Lo “Strega” racconta la storia italiana

Per una strana coincidenza o – vogliamo sperare – per un’improvvisa inversione di tendenza della letteratura italiana, tre libri della cinquina dell’ultimo Premio Strega raccontano la storia d’Italia della seconda metà del Novecento, considerata dal punto di vista politico (Luciana Castellina), economico (Edoardo Nesi) o sociale (Mario Desiato). Nel loro insieme essi sono il ritratto di tre diverse generazioni unite dalla passione civile e dalla voglia di fare chiarezza sugli avvenimenti dell’ultimo mezzo secolo.

La scoperta del mondo è particolare per i suoi aspetti letterari e per la caratura politica della sua autrice, Luciana Castellina, a lungo deputata del PCI e fondatrice – insieme con Pintor, Magri, Natoli, Parlato e Rossanda – del Manifesto, dopo l’espulsione nel 1969 dal Partito Comunista, è stata per decenni un’icona della Sinistra per la coerenza delle sue scelte e per la capacità di comprendere, molto spesso prima degli altri, le conseguenze negative di un ostinato atteggiamento ideologico.

Il libro è la riproposizione del diario tenuto dalla scrittrice negli anni compresi tra il 1943 e il 1948 quando, poco più che adolescente (essendo nata nel 1929), per una pura casualità, si sentì immersa improvvisamente nella storia del nostro Paese.

Compagna di classe alle elementari e nei primi due anni delle medie di Anna Maria Mussolini, il 25 luglio del 1943 – data dell’arresto del duce – la giovane Luciana si trovava a Riccione con la figlia del dittatore a giocare a tennis. Quella partita, bruscamente interrotta dalla notizia che annunciava la fine del fascismo, viene accolta dalla giovane con un’iniziale inconsapevolezza, anche se istintivamente ella sente di assistere ad un evento epocale. Per questo motivo decide il giorno seguente di cominciare a scrivere un diario.

Dalle pagine del diario, scritto in “quaderni fittissimi”, a distanza di oltre sessant’anni Luciana Castellina ha tratto questo libro presentando ai lettori non solo la propria interpretazione dei fatti accaduti tra il crollo del regime e gli albori della raggiunta democrazia parlamentare, ma tutte le impazienze e le speranze di una generazione costruita sulla base dei dettami fascisti e costretta poi a cercare una propria identità. Anche perché come scrive l’autrice:

 

La mia formazione politica, fino a quel 25 luglio 1943, si era sviluppata su due linee contraddittorie, che però erano corse parallele, senza creare attriti: la scuola elementare Riccardo Grazioli Lante della Rovere, in via Tevere, a Roma, e la mia famiglia. La mia meravigliosa maestra iperfascista, signora Giralda Giraldi Caricati, ci aveva fatto decorare le pareti della classe con grandi affreschi dipinti coi gessi colorati per raffigurare le glorie del regime: la conquista dell’Impero, la bonifica delle Paludi Pontine, il Regno d’Albania. Le date dei quaderni su cui scrivo le ‘composizioni’ portano sempre anche una A (per anno), seguita dai numeri romani che indicano l’età dell’era fascista, segnalata, per brevità, con le lettere EF[1].

 

Tuttavia, l’antifascismo della famiglia d’appartenenza, il suo carattere cosmopolita e la sua parziale componente ebraica, compensarono la formazione ortodossa che come tutti i giovani del periodo aveva subito.

I continui spostamenti per l’Italia – da Roma, a Trieste, a Verona, poi a Monteviale, situato a pochi chilometri da Vicenza – furono l’occasione per la giovane di entrare in contatto con realtà assolutamente diverse, che l’aiutarono a scoprire nuovi aspetti della vita. Il dramma della guerra, gli infortuni sul lavoro conosciuti proprio a Monteviale – dove un suo parente perse un braccio lavorando in un fabbrica – furono eventi che contribuirono ad una graduale presa di coscienza, pur se talvolta edulcorata dallo schermo familiare, come accade ad esempio al constatare gli effetti delle leggi razziali entrate in vigore qualche anno prima, ma delle quali la giovane Castellina aveva percepito vagamente gli esiti:

 

Gli ebrei che io conoscevo, parenti o amici, non sembrava avessero subito un drammatico cambiamento di vita, sicché la persecuzione razziale – di cui nessuno cercò di spiegarmi la ragione, e tanto meno la gravità – mi era parsa una stranezza incomprensibile, grave soprattutto perché aveva privato la zia Vittorina del diritto a tenere una domestica. E aveva privato me. Dopo il trasferimento a Milano imposto ai cugini Ascoli, dell’estate al Lido di Venezia[2].

 

Poi la saltuaria frequentazione con Zeno, un giovane di due anni maggiore di lei, sollecita i suoi pensieri che diventano man mano più articolati, più ordinati. Il momento politico è complesso, il fascismo è crollato, ma la guerra continua, c’è da comprendere il ruolo di Badoglio, le ragioni per le quali i tedeschi invadono il Paese, mentre una parte ragguardevole della popolazione attende l’intervento delle forze alleate. Concetti difficili per un’adolescente di famiglia borghese, cresciuta tra mura amiche e buone letture e che stenta, come è naturale, a sviluppare una propria autonomia di pensiero. Tuttavia, la realtà irrompe con la sua violenza nel momento in cui la giovane assiste ad una delle tante deportazioni tedesche.

 

Vengo investita dalle voci che provengono dai vagoni e mi accorgo delle braccia che sporgono dalle feritoie. Sono soldati italiani, quelli che hanno tentato qualche resistenza e che, presi prigionieri, stanno per esser tradotti nei campi di concentramento in Germania. Gettano bigliettini, forse con l’indirizzo della famiglia, nella speranza che qualcuno li raccolga e avverta madri e spose del loro destino. Non è possibile, i militari tedeschi ci impediscono di avvicinarci[3].

 

Le contraddizioni socio-politiche sembrano a tratti dilatarsi con la fase ultima della guerra e la giovane Luciana le avverte in tutta la loro forza.

 

L’11 febbraio 1945, vale a dire mentre la guerra è nel suo pieno su tutti i fronti, i partigiani vengono decimati sulla Linea Gotica, a poche centinaia di chilometri. E noi, a Roma, ai Parioli, facciamo le feste di Carnevale! In costume, per giunta[4].

 

Il contrasto è indubbiamente sproporzionato, ma la guerra rende ogni condizione estrema e anche l’essere giovane, con le impazienze tipiche dell’età e gli amori fugaci, è fonte di inadeguatezza se confrontato con quanto accade intorno. Così come l’interesse per l’arte che pare conquistarla progressivamente, diviene una sorta di assurda astrazione.

La fine del conflitto bellico apre nuovi scenari: è il tempo della lenta, ma importante presa di coscienza dei privilegi familiari, della situazione del Paese, del senso da dare al proprio impegno intellettuale e alla propria vita. Ed allora annota sul diario:

 

Comincio a dubitare dei miei privilegi che fino a ora avevo dato per scontati, quasi fossero un dato di natura. La parola uguaglianza l’avevo naturalmente usata migliaia di volte, ma non ne avevo mai tratto ispirazione per qualche pensiero conseguente, mai l’avevo applicata a me stessa[5].

 

Ma a questi interrogativi si alternano le notizie sugli ultimi esiti della guerra mondiale con l’esplosione delle due bombe atomiche sul Giappone. Notizie che la giovane annota sul diario, mostrando di percepire appieno il dramma di quanto stava accadendo in una parte lontana della terra.

 

Non riesco a spiegarmi musica pittura poesia filosofia religione e natura umanità vita morte quando penso alla bomba atomica. La sua distruttività non sta nei 300.000 giapponesi che ha ammazzato, quanto nella improvvisa polverizzazione di ogni pensiero in noi. Se penso alla bomba penso che non esiste niente, né in me né fuori di me[6].

 

Tuttavia, la vita comincia a fremere a Roma e la passione per l’arte si consolida a tal punto da convincerla che farà la pittrice. L’amicizia con ragazzi più grandi le dà la possibilità di allargare i propri orizzonti culturali e di avvicinarsi alla politica.

 

La pietà che comincio a sentire per il mio prossimo più lontano dal mio ghetto sociale, per i senza privilegi, gli sfollati, i disoccupati, i reduci, i martiri, mi ridà una dimensione collettiva, solidale. E che a poco a poco mi apre alla curiosità politica, che è, appunto, il contrario del proprio ombelico[7].

 

Non è ancora una presa di coscienza vera e propria, ma comincia ad elaborare l’idea dell’importanza del ruolo messianico dell’intellettuale che non può assistere imbelle alle gravi disuguaglianze esistenti.

Le esperienze si succedono rapide. Nel settembre del 1946 c’è l’incontro casuale con il Sud, in uno scorcio di vacanza prima di cominciare l’ultimo anno di liceo. Vissuta tra Roma e varie località del Nord, il Mezzogiorno si presenta come una realtà totalmente diversa: dall’asprezza della terra differente da quella veneta, alle lotte dei braccianti, al modo di intendere e di vivere i rapporti uomo-donna. Sono immagini che si depositano nella mente, divenendo fondamentali nelle scelte politiche che in seguito compirà. Così come l’impatto con le sconosciute borgate romane in grado di ampliare i suoi orizzonti politici e culturali, modificando lo stesso rapporto con se stessa. Ed allora annota sul diario:

 

Le borgate liquidano la mia innocenza, scopro il senso di colpa per il mio privilegio. […] Scopro con piacere che nell’ultimo anno non mi sono quasi occupata di me e invece delle cose e delle persone con cui vengo a contatto. Scrivo che la vita è fantastica[8].

 

Ma il tempo passa. Siamo nel 1947, cominciano per Luciana Castellina i viaggi all’estero: in Francia, in Cecoslovacchia dove il punto centrale della riflessione si concentra sull’incontro-scontro tra la propria forte individualità e il desiderio di immergersi e di vivere in una dimensione collettiva. L’iscrizione al Partito Comunista sembra per qualche tempo far prevalere l’istanza collettiva e il suo bisogno di prendere parte attiva al proprio tempo, che si materializza nella partecipazione diretta alla costruzione della prima ferrovia moderna che avrebbe collegato Samac a Sarajevo. Un’esperienza di straordinaria intensità lavorativa ed umana grazie alla quale si sente immersa nel progetto di creazione di una nuova società. Il ritorno in Italia è in qualche modo traumatico:

I miei coetanei sembrano distratti da altro, le loro università, i loro amori. Il loro mondo non è più il mio. Il viaggio attraverso il pezzo più devastato d’Europa, la scoperta di storie che nella piccola storia appresa a scuola non erano mai entrate e, insieme a queste, tutta un’altra scala di principi e valori, hanno mandato in frantumi l’universo in cui ho vissuto fino a diciotto anni. […] E stare a guardare il mondo senza far niente, non mi è più possibile. E oltretutto mi sembra immorale[9].

 

L’impegno politico diviene pertanto prioritario e il Partito Comunista il riferimento assoluto nella sua vita, fino al 1969, allorquando in seguito all’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’URSS, insieme agli altri esponenti sopraccitati, fonda il Manifesto dando poi vita all’omonimo quotidiano. La rottura sarà dolorosa, ma importante sul piano della coerenza politica basata sulla convinzione delle possibilità di credere in un mondo diverso da quello piccolo-borghese.

Un pezzo di storia economica d’Italia è narrato da Edoardo Nesi, vincitore del Premio Strega, con Storia della mia gente. Il libro di Nesi si muove tra l’autobiografia, il trattato di economia e il romanzo, soffermandosi sull’industria tessile pratese, che ha dato vita ad uno dei poli maggiori del settore manifatturiero italiano. L’arrivo dei cinesi, nell’arco di pochi anni, ha determinato però una profonda destabilizzazione nelle piccole e medie imprese di Prato costrette a fronteggiare – senza poter contare su nessuna protezione politica – una guerra economica contro coloro che, calpestando ogni minimo diritto dei lavoratori, sono riusciti a realizzare gli stessi prodotti ad un prezzo assolutamente proibitivo per le imprese che operano in regime di garanzia e di tutela dei lavoratori.

La vicenda raccontata dall’autore toscano parte dall’esperienza assolutamente autobiografica vissuta fino al 2004, anno in cui l’imprenditore-scrittore decide di vendere la sua azienda impossibilitato, appunto, a continuare a reggerla. Un momento drammatico, in considerazione della lunga tradizione familiare del Lanificio T.O. Nesi & Figli fondato nel 1926 dal nonno e dallo zio dello scrittore. «Quando vendi un’azienda» – scrive Nesi – «vendi anche la sua storia. E noi una storia l’avevamo»[10].

Una storia fatta di tanti elementi, da quelli pionieristici dell’inizio, a quelli difficili riguardanti, in questo caso, il periodo dell’occupazione alla fine del quale e senza motivo, i tedeschi distrussero buona parte delle fabbriche della zona.

 

Mio padre, che a quell’epoca aveva nove anni, assistette alla scena con la mano pesante di mio nonno appoggiata sulla spalla. Furono radunati i cittadini di Narnali, gli vennero puntati contro i fucili e gli fu mostrato come saltava in aria una ditta. Tutto ciò che era stato costruito in anni di lavoro durissimo, tutto ciò che la mia famiglia aveva, svanì in pochi secondi[11].

 

Eppure, nonostante ciò, l’azienda riuscì a risorgere e, paradossalmente, quasi come una sorta di inspiegabile compensazione, il mercato più importante diventò proprio quello tedesco. Nesi, però, non si riferisce solo ed esclusivamente alla storia della sua famiglia e finisce per tracciare, quasi involontariamente, il percorso di una larga fetta della piccola industria italiana del Novecento, retta dalla passione di persone che con pochi mezzi, molto coraggio e tanta voglia di lavorare, hanno realizzato l’immenso miracolo di una ricchezza diffusa. «La cosa davvero bella» – scrive Nesi raccontando della Prato di suo nonno e di suo padre – «la cosa assolutamente strepitosa era che non bisognava essere un genio per emergere, perché il sistema funzionava così bene che facevano soldi anche i testoni, purché si impegnassero; anche i tonti, purché dedicassero tutta la loro vita al lavoro»[12].

La certezza di potercela fare pur senza grandi capitali o grandi capacità dava all’intera città, anche a chi non intendeva impegnarsi nel settore, quell’ottimismo e quella fiducia nel futuro che per anni sono stati gli elementi portanti di una vita tanto semplice quanto felice. Inoltre, chi era in possesso di maggiori capacità o riusciva ad osare di più, poteva gustare l’entusiasmo di una graduale conquista dei mercati esteri con contraccolpi positivi sulla sua attività imprenditoriale. Scrive Nesi:

 

Quell’epoca felice si interruppe a cavallo del nuovo millennio quando il fatturato della ditta si riduceva anno dopo anno, mese dopo mese, e tornavo a casa pieno di rabbia per le aste che i clienti ormai ci costringevano a fare per gli ordini più grossi, senza più dare importanza alla qualità del tessuto, all’affidabilità del servizio, alla puntualità delle consegne, al nome dell’azienda e alla sua storia. Sembravano diventati tutti sordi, i clienti. Anche i tedeschi[13].

 

La tristezza della resa non è neanche mitigata dal piacere, a lungo sognato, di dedicarsi solo alla letteratura. C’è, infatti, sostiene Nesi, una particolare soddisfazione a costruire dei beni reali che anche quando sono prodotti industriali portano in sé quel senso di artigianato, quella passione viscerale che gli uomini hanno messo per secoli nel cimentarsi nel loro lavoro. E quando questa passione è estesa ad un’intera città, essa diviene simbolo, ricchezza non solo economica, ma patrimonio culturale, storia, fino a lambire l’essenza stessa del proprio essere. Scrive Nesi:

 

Chi non è mai entrato in una tessitura che lavora non può capire quanto rumore possa fare. Il rumore di una tessitura è una cosa densa, quasi solida. E’ un’onda che ti investe, un vento che ti ingobbisce. Il rumore di una tessitura ti fa socchiudere gli occhi e sorridere, come quando si corre mentre nevica. Il rumore di una tessitura ti fa trattenere il respiro, come ai neonati quando gli soffi in faccia. Il rumore di una tessitura è continuo e inumano, fatto di mille suoni metallici sovrapposti, eppure a volte sembra una risata. Il rumore di una tessitura non ha origine e pare venire dalla terra o dall’aria, perché da lontano i telai sembrano immobili. Il rumore di una tessitura tocca e spesso supera i novanta decibel, e confonde e assorda chi non si mette i tappi nelle orecchie, come il canto delle sirene che perse i compagni di Ulisse. Il rumore di una tessitura somiglia al clangore di un esercito immane che avanza verso di te, al ronzio di un gigantesco alveare. A volte, quando è molto lontano, lo si può scambiare col rombare dei temporali. Il rumore della tessitura non si ferma mai, ed è il canto più antico della nostra città, e ai bambini pratesi fa da ninnananna[14].

 

E’ evidente che la globalizzazione, salutata da frotte di economisti come un male necessario e inevitabile, alla luce della “poesia del lavoro” recitata da Nesi e condivisa largamente da ampi strati del nostro Paese – come del resto avviene in molte altre realtà occidentali – non può essere considerata una forma di avanzamento socio-economico, ma solo un arresto delle grandi culture nazionali travolte dall’anonimato di una produzione seriale.

Di grande impegno sociale è anche il terzo romanzo, Ternitti di Mario Desiati. Sviluppato lungo l’arco temporale compreso tra il 1975 e il 2011, il libro affronta diverse tematiche cruciali della storia d’Italia del periodo.

Incentrato su una famiglia di emigrati italiani, una delle ultime dell’enorme flusso di migrazione che nel corso del Novecento porterà una quantità impressionante di persone – in gran parte provenienti dal Mezzogiorno – oltre i confini nazionali in cerca di fortuna, il romanzo di Desiati ha un respiro lungo non solo per il vasto periodo analizzato, ma anche per la molteplicità di situazioni che assicurano al testo un buon orizzonte d’attesa, accrescendo la sua leggibilità.

La protagonista indiscussa della vicenda è Mimì Orlando, un’adolescente costretta a lasciare con la famiglia l’amato Salento per inseguire il sogno, o meglio la speranza di una vita migliore in Svizzera, dove il padre ha trovato lavoro in una fabbrica che produce eternit. La vita a Zurigo si presenta subito difficile per gli Orlando obbligati a trovare alloggio in una delle tante case per emigrati, una vecchia vetreria abbandonata e primo ricovero degli emigrati italiani. In fabbrica, tra l’altro, le condizioni di lavoro erano terribili.

 

C’era un uomo solo sulla passerella, sotto fermentava il cemento e produceva nuvole grigie. Dal sipario di condensa e amianto avanzava a lunghi passi contro le colate. Una volta l’anno dalla passerella volava qualcuno e finiva nell’amianto bleu. […] Il soffitto del capannone era alto, affinché il fumo potesse disperdersi, o almeno desse l’illusione di farlo. Decine di vasche accerchiavano il transetto nel quale lavoravano uno dietro l’altro operai formando un carosello di gesti identici. Rastrellare, bagnare, setacciare, spartire e creare cumuli di materiale da plasmare. In ogni reparto c’era un tipo diverso di amianto, ogni operaio della fabbrica si ritrovava un suo amico-nemico dal nome complicato come crisotilo, amosite e crocidolite. Quest’ultimo conosciuto anche come amianto bleu, era il più pericoloso. […] Il colore e l’odore dell’impasto era insopportabile, pungente, gonfiava le narici ed entrava come aghi invisibili sotto il derma, attraverso le membra fino alla cassa toracica, infine nei polmoni[15].

 

Nella “casa di vetro”, in una sorta di strana comunità, Mimì si innamora di Ippazio un giovane di qualche anno più grande di lei, anch’egli giunto in Svizzera per lavorare con lu ternitti (espressione dialettale con la quale viene chiamato il pericoloso materiale).

L’amore tra i due giovani si consuma segretamente di notte, allorché Mimì coraggiosamente si alza dal suo letto per infilarsi in quello di Ippazio. Ma il cambio di abitazione degli Orlando, e la scoperta della relazione, interrompono bruscamente il rapporto tra i due.

Qui c’è il primo stacco della vicenda che si sposta al 1993. Gli Orlando sono tornati nel loro paese d’origine e Mimì ha una figlia di nome Arianna, che, come si scoprirà più avanti, è stata concepita in uno di quei clandestini incontri notturni con Ippazio.

Nel frattempo, nella piccola comunità salentina, la situazione è cambiata non solo per il parziale ritorno di molti emigrati, ma anche perché a dominare la scena sono i continui sbarchi degli stranieri, in particolare albanesi. Mimì non può fare a meno di ricordarsi del suo viaggio in Svizzera, della condizione vissuta dalla sua famiglia e in particolare dal padre gravemente ammalato[16], come tanti altri, per aver lavorato lu ternitti. Mimì registra la diffidenza della popolazione per l’esercito di profughi e le sembra molto simile a quella patita dagli italiani quando erano nella loro condizione.

Intanto la storia corre. Mimì lavora in un cravattificio e consuma la sua vita in amori sbagliati, mentre Arianna ormai è diventata una donna e sta per concludere gli studi di Medicina. Ci troviamo nel 2000 e gli esiti devastanti dell’eternit si mostrano con tutta la loro violenza.

Antonio Orlando se ne era andato via l’anno prima e con lui decine di abitanti maschi della casa di vetro di Zurigo. C’era una mappa con i nomi delle famiglie con cui aveva vissuto quella manciata di mesi, e tutte quelle famiglie avevano conosciuto l’agonia lenta di un loro maschio. Dei più anziani non era rimasto nessuno, Mimì aveva assistito a una dozzina di funerali e per ognuno aveva usato lo stesso abito blu scuro, perché le donava, e lo stesso copricapo ornato da un’antica veletta che si era cucita in un miscuglio, che spesso la possedeva, di civetteria e malizia[17].

 

Intanto il ritorno di Ippazio, che nel frattempo si era sposato con una tedesca dalla quale aveva avuto due figli, lascia perplessa Mimì e crea apprensione in Arianna. Ma si scopre poco dopo che le ragioni del suo ritorno sono simili a quelle degli altri emigrati: anche Ippazio è ammalato di asbestosi, che inesorabilmente divora chi ha lavorato con l’amianto. Pati (così lo aveva soprannominato Mimì) non appena aveva avuto la sensazione di essere stato colpito dal male aveva lasciato la moglie perché:

 

Il primo amore gli era tornato come un sepolto richiamo. Non voleva morire lontano dalla sua terra, dai suoi fossili e dalla sua lingua; Mimì rappresentava il mondo prima del ternitti, prima di conoscere la hybris di un materiale che si chiamava eterno, ma che non era fatto per fallaci e mortalissimi umani e per il quale erano stati arruolati migliaia di uomini[18].

 

Desiati, evitando di imbattersi in affrettati giudizi morali su Ippazio, gli concede una via di riscatto. Ci troviamo nel tempo attuale e Mimì è impegnata a condurre con forza e rabbia un’altra battaglia: quella del mantenimento del posto di lavoro nel cravattificio, la cui proprietà ha deciso di attuare una più conveniente delocalizzazione. Mimì sale sul tetto della fabbrica, dove minaccia di rimanere a lungo nonostante sindacalisti ed esponenti del padronato la invitino a scendere. Ippazio decide che è il momento di essere finalmente protagonista e cospargendosi di benzina la raggiunge sul tetto con l’intento di sacrificarsi in modo da salvaguardare con il suo gesto estremo il lavoro a Mimì e alle altre operaie. Ma una pioggia improvvisa rende vano il tentativo di Ippazio che tuttavia ritrova la pace riscattando una vita di errori e di paure.

Pur nella loro diversità stilistica e pur avendo una diversa provenienza geografica gli autori che abbiamo preso in esame – e che tra l’altro, come indicavamo all’inizio di quest’intervento, appartengono a generazioni distanti l’una dall’altra (Luciana Castellina è del 1929, mentre il più giovane dei tre Mario Desiati è del 1977) – i tre romanzi sono accomunati da un desiderio di intervenire nella realtà o rievocando la nostra storia o raccontando quanto nel tempo presente sta accadendo. Due tratti che consideriamo fondamentali per aiutare i lettori, specie quelli più giovani, ad orientarsi in un momento in cui le occasioni di riflessione e i punti di aggregazione culturale sembrano sempre più inghiottiti dal vortice di una inquietante e ripetitiva quotidianità.

Riteniamo che uno dei compiti improcrastinabili della letteratura sia quello di contribuire ad ampliare gli orizzonti dei lettori, uscendo dal mero intrattenimento. Lo Strega 2011 ha premiato questa inversione. Speriamo che continui!

 

 

 

 

 


[1] L. Castellina, La scoperta del mondo, Roma, Nottetempo, 2011, pp. 25-26.

[2] Ibidem, p. 44.

[3] Ibidem, pp. 55-56.

[4] Ibidem, p. 117.

[5] Ibidem, p. 133.

[6] Ibidem, p. 152.

[7] Ibidem, p. 148.

[8] Ibidem, p. 184.

[9] Ibidem, pp. 249-250.

[10] E. Nesi, Storia della mia gente, Milano, Bompiani, 2010, p. 24.

[11] Ibidem, pp. 24-25.

[12] Ibidem, p. 27.

[13] Ibidem, p. 60.

[14] Ibidem, pp. 93-94

[15] M. Desiati, Ternitti, Milano, Mondadori, 2011, pp. 26-27.

[16] «Gli anni al ternitti si facevano sentire, limavano la voce e le forme di Antonio (il padre di Mimì), che poco alla volta si rimpiccioliva nei suoi abiti, spariva dietro gli attrezzi della campagna dove lavorava sempre meno. Quei due anni, solo due anni di ternitti se lo erano mangiato per intero», Ibidem, p. 72.

[17] Ibidem, pp. 121-122.

[18] Ibidem, p. 243.

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    By: Mario Prisco

    Tra le sue recenti pubblicazioni ricordiamo: La città verticale. Napoli nella letteratura dagli ultimi decenni dell’Ottocento al nuovo millennio (Oèdipus, 2006), Finalista Premio Alvaro 2007, L’alfiere della scena. Il teatro di Roberto Bracco (Oèdipus 2011), Adorabile uragano. Dalle lotte risorgimentali alla “Miseria in Napoli”. La straordinaria avventura di Jessie White Mario (Stamperia del Valentino 2011). Collabora con la rivista torinese L/N.

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    Può la storia uccidere la letteratura?

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