I venti mesi compresi tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945 rappresentarono un passaggio cruciale nella storia del Novecento italiano. Come si confà a ogni momento centrale nella biografia di una nazione, quell’anno e mezzo non ha mai smesso di sollevare dei vivaci dibattiti sia all’interno della ristretta comunità degli storici sia, soprattutto, nel complesso dell’opinione pubblica italiana. Volendo fare una periodizzazione di massima potremmo dire che almeno sino alla fine degli anni Ottanta e alla definitiva entrata in crisi della prima Repubblica la ricerca storica è stata spesso pregiudicata da un vizio di fondo: quella tradizione antifascista che era stata una delle basi fondanti dello Stato repubblicano aveva infatti mantenuto nell’epopea resistenziale uno dei propri cardini complicandone la “storicizzazione” in un processo che aveva inevitabilmente coinvolto anche la parte avversa. Parlare di un “Popolo alla macchia”, per parafrasare il titolo di un celebre libro, equivalse spesso ad un’assoluzione collettiva di tutta una nazione rispetto al regime fascista ed, in particolar modo, al suo tragico epilogo repubblicano. Una delle conseguenze dirette di questa impostazione è stata la rinuncia ideologica all’utilizzo della categoria di “guerra civile” per spiegare quanto era successo in quei venti mesi.
Fortunatamente, soprattutto grazie agli studi di Claudio Pavone, dai primi anni Novanta questo tabu è finalmente venuto meno e le ricerche, tanto sulla resistenza quanto sulla RSI, hanno potuto conoscere una “nuova giovinezza”; nel 1999, solo per fare un esempio, videro la luce sia lo studio di Luigi Ganapini sul regime di Salò (La Repubblica delle camicie nere, Garzanti, Milano 1999) sia quello di Dianella Gagliani sulle Brigate nere (Brigate nere. Mussolini e la militarizzazione del Partito fascista repubblicano, Bollati Boringhieri, Torino 1999). In tal senso anche uno studio come quello che stiamo ora presentando sarebbe stato impensabile senza l’utilizzo di una categoria come quella di guerra civile; un tipo di conflitto che oltre ad essere l’espressione massima della violenza politica è, al contempo, il contenitore di una moltitudine di tipi diversi di violenze. Una pluralità che emerge con forza da questo bel lavoro di Toni Rovatti. Ma andiamo con ordine.
Dopo una breve ma necessaria introduzione sulla natura delle fonti che sono state utilizzate (e sulle quali ritorneremo più avanti), nella prima parte del suo studio l’a. ci propone una convincente divisione in quattro “tempi” della violenza fascista. A una prima fase che va dal settembre del 1943 al gennaio del 1944 e che corrisponde al tentativo mussoliniano di dar forma a uno Stato in grado di assumere il monopolio della violenza (risale a questo periodo la formazione della Guardia Nazionale Repubblicana), ne seguì una seconda (febbraio 1944 – maggio 1944) nella quale si registrò una radicalizzazione delle violenze contro i civili e un aumento del fenomeno delle diserzioni dalle forze militari saoline cui rispose un atteggiamento spesso ambiguo delle autorità: “La contraddittoria condotta istituzionale”, scrive Rovatti, “testimonia come il governo di Salò si destreggi in questi mesi fra la volontà di arginare le diserzioni per mezzo di rappresaglie e sanzioni di carattere giudiziario ed economico e il bisogno di non spingere all’aperta ostilità le popolazioni sotto il suo controllo con un uso indiscriminato della forza” [p. 47]. E ancora: “La percezione di un potere parziale dello Stato fascista e di una sua sostanziale latitanza istituzionale, indotta dalla contraddittorietà delle direttive emanate dal governo della RSI e dall’accettazione della condotta di guerra assunta dall’alleato occupante ai danni della popolazione, determina alla periferia un aumento dell’uso indiscriminato della forza a fini personali: gli uomini di Mussolini appaiono, infatti, sempre più coscienti del proprio affrancato potere individuale sul territorio locale” [p. 55].
La terza fase (giugno 1944 – settembre 1944) coincise con la liberazione dell’Italia centrale, con l’assestamento del fronte sulla Linea Gotica e con l’estate del terrore, quando le violenze contro civili e partigiani, in un momento di forte crisi per le forze nazi-fasciste, si fecero particolarmente efferate. Lo sfondamento della Linea Gustav (4 giugno 1944) inaugurò una rapida involuzione della capacità di mantenere l’ordine pubblico all’interno della RSI: “la situazione caotica e disorganica”, scrive Rovatti, “prodotta dall’ormai assodato evolversi della guerra a proprio svantaggio determina precipitose fughe, vuoti di potere e pericolose situazioni d’anarchia all’interno delle quali i singoli combattenti in armi e le formazioni più fanatiche della RSI appaiono liberi di dar sfogo alla propria vibrata violenza” [p. 62]. Non fu quindi un caso che proprio in questi mesi aumentassero le denunce presentate al Ministero dell’Interno saloino relative all’uso sistematico della tortura adottato da gruppi autonomi o da uffici investigativi speciali. La quarta ed ultima fase è quella che si apre con l’autunno del 1944 e che si concluderà con la liberazione dell’intera penisola nell’aprile dell’anno successivo. In questi mesi gli ultimi disperati tentativi mussoliniani di tornare ad un controllo dell’esercizio della violenza (il 28 ottobre viene emesso un secondo “Bando del perdono”, pp. 95-97) coincisero con il crollo definitivo del suo esperimento repubblicano e con una ulteriore brutalizzazione delle pratiche violente. Durante l’inverno del 1944, “le componenti fasciste estremiste dimostrano la volontà di rinfocolare un’aggressiva offensiva contro i sovversivi e coloro che gli prestano assistenza” [p. 99] e fu in questi mesi che la violenza esercitata dai fascisti assunse le modalità più tipiche di un conflitto civile. L’autrice rileva come nonostante la violenza si presentasse ormai “gratuita e generalizzata”, persistesse da parte delle autorità della Repubblica di Salò “la necessità di dissimulare agli occhi dell’opinione pubblica le azioni più efferate ed esplicitamente arbitrarie” [p. 104]; un tentativo destinato all’insuccesso giacché il crollo definitivo della primavera portò con sé una nuova ondata di violenze incontrollate. Un elemento con il quale le autorità fasciste si dovettero costantemente confrontare, e che è ben presente nell’analisi di Rovatti, è la presenza, ingombrante, dell’alleato germanico che si determinò come una sorta di terzo polo nel già complicato rapporto tra autorità saoline e bande autonome. L’autrice, pur non entrando mai nella “questione tedesca” in quanto tale non si esime neanche, in nessuna parte della sua analisi, dal trattare con accuratezza questo peculiare rapporto a tre.
Nella seconda ed ultima parte del suo saggio [pp. 115 – 157, capitoli tre e quattro], Rovatti si addentra in una convincente analisi complessiva del fenomeno prima e in un tentativo di fornici un modello di comprensione di queste violenze poi. Il principale elemento che emerge è la costante tensione, mai risolta, nelle dinamiche locali fra i comportamenti adottati dalle autorità periferiche e le azioni perseguite dai singoli combattenti o dai gruppi autonomi. In virtù di tali considerazioni l’a. rileva giustamente come l’immagine, tradizionalmente cara alla pubblicistica neo-fascista, della RSI quale estremo baluardo nella difesa della popolazione civile italiana sia in realtà una costruzione posteriore e posticcia: “di fatto”, scrive sempre Rovatti, “Mussolini accetta il comportamento senza regole e vincoli adottato dalle più spietate polizie speciali, lo tollera finché esso gli appare funzionale a ristabilire un potere fascista in ambito locale; e solo quando il livello d’illegalità e della sopraffazione diviene conclamato e trabordante, controproducente per la stessa Repubblica sociale, si adopera per disciplinare l’azione” [p. 121]. In sintesi non si può che concordare con Rovatti quando afferma che: “all’interno del fascismo repubblicano si contrappongono due forme distinte d’espressione della violenza: un’efferata repressione di Stato formalmente vincolata entro i confini della legalità; e, in parallelo, un’incontrollata brutalità privata, adottata in principio dalle sole formazioni autonome, in seguito anche dai corpi armati regolari” [p. 129]. Poche righe che possono però essere lette come un’efficace sintesi di quei venti mesi.
Crediamo che il principale punto di forza del lavoro di Toni Rovatti risieda nelle fonti utilizzate e, soprattutto, nell’eccellente capacità dell’a. di “leggerle” e di interpretarle. Il corpus documentale principale di Leoni Vegetariani è composto dai telegrammi e dalle relazioni giunte al Duce dalla periferia della RSI ed inoltrategli sia attraverso la Direzione generale di Pubblica sicurezza del ministero dell’interno, sia dal Capo di polizia: “l’insieme di questa variegata documentazione ha il pregio di offrire una visione complessiva della violenza fascista durante gli anni della Repubblica di Salò: le informative inviate al Duce, pur essendo documenti redatti dalle stesse autorità fasciste sulla propria condotta, propongono un’immagine della violenza espressa dalla RSI ai danni della popolazione civile meno frammentaria rispetto alle lucide, ma disorganiche schegge di realtà ricostruite nei processi per collaborazionismo celebrati in Italia a conclusione del conflitto” [p. 21]. L’affresco sulle violenze fasciste che Toni Rovatti è stata in grado di restituirci è ancora più interessante proprio in virtù dell’origine stessa di questo corpus documentale; ne nasce infatti una narrazione che, senza filtri esterni, parte direttamente dal cuore nero dell’ultimo fascismo, una narrazione capace di andare dritta alla drammaticità di quei venti mesi di storia italiana.
L’importanza del lavoro che abbiamo tra le mani ci viene confermata da un semplice dato empirico: se proviamo ad uscire dal ristretto ambito nazionale e consideriamo le più recenti acquisizioni storiografiche internazionali troviamo come Toni Rovatti si inserisce coerentemente in un trend transnazionale che in questo decennio sta dando alla luce i suoi frutti più maturi. Il caso della guerra civile spagnola è in tal senso rappresentativo: dopo i lunghi decenni franchisti durante i quali l’accesso agli archivi iberici era precluso ai ricercatori e le pubblicazioni portavano spesso le firme di ispanisti stranieri, dalla transizione alla democrazia ed in particolare dai primi anni Duemila quello della violenza è divento un tema centrale delle ricerche su quel conflitto. Studi come quelli di José Luis Ledesma sulle violenze rivoluzionarie nella retroguardia repubblicana o come quelli di Javier Rodrigo sui campi d’internamento franchisti durante e dopo la guerra civile sono solo due dei tanti esempi possibili. Non crediamo inoltre sia causale che i dati biografici di questi studiosi spagnoli e quelli di Toni Rovatti sostanzialmente combacino: in Italia e in Spagna, ma più in generale in tutta Europa, sono le ultime generazioni di storici, quelle che stanno giungendo alla piena maturità scientifica in questo primo scorcio del XXI secolo a dimostrarsi in grado di confrontarsi con temi quale le guerre civili o le violenze ad essere legate senza sentire più il peso di vecchie, e spesso ingombranti, scuole storiografiche.
Avviandoci alle conclusioni non possiamo non rilevare come questo bel lavoro di Rovatti sia importante anche perché in grado d’offrici una convincente chiave di accesso a quello che negli ultimi anni è diventato il palcoscenico preferito di una pubblicistica tanto fortunata quanto lontana da una seria ricerca storiografica: quello delle violenze successive all’aprile del 1945 o, per usare un’espressione molto in voga, quello del “sangue dei vinti”. Capire cosa abbia rappresentato nelle vite di molti abitanti dell’Italia centro settentrionale una così brutale violenza fascista (non solo esercitata ma anche proclamata e rappresentata) è fondamentale per qualsiasi ricercatore desideroso di capire quei processi “lunghi” che portarono alle incontestabili violenze dell’immediato dopoguerra. Leoni Vegetariani è quindi un’ottima ricerca e più che essere considerato un punto d’arrivo gli studiosi dovrebbero prenderlo come uno stimolo a proseguire verso nuove indagini, a scavalcare quello steccato rappresentato dall’aprile del 1945 e a vedere cosa vi si nasconda dietro.