Recensione: Camilla Poesio, Il confino fascista – L’arma silenziosa del regime

Questo studio nasce dalla rielaborazione di una ricerca di dottorato realizzata, in cotutela tra l’Università Ca’ Foscari di Venezia e la Freire Univeristat di Berlino, dalla giovane storica fiorentina Camilla Poesio; a testimoniare la solidità delle ricerche concorrono i due prestigiosi premi (Gallerano ed Ettore Gallo, entrambi ottenuti nel 2009) che Poesio ha ricevuto per la propria tesi. Nell’ultimo biennio la casa editrice Laterza, soprattutto nell’ambito della collana “Quadrante”, ha saputo pubblicare alcuni degli studi più interessanti realizzati delle ultime generazioni di storici italiani (dal lavoro di Maurizio Isabella sugli esuli del Risorgimento a quello di Alessio Gagliardi sul corporativismo fascista passando dal recentissimo lavoro di Enrica Asquer, solo per fare gli esempi più significativi) e con il lavoro della Poesio gli editor della casa editrice barese dimostrano, per l’ennesima volta, di aver un ottimo fiuto. Il confino fascista, secondo una pratica ormai consolidata nella rielaborazione delle tesi di dottorato per la loro “presentazione” al grande pubblico, si presenta come un agile volume di appena duecento pagine contraddistinto da una scrittura agile che lo rende facilmente fruibile anche ai non “addetti ai lavori”; nonostante questo l’autrice si dimostra capace di non rinunciare a quel rigore che deve contraddistinguere ogni lavoro scientifico. Negli ultimi anni, soprattutto tra i contemporaneisti, si è molto dibattuto sulla necessità di tornare a fare una divulgazione efficace, una divulgazione che sia in grado di ricucire quel rapporto tra studiosi e opinione pubblica progressivamente sfilacciatosi nel corso dei decenni; in tal senso il lavoro di Camilla Poesio è sicuramente una importante testimonianza di come sia possibile abbinare il massimo rigore scientifico ad una buona divulgazione.

Ma veniamo ai contenuti del saggio. Il testo si presenta diviso in quattro capitoli ma, nella sostanza, si possono individuare due blocchi principali: un primo, comprendente i primi tre capitoli, attinente strictu sensu alla pratica del confino in epoca fascista ed un secondo, il quarto ed ultimo capitolo, dove l’autrice si spinge in quello che riteniamo l’elemento più innovativo di tutto lo studio, vale a dire la comparazione tra il caso italiano e quello tedesco. Sarà quindi utile cercare di analizzare singolarmente questi due blocchi. «Il confino», ci dice l’autrice in apertura, «fu un’arma insostituibile per il regime fascista: da una parte, allontanava per un periodo di tempo più o meno lungo persone scomode senza imbattersi in complicazioni giudiziarie disponendo di una procedura agile e veloce e, senza ricorrere a eclatanti azioni terroristiche (che avrebbero danneggiato l’immagine del nuovo Stato fascista e che, al contempo, avrebbero mostrato quanto ancora il dissenso fosse tutt’altro che soffocato); dall’altra perché il confino rappresentò per molti un provvedimento invasivo, tutt’altro che mite» [p. X]. L’autrice inserisce giustamente questa pratica sul lungo periodo, mettendola in relazione con il domicilio coatto dell’Italia liberale; il regime fece infatti sue non poche istituzioni preesistenti modificandole ad hoc per i propri scopi («Fu la ragione di Stato a giustificare l’imposizione della legislazione eccezionale, ma fu la ragione della dittatura a trasformare l’eccezionalità in normalità» [p. 9]). Il confino, dopo la sua introduzione nel novembre del 1926, divenne rapidamente una straordinaria arma nelle mani del regime che dispose così di uno strumento completamente al di fuori dello Stato di diritto; di particolare interesse sono le pagine dedicate da Poesio all’organizzazione “pratica” dell’universo del confino: dalla scelta dei luoghi ai finanziamenti passando dalla procedura con sui si veniva generalmente assegnati ad una colonia [16-35].

Il secondo capitolo, il più corposo del volume, è interamente dedicato all’universo dei confinati; un’esperienza che è stata spesso sbrigativamente ricordata «come la palestra politica in cui si formarono i futuri capi della resistenza» [p. 36]. Pur essendo così, l’autrice riesce in queste pagine ad andare oltre e a creare una narrazione che, partendo dalle vicende biografiche degli stessi confinati, entra nello specifico delle loro difficoltà quotidiane. Spesso, fin’ora, ci si era soffermati sulle vicende di quei confinati che, grazie alle proprie disponibilità economiche, vissero quell’esperienza patendo meno di altri delle privazioni cui erano costretti (in tal senso il caso di Rosselli, che a Lipari poté pagarsi l’affitto di una casa e poi il noleggio di un motoscafo per la fuga, è sicuramente quello più emblematico); ne Il confino fascista si delinea invece molto bene la drammaticità di quando a subire il confino erano uomini o donne di origine popolare. Lo sradicamento, l’emarginazione, il senso di impotenza dei confinati sono tutti stati d’animo che sono presentanti con efficacia in questo capitolo. Interessante anche lo spazio che l’autrice sceglie di dedicare alle famiglie e alle sofferenze anche da queste patite [pp. 80-84]. In sintesi ci sembra che uno pregi di questo volume risieda anche nella capacità dell’autrice di riuscire a “rappresentare” le difficoltà e le privazioni cui furono costretti i confinanti e di offrire al lettore un quadro nel quale la stessa scelta politica antifascista tende ad assumere un valore, se possibile, più alto.

A rendere il quadro generale più completo contribuisce il terzo capitolo dove vengono delineati i rapporti tra i tre gruppi direttamente coinvolti, loro malgrado, nell’universo del confino: i confinati stessi, le guardie e le popolazioni locali. Il quadro che ne esce è complesso e sembrano che siano spesso state le popolazioni locali a vivere con conflittualità i rapporti tanto i rappresentanti delle regime quanto con i confinati politici. In queste dinamiche giocò un ruolo fondamentale la preponderanza, tra i “controllori” voluti dal regime, dei militi della MVSN i quali, come rileva l’autrice, ebbero un peso «sostanziale nell’applicazione del provvedimento» di confino [p. 84]. Si scopre però come in questo complicato triangolo carico di tensioni, e nonostante atteggiamenti a vole apertamente ostili da parte delle popolazioni, potesse esserci anche spazio per momenti di solidarietà umana tra confinati e locali [pp. 96-100]. Un elemento che torna in tutto il capitolo e che potrebbe fornire un’utile chiave di lettura per analizzare questi rapporti risiede nel vero e proprio scontro culturale che si produsse tra uomini e donne che avevano mediamente un grado di scolarizzazione più (i confinati) o meno (i militi della MVSN e le popolazioni locali) alto. La presenza di questo capitolo è particolarmente importante anche per una questione che trascende il tema specifico del saggio: troppo a lungo gli studi su fascismo e antifascismo hanno infatti seguito strade diverse, quasi che non si trattasse di due campi complementari. Poesio ha invece evidentemente compreso come per parlare del confino fosse necessario non lasciar fuori nessuno dei suoi attori; dicendolo con delle categorie forse abusate dalla storiografia più recente, ci ha parlato tanto delle vittime come dei carnefici e dei testimoni.

Il quarto ed ultimo capitolo, e quindi il secondo blocco del saggio, è occupato da una comparazione tra il confino italiano e la “Schutzhalft” nazista. Diciamo subito che dovendo individuare una debolezza in questo lavoro questa sta sicuramente nel poco spazio che si è riservato ad una comparazione che, come si è detto, è forse la parte più innovativa dell’intero lavoro. Possiamo ipotizzare che questa sia stata una scelta consapevolmente presa da un editore più interessato, per motivi di marketing, al solo caso italiano. Prescindendo da questo rilievo, gli spunti che emergono dalla comparazione sono interessantissimi. L’autrice infatti, oltre a dimostrare un’ottima confidenza tanto con la letteratura scientifica in lingua quanto con gli archivi tedeschi, individua una lunga serie di elementi comuni: un’origine sul lungo periodo che risiede nelle rispettive legislazioni ottocentesche, l’analogia nelle circostanze politiche che giustificarono l’introduzione dei due istituti, l’utilizzo del tutto simile da parte dei due regimi delle milizie di partito (la MVSN in Italia e le SA ed SS in Germania). Le ultime pagine del saggio sono dedicate ad un’analisi dei rapporti che si instaurarono tra i due regimi riguardo le misure prese in esame dal saggio; si scopre così che dal 1933 Italia e Germania, nonostante qualche difficoltà iniziale, dialogarono con sempre maggior successo fino agli accordi stipulati dalle rispettive polizie nel 1936 [pp. 129-142]. Da questo momento il poi lo scambio di informazioni sugli oppositori si fece sempre più intenso e contribuì a rendere più efficace il controllo del dissenso politico in entrambi i paesi.

 

Nel settembre del 2003 Silvio Berlusconi, in occasione di un’intervista rilasciata al settimanale britannico “The Spectator” fece riferimento anche all’istituzione del confino, definita una vacanza a spese dello Stato, per sostenere che quello fascista fosse stato un regime non particolarmente duro e severo con i suoi oppositori. Le dichiarazioni dell’allora Presidente del consiglio provocarono, e non avrebbe potuto essere altrimenti, una vasta ondata di indignazione, in particolar modo tra gli storici; se quello fu l’ennesimo tentativo, squisitamente politico, di sminuire le durezza del regime mussoliniano, il saggio di Camilla Poesio è invece una testimonianza concreta, e scientificamente fondata, di come una simile interpretazione “bonacciona” del fascismo sia lontana dalla realtà storica. In quei giorni di fine estate Giovanni De Luna scrisse su “La Stampa” come il confino avesse significato «sradicare un individuo scaraventandolo in un isolamento in cui non può nuocere, confinandolo: un virus ecco cosa erano i propri nemici» [“La Stampa”, 12 settembre 2003, p. 5], sottoscrivendo a pieno queste parole siamo convinti che, se questa polemica si dovesse riproporre oggi, De Luna non si potrebbe esimere dal suggerire la lettura de Il confino fascista. L’arma silenziosa del regime.

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