Il libro di Federico Goddi prende in esame una vicenda specifica e ancora poco conosciuta della Seconda guerra mondiale: l’occupazione militare italiana di una piccola regione dei Balcani, il Montenegro, iniziata il 17 aprile del 1941 e conclusasi l’8 settembre del 1943. Nei quattro capitoli che compongono il lavoro si riflettono anche le diverse fasi dell’occupazione.
Nel primo capitolo, l’autore si sofferma sui caratteri dell’imperialismo fascista e sul ruolo ricoperto dal Montenegro nel tentativo, da parte del regime, di creare un “nuovo ordine” economico e politico in quell’area. Considerato dai tedeschi un fronte “periferico”, il territorio montenegrino fu conquistato facilmente dalle truppe italiane e a metà aprile del 1941 fu creato da Mussolini un Commissariato civile per il Montenegro con compiti amministrativi. Come spiega Goddi, la situazione rimase tranquilla almeno fino all’estate, quando scoppiò una rivolta (in luglio) che segnò un punto di non ritorno nella politica di occupazione. Obiettivo delle autorità italiane era stato fin dall’inizio quello di imporre un nuovo ordine economico sul territorio conquistato, a vantaggio degli interessi italiani e rincorrendo una cosiddetta “impossibile autarchia” del Montenegro. Il progetto fallì a causa di scelte strategiche inadeguate, come quella di voler favorire la parte albanese dell’Impero, che andarono a peggiorare una situazione già precaria da un punto di vista economico. L’autore afferma, infatti: “il tentativo fascista di rendere autosufficiente il Montenegro, chiaramente a scopi di guerra, si scontrò presto con la dura realtà, ma fu un’inopinata scelta di politica confinaria a gettare il Paese in una jacquerie: la cessione delle saline di Dulcigno all’Albania nel quadro dei rapporti della comunità imperiale” (pp. 46-47).
Il secondo capitolo è dedicato alla rivolta del luglio ’41, che scoppiò soprattutto per “il disagio economico” (p. 100), frutto della politica imperiale fascista, e si legò “incidentalmente” al contesto bellico in evoluzione, caratterizzato dall’attacco nazista all’Unione sovietica: per Goddi, cioè, la rivolta di luglio non può essere spiegata solo come una reazione alla campagna iniziata da Hitler a giugno contro i sovietici. I militari italiani furono colti di sorpresa da quella che ben presto assunse i connotati di una insurrezione popolare (alla quale arrivarono a partecipare circa 30.000 uomini). Dalle province vicine confluirono in Montenegro molti reparti italiani che attuarono una violenta repressione e sedarono definitivamente la rivolta a dicembre. Ebbe così inizio un nuovo periodo di occupazione: l’autorità civile e militare passò nelle mani di un Governatorato comandato dal generale Pirzio Biroli, che cominciò ad attuare una politica fatta di rappresaglie e deportazioni nei confronti dei civili, indirizzata a controllare un movimento locale di resistenza sempre più in crescita.
Alla “normalizzazione” e alle caratteristiche della nuova fase di occupazione è dedicato il terzo capitolo. Una normalizzazione che pare iniziare prima della ben nota circolare 3C diramata dal generale Mario Roatta nel marzo del 1942, punto di riferimento imprescindibile per capire la politica di repressione e di guerra antipartigiana nei Balcani: in Montenegro, “la controguerriglia assunse invece caratteri definiti tra l’estate e l’autunno” del 1941 (p. 139) e se ne fecero interpreti le divisioni dislocate in quel territorio per reprimere la rivolta iniziata in estate. Le violente pratiche di occupazione messe in atto dagli italiani sono analizzate in riferimento anche a quanto già sperimentato in precedenza in campo coloniale e la continuità tra le tecniche di antiguerriglia viene legata alla presenza di generali e comandanti che di quelle campagne africane erano stati protagonisti: Pirzio Biroli, Giovanni Esposito e Silvio Bonini, furono loro a portare, come afferma Goddi, l’“Africa in Montenegro”. In particolare è la Divisione Venezia, comandata da Bonini, a incarnare quel salto di qualità nella politica di normalizzazione e nella violenza della repressione ai danni della popolazione civile, con rappresaglie, deportazione e internamento in campi di concentramento.
Il quarto capitolo, infine, analizza l’ultimo anno di occupazione in Montenegro, caratterizzato dalla collaborazione tra le forze italiane e le formazioni di nazionalisti cetnici, un’alleanza che “nasceva dal bisogno di creare un fronte unico contro il comunismo, che aggregasse tutte le energie del Montenegro” (p. 214), così da trovare anche un consenso tra le popolazioni locali dopo un periodo di dura repressione. In queste pagine vengono ricostruite le complesse trattative e iniziative che portarono a questa collaborazione, tratto fondamentale di una dura fase di guerra civile contro i partigiani di Tito. Il cosiddetto “condominio italo-cetnico” fu tutt’altro che pacifico: fu attraversato infatti da moltissimi problemi e dissidi, primo fra tutti un “equivoco costante e consapevole” riguardo la subordinazione ai comandi militari italiani e gli obiettivi che ognuna delle parti si poneva. L’equilibrio creatosi per pochi mesi in Montenegro si ruppe all’inizio del ’43, a causa delle evoluzioni belliche sfavorevoli al fronte dell’Asse e sempre più messo in crisi dall’intervento diretto delle autorità tedesche anche in quell’area. Il libro si conclude con l’armistizio dell’8 settembre, a seguito del quale molti di quei militari italiani, protagonisti fino al giorno prima delle operazioni di antiguerriglia partigiana, quasi per ironia della sorte, si trovarono a formare, o meglio scelsero di formare, una Divisione partigiana che combatté i tedeschi con l’Esercito di liberazione jugoslavo di Tito (la Divisione Italiana Partigiana Garibaldi).
L’autore si lascia definitivamente (e finalmente) alle spalle i condizionamenti e le polemiche legati alla definizione degli “Italiani brava gente”: le vicende sono ricostruite e reinterpretate senza preconcetti ma sulla base della ricca documentazione presa in esame. La narrazione conduce il lettore nella complessità degli eventi e nelle ambiguità del periodo di occupazione, dalle scelte economiche e militari sbagliate agli eccessi di violenza, non tralasciando però l’aspetto “umano” della guerra impersonato dai soldati che combatterono in quei mesi e in quel contesto. Nelle pagine emerge soprattutto la rigorosa e ampia ricerca effettuata su fondi archivistici politici, militari ed economici, in Italia, in Serbia e in Montenegro, nel corso degli anni di dottorato e in quelli successivi – qualità della ricerca già evidente nella sua tesi di dottorato, che nel 2014 ha ricevuto il “Premio Nicola Gallerano”. Lo studio approfondito delle carte inedite del Tribunale militare sorto nella città di Cettigne permette all’autore di osservare i diversi livelli di repressione e “giustizia” militare attuata in quel territorio, ufficiale e non, diretta dall’alto o lasciata all’iniziativa del singolo comandante. Particolarmente interessante risulta essere l’attenzione riservata agli uomini e all’attività di una divisione militare “qualunque” (secondo la definizione di Giorgio Rochat), la Messina, dislocata in Montenegro allo scoppio della rivolta di luglio. Molto accurato, originale e ben documentato è il paragrafo dedicato al sistema di internamento messo in piedi dalle autorità italiane e notevole risulta essere la sezione fotografica a metà volume, che propone rare e inedite immagini sul periodo di occupazione. L’autore, infine, è attento a non tralasciare alcuni aspetti fondamentali della vicenda: la descrizione del territorio e le sue caratteristiche geografiche e morfologiche, così importanti nelle operazioni di guerra; la storia e la cultura locale; la composizione sociale, etnica e linguistica della popolazione.
La scelta di approfondire il caso di un piccolo territorio, considerato a lungo periferico nel contesto degli eventi dell’occupazione nazifascista nei Balcani, si rivela quindi fruttuosa e ricca di spunti interpretativi originali, che ci aiutano a comprendere meglio, in termini più generali, le pratiche di controllo e repressione delle forze militari italiane nei territori occupati durante la Seconda guerra mondiale.