Perché ha scelto di intitolare il film “Romanzo di una strage”?
Ho scelto “Romanzo di una strage” perché evoca l’intervento di Pier Paolo Pasolini sul “Corriere della Sera” del 14 novembre 1974, poi apparso negli “Scritti corsari” (“Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove”). Noi, oggi, possiamo dire: “Noi sappiamo!”. Piazza Fontana non può essere un punto di domanda e basta. Penso, soprattutto, ai ragazzi più giovani: chi non sa nulla, ha il diritto di sapere. Un film, secondo me, serve a questo: a spiegare, con gli strumenti dell’arte, gli argomenti più scomodi. Quando ero ragazzo io, c’era Pasolini che decriptava gli avvenimenti, oggi non è più così… Poi, l’informazione deve essere agganciata ad un’emozione, altrimenti non si fissa e finisce per disperdersi.
Perché ha aspettato tanto per fare un film su questo argomento?
Non sarei stato capace di farlo prima perché mi sono dovuto liberare di molte idee preconcette. Ho dovuto aspettare una certa maturità artistica per essere capace di mettermi nei panni di tutti. La politica insegna a separare e a dividere: tutto il contrario dell’arte, che si mette nei panni della vittima, ma anche in quelli del carnefice. Ho imparato a guardare in questo modo a partire dal mio film su Pasolini (“Pasolini, un delitto italiano”, 1995): ho imparato a non formulare subito un giudizio sui fatti ma a percorrere, prima, tutte le tappe.
“Romanzo di una strage” è liberamente tratto dall’inchiesta “Il segreto di Piazza Fontana” di Paolo Cucchiarelli, edita da “Ponte alle Grazie”…
Prima ancora del film, sono partite le polemiche: vorrebbero che io scagliassi anatema contro Cucchiarelli e il suo libro. Perché dovrei fare questo? Io non sono d’accordo con lui su alcune cose ma, senza il suo lavoro, a questo film mancherebbero dei pezzi. E poi, non si può dire, a priori, chi siano i buoni e chi siano i cattivi!
Come ha ricostruito la scena dell’interrogatorio a Pinelli?
Io, da ragazzo, fui interrogato da Calabresi perché avevo occupato il mio liceo: il “Berchet”. Calabresi era una persona educata, era colto, era un intellettuale, insomma una mosca bianca. La ricostruzione esatta di ciò che avvenne con Pinelli non posso farla: non c’ero. Posso, però, fare supposizioni verosimili: certo, non si è suicidato. Credo che, uscito dalla stanza Calabresi, sia scappato qualche ceffone di troppo: non credo che gli uomini della questura volessero che finisse così. E’ successo un pasticcio ma, poi, hanno coperto tutto . Quando hanno cominciato a mentire, lì si è rotto il patto: è cominciata la distruzione dell’innocenza di chi, in Italia, credeva nella democrazia. E’ come giocare a carte con un padre che bara: o si comincia a pensare di fare come lui o ci si fa di eroina! Se non avessero detto menzogne orribili, le cose sarebbero state diverse…
Le immagini dell’autunno caldo di Milano ricordano, per certi versi, i fatti di Genova: è una coincidenza o una scelta?
Anche in quel caso ho ricostruito la mia esperienza perché, lì, io c’ero davvero. Durante una manifestazione del cosiddetto “autunno caldo” del 1969, i violenti scontri fra scioperanti e polizia provocarono una vittima, l’agente ventiduenne Antonio Annarumma, ma non fu aperto nessun fascicolo. L’evento sanguinoso giunse al culmine di una stagione piena di attentati e bombe “dimostrative” che, pur non avendo ucciso nessuno, angosciarono molto l’opinione pubblica.
Qualcosa di Bakunin e della trilogia “The Coast of Utopia” dell’autore inglese Tom Sheppard, di cui lei ha curato la regia a teatro, è finita nel film?
Credo che nel grande idealismo rivoluzionario di Bakunin siano rintracciabili le origini di Pinelli. Bakunin era un pacifista: era per la liberazione dell’uomo, non per la sua sopraffazione! Si tratta di una coincidenza ma è una coincidenza interessante!
Mario Calabresi ha dichiarato di non aver ritrovato suo padre, nel film…
A Calabresi manca suo padre e non può ritrovarlo, certo, in nessun film. Comprendo la sofferenza di chi ha perso una persona cara quando era molto piccolo, anch’io ho perso mio padre a otto anni. A Mario, peraltro, è stato strappato con violenza, capisco quanto possa mancargli e, anche se la madre ha sempre cercato di proteggerlo, posso immaginare quanto abbia sofferto, crescendo. Io, per rispetto, non ho messo nel film frasi che, pure, mi erano state dette dalla signora Calabresi. Non ho voluto, per scelta, occuparmi del personaggio privato ma del personaggio pubblico.
Quanto teme il fatto che il film possa essere considerato “ideologico”?
Mi sembra che il mio film sia la cosa più lontana, in assoluto, dall’ideologia. Ho avuto la necessità di farlo, non per ragioni politiche, ma perché è un momento della nostra storia che i giovani oggi conoscono poco e male: ho sentito ragazzi considerare Piazza Fontana tra gli episodi del terrorismo, addirittura attribuirlo alle Br. Per me, questo film è, soprattutto, un’opera recitata benissimo e ringrazio gli attori perché ognuno di loro si è preso cura del proprio personaggio e gli ha dato qualcosa di sé.