non è un film sull’Olocausto, non è un prodotto, un derivato dell’Olocausto, non è un film storico, è se stesso, è così che lo vedo, un evento originario”- queste parole di Lanzmann chiariscono, forse, meglio di ogni altro commento, lo spirito di un’opera che non può esser resa a parole ma che va vista e percorsa, se si vuole provare a confrontarsi con la tragedia indicibile, inimmaginabile, immemorabile del Novecento.

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