Fame e autorganizzazione alle origini del socialismo italiano (1879-1898)

1. Premessa.

Si vuole puntare l’obiettivo sul ruolo politico (concreto e simbolico) che la questione della fame ha avuto nell’esperienza del socialismo italiano delle origini, partendo dal presupposto che nella seconda metà dell’800 la tradizionale imputazione del pauperismo soprattutto a cause naturali (carestie) lasciò il posto alla denuncia di sempre più precisi rapporti economici e responsabilità sociali: gli «affamatori del popolo», ovverosia il contrasto tra lo «scheletrico proletario» e il «panciuto capitalista», reso celebre da tante rappresentazioni iconografiche. La fame, insomma, come punto iniziale ed elementare per la individuazione della ineguaglianza sociale e dello sfruttamento. In questo quadro, non mancheranno alcuni cenni alle conseguenze (le rivolte) e alle risposte organizzate (la cooperazione).

Si prenderanno in considerazione i discorsi sugli «affamati» e, quando possibile, anche le parole degli stessi «affamati», concentrandosi unicamente sugli anni 80 e 90 del XIX secolo. Questo taglio cronologico, così breve, richiede alcune spiegazioni.

Bisogna tenere a mente, in primo luogo, che fino a tutti gli anni 70 il nascente movimento socialista conservò un approccio settario e lontano dalla vita concreta degli strati popolari. Fu il decennio dei tentativi insurrezionali, ispirati da Bakunin e realizzati dalla prima – straordinaria – generazione del socialismo italiano, i cui principali esponenti furono Carlo Cafiero (1846), Andrea Costa (1851) ed Errico Malatesta (1853).

Solamente alla fine degli anni 70, e precisamente nel 1879, la complessa «svolta» costiana apriva una nuova stagione di lotta, basata sulla scelta di abbandonare la clandestinità e di puntare invece sullo sviluppo delle autonomie sociali e territoriali[1]. Nascevano, intorno ad Andrea Costa e a Osvaldo Gnocchi-Viani, il Partito socialista rivoluzionario di Romagna (1881) e il Partito operaio (1882), come due contenitori di realtà associative e di comitati elettorali con insediamento regionale (rispettivamente in Emilia-Romagna e in Lombardia). Negli anni successivi anche l’anarchismo di Malatesta, pur rimanendo seccamente ostile alla partecipazione al voto, imboccherà la via di un «socialismo anarchico» più attento al lavoro organizzativo, educativo e propagandistico che non a violente spallate o a repentini gesti dimostrativi, distinguendosi così dalle correnti «individualiste» e terroristiche. Come si vedrà, il metodo malatestiano diede risultati notevoli, in termini di partecipazione “dal basso”, durante le agitazioni di Ancona del 1897-98[2].

Gli anni 80 e 90 furono, dunque, un periodo estremamente intenso e significativo per l’autorganizzazione operaia e popolare che si trovò sostanzialmente sola e, quindi, unica protagonista di fronte alla «questione sociale» (fame, miseria, disoccupazione, emigrazione).

A partire dalla fine del XIX secolo e soprattutto con la svolta del 1900 sarebbe cambiato nuovamente lo scenario, con i primi consistenti interventi legislativi dello Stato liberale nella sfera sociale (sono del 1898, ad esempio, le leggi che riguardano l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e l’istituzione della Cassa nazionale di previdenza per la vecchiaia e l’invalidità degli operai) e con la crescita di apparati politici e sindacali nazionali in grado di portare, nel quadro della mediazione giolittiana, le rivendicazioni del lavoro a tutti i livelli istituzionali.

 

 

2. Il primo operaismo milanese.

Nelle elezioni politiche del 1882 Andrea Costa venne eletto in Parlamento, primo deputato socialista. Non furono solo gli anarchici (tranne Cafiero e pochi altri) a sollevarono un putiferio contro di lui, ma anche i giovani del Circolo operaio di Milano, tra i quali «la funzione parlamentare era poco conosciuta e meno stimata», ingaggiarono una accanita discussione pro e contro[3]. Si trattava del gruppo di Costantino Lazzari, il quale per chiarirsi le idee sull’affaire Costa prese la bicicletta e, pedalando attraverso le Alpi (San Gottardo, poi il cantone Vallese e Losanna), andò a parlare direttamente con il grande geografo anarchico Elisée Reclus, a Clarens sul lago di Ginevra. Un colloquio che ebbe paradossalmente l’effetto di allontanarlo dalle disquisizioni teoriche per avvicinarlo ancora di più ai bisogni reali e concreti della vita proletaria. Con queste parole, infatti, si congedava da Reclus, dopo una giornata intera passata nel suo studio:

 

Se la vita del mondo fosse tutta racchiusa in questa bella villetta sulle rive del lago, coperta di rose, ridente di luce, di azzurro e di verde, le vaste teorie politiche potrebbero avere ragione; ma essa si svolge nei grandi centri di popolazione, dove si fatica e si soffre nelle tribolazioni e nella miseria ed io vado là per aiutare fraternamente il lavoro pratico, preparatore dell’ideale futuro[4].

 

Con gli amici del Circolo operaio, Lazzari iniziò nel luglio 1883 la pubblicazione settimanale del “Fascio operaio”. Lo scopo era quello di percorrere la via della politica socialista distinguendosi nel modo più netto dai democratici borghesi del “Secolo”. Il gruppo di Lazzari era formato da operai, «nel più ristretto senso della parola», cioè lavoratori manuali. Il loro giornale, che si pubblicò per sette anni, si apriva con un manifesto che non lasciava dubbi su quali fossero le urgenze della lotta:

 

Il frutto delle nostre fatiche passa quasi per intero ad aumentare continuamente le ricchezze dei capitalisti, i quali, facendo un immorale monopolio dei beni della natura e dei portati della scienza, ne corrispondono in guisa che, sia per la sfrenata concorrenza delle macchine, per malattia, per semplici questioni personali o per molteplici altre cause, noi, i veri produttori, siamo messi in condizioni tanto precarie da non poter sfuggire alle odiose strette della più squallida miseria.

Ed allora?

Allora i patimenti fisici assorbono tutte le nostre facoltà e s’impongono ai sentimenti più nobili e più morali: allora la fame che più non ragiona ne incalza sul triplice pendio dell’ospedale, del carcere o del suicidio.

La coscienza pertanto delle nostre misere condizioni, il timore che possa un giorno mancare il pane ai nostri figli e il fardello pesante di quotidiane fatiche ne ha stretti in Lega allo scopo di difendere, mediante l’unione delle forze operaie, i nostri diritti e per ottenere quei miglioramenti che ci spettano come lavoratori, come cittadini, come uomini[5].

 

Il loro intellettuale di riferimento era Osvaldo Gnocchi-Viani, che pensava a una struttura federale del movimento operaio articolata nelle varie leghe di resistenza, sulla base di una forte autonomia del sociale. Un vero e proprio partito operaio che potesse essere interprete delle «sofferenze economico-morali dei lavoratori» ed espressione dell’idea che «l’operaio deve fare da sé»[6].

“Il Fascio operaio” fu il primo giornale italiano a occuparsi con continuità delle questioni del lavoro, adottando il punto di vista dei lavoratori stessi. Grazie a una fitta rete di corrispondenti, non si limitò a monitorare la situazione milanese e lombarda, ma dedicò vivo interesse anche ai lavoratori di altre parti d’Italia. Il n. 2 del 5 agosto 1883 recensiva il volume di Benoît Malon, Manuel d’économie sociale, nel quale si tracciava una netta differenza tra economia politica ed economia sociale: la prima era la scienza che difendeva la causa dei signori, mentre nella seconda trovava espressione la causa dei poveri. In un’ottica tutt’altro che statalista o assistenzialista, si rifuggiva l’intervento del potere pubblico nel campo degli interessi operai e si riteneva, invece, che tutto ciò che riflettesse questi interessi e questi bisogni dovesse essere trattato e regolato spontaneamente e liberamente dagli operai e dalle loro associazioni.

Anche le cronache locali, che occupano buona parte del giornale, suggerivano l’immagine del lavoratore che si emancipa da sé. Una immagine spesso esemplare, nella quale la «fame» rappresentava non solo l’iniquità sociale da combattere, ma anche una scelta estrema di dignità da parte del lavoratore, che non negava le proprie convinzioni e la propria appartenenza politica in cambio di un tozzo di pane. Nel numero del 19-20 gennaio 1894 una corrispondenza da Gallarate raccontava della discriminazione subita da un povero operaio appartenente alla Società dei Figli del lavoro, che bisognoso di soccorso si era rivolto alla confraternita di San Vincenzo, dove gli era stato chiesto di abbandonare, in cambio del sussidio, la militanza operaista. «Sentendosi offeso nella sua dignità d’uomo, con vera fierezza d’animo rispose loro: “Morirò piuttosto di fame, ma non abbandonerò mai la mia Società”, e ciò detto se ne andò».

 

 

3. Lotte agrarie nella Valle Padana.

I conflitti che scossero la bassa pianura Padana intorno alla metà degli anni 80, suscitando emozione nell’opinione pubblica di tutto il paese, contribuirono in modo decisivo a dare una originale e persistente impronta rurale al socialismo italiano. I moti de la boje! traevano origine dalla crisi agraria che colpì con inaudita violenza l’intera regione dalla fine degli anni 70 e dai primi anni 80, spalancando un abisso di miseria e di disperazione. L’inchiesta Jacini portava alla luce proprio in quegli anni le condizioni di estrema miseria dei contadini, mentre una intensa collaborazione di Andrea Costa al “Messaggero” di Roma contribuì a sollevare a livello nazionale la situazione dei ceti rurali.

I primi fuochi della protesta si accesero a Gonzaga, nel Mantovano, durante la primavera del 1882. In vista delle prime elezioni politiche a suffragio allargato, si era costituito un comitato elettorale chiamato “Pane e lavoro” che riuniva repubblicani e socialisti ed ebbe parte importante negli scioperi di quei mesi. L’agitazione iniziò a Moglia di Gonzaga fra i lavoratori delle risaie che incrociarono le braccia per un aumento della paga giornaliera e si riunirono in più di mille nella piazza del paese al grido di «Evviva il suffragio universale», «Vogliamo pane e lavoro». Una più grande dimostrazione si ebbe il mattino dopo nella piazza di Gonzaga. Caricati da una compagnia dell’esercito, i manifestanti non si mossero. Vennero arrestati in 18, tra cui quattro componenti del comitato elettorale e lo stesso Alcibiade Moneta, candidato alle elezioni. Lo sciopero di estese ad altri comuni del Mantovano e si propagò nel Ferrarese (Bondeno), nel Reggiano (Bagnolo) e poi ancora nel Polesine, nel Cremonese, nel Bresciano e in provincia di Parma. Ma gran parte della geografia delle lotte agrarie è ancora da ricostruire[7].

Tra i risaioli del Mantovano la parola d’ordine era: nessuno lavori a meno di lire 2,50 al giorno. Vennero affissi manifesti, uno dei quali a Casale, frazione di Roncoferraro, nel quale di leggeva:

 

Alto là il sottoscritto essendo di passaggio avvisa tutto il popolo specialmente i contadini che pur troppo come la vedete tutti la miseria regna in abbondanza. Ed è tempo di finirla. Il contadino al giorno d’oggi per vivere non può travagliare a meno di italiane lire 2,50 al giorno. Perché colla paga che danno i signori in questi tempi non è sufficiente per vivere. Perché il povero ci occorre la polenta capo necessario, sale, olio, legna, vestito, affitto di casa, minestra e tanti altri arnesi ecc. Domando poi se con una lira al giorno si può far questo, specialmente poi quelli che si trovano carichi di figli senza aver da loro nessun soccorso come si deve fare? Anche i poveri esercenti sono stanchi di darci l’occorrente a credito perché anche loro anno i suoi pesi da sostenere e colla paga che danno al giorno d’oggi non si può pagare i debiti perché tante volte anche in tempo di bella stagione siamo in lungo la strada come tanti vagabondi e i nostri figli a casa piangono di fame[8].

 

Durante il processo per direttissima contro i componenti del circolo “Pane e lavoro”, uno degli imputati, l’ex garibaldino Ettore Zanotti, leader del movimento dei lavoratori gonzaghese e redattore del giornale socialista “La Favilla”, si difese insistendo sullo stretto collegamento tra l’attività elettorale (che doveva ritenersi lecita) e quella di resistenza. Vale la pena citare la ricostruzione che egli fece in aula dei propri comizi: «Dissi che col mandare deputati [in Parlamento], avremo leggi che ci faranno avere non centesimi 60, ma lire 2,50». Ricevette, per questo, lettere anonime che lo minacciavano: «I signori di Moglia volevano obbligare me, uomo del popolo, ex ufficiale di Garibaldi, a desistere di patrocinare la causa dei proletari». E ancora: «Dissi che se si aspettava il governo odierno a venire in nostro aiuto noi, i nostri figli, e i figli dei figli, creperanno tutti di fame». Anche dalla tribuna dell’aula giudiziaria esplose un «Bravo!».

Per cercare di evitare l’accusa di istigazione, che incombeva quasi certa su di lui, Zanotti affermò di aver cercato di dissuadere i contadini dallo sciopero. Ma davanti alla sua prudenza, essi avevano risposto: «La fame è troppo grande, non vogliamo morire»[9].

Si stava diffondendo in quei borghi rurali una produzione popolare di lettere aperte e avvisi, nei quali si rispecchiavano le spontanee rivendicazioni e tutta la disperazione dei contadini. Un esempio tra i più significativi è la lettera anonima inviata a Stanghella nel 1882 al sindaco e ai possidenti locali:

 

Sono indicato a fargli conoscere ai signori di Stanghella che i legia bene che qui al presente i poveri del Comune si trovano senza lavori e senza mangiare dunque a lori signori i varda bene di pensare qualche cosa perché altrimenti succederà di quello che lori non crederà noi così miseri dimandiamo da […] lavorare [e] non ce né e dunque cosa pensate voi volete proprio che moriamo né pensate bene che al presente siamo stufi proprio finiti se non pensate qualche cosa voi signori tutti pensiamo pensiamo noi tutti poveri […] pensate più presto che sia possibile di pensare qualche cosa che noi siamo stufi perché non pole andare più avanti altro […] se non vedremo che con questo aviso non i lo badarà lo faremo badare noi noi e questo i bogna legerlo tutti quanti sono i signori[10].

 

Nel corso del 1882, tra i contadini di Gonzaga e dei dintorni, l’urgenza di miglioramenti salariati dettati dalla fame riuscì a intrecciarsi con una nuova consapevolezza: l’importanza di avere propri rappresentanti nelle istituzioni. L’intervento dell’esercito aveva reso evidente a tutti che il governo, altrimenti, non li avrebbe mai difesi. La reazione continuò a inasprirsi: arrivarono gli arresti in massa, lunghi mesi di prigionia, la volontà da parte del potere pubblico di sgominare le associazioni dei lavoratori.

Al grande processo ai contadini mantovani, che si celebrò nel capoluogo tra il febbraio e il marzo del 1886, si presentarono alla sbarra 87 imputati. La mobilitazione della stampa democratica, dal “Secolo” al “Messaggero”, raggiunse in quei giorni il suo culmine. In una delle sue corrispondenze al quotidiano di Roma, Andrea Costa restituiva una immagine indelebile dello scontro di classe:

 

È strano e pittoresco l’aspetto che offrono gli scanni degli accusati. Toltine il Sartori, il Siliprandi, il Delbon, il Melesi, il Nizzoli e l’Avigni, tutti gli altri sono contadini, veri lavoratori dei campi, giornalieri, la maggior parte, dalle facce abbronzate e magre, dai muscoli forti, vestiti di fustagno, che sanno appena, e taluno non sa, leggere e scrivere […]. Singolare contrasto col banco degli accusati offre quello dei giurati: chi dottore, chi marchese, possidenti la maggior parte, ben vestiti e fiorenti. Accusati e giurati: banco contro banco: classe contro classe: ricchi e poveri[11].

 

Il movimento contadino usciva da la boje! fiaccato e disperso. Se è vero che, negli anni successivi, cominciarono a radicarsi nel Mantovano le prime cooperative agricole, come alternativa allo sfruttamento capitalistico e come garanzia per i lavoratori di una adeguata partecipazione ai prodotti, tuttavia fu impressionante l’incremento del numero delle partenze verso l’America di gente che era «costretta a emigrare dalla fame, dopo essersi dibattuta inutilmente, per anni, sotto l’artiglio della miseria»[12].

La volontà di fuoruscire dalla miseria per una vita migliore fu il motivo, che a partire dagli anni 80 e fino alla Prima guerra mondiale, spinse quasi venti milioni d’italiani (all’incirca la metà della nostra popolazione di allora) a lasciare la penisola: la più efficace testimonianza delle promesse non mantenute e dei problemi non risolti dai governi dell’Italia unita[13].

A ben vedere, le istanze sollevate dal movimento contadino avevano, al di là dei motivi immediati, un significato più alto che Renato Zangheri[14] ha descritto come «una prova della partecipazione dei contadini alla vita della nazione, anche solo nella forma di una negoziazione dei termini della loro sopravvivenza». Dopo qualche anno una nuova prova negativa si sarebbe verificata all’altro capo dell’Italia, in Sicilia, ma «le porte della nazione resteranno a lungo chiuse alla maggioranza degli italiani».

 

 

4. I fasci siciliani.

Il primo fascio dei lavoratori venne fondato a Messina nel dicembre 1888, su stimolo di Andrea Costa che aveva tenuto un comizio in città poche settimane prima, consigliando ai lavoratori riuniti nelle società operaie messinesi (in particolare, conciapelli, meccanici, falegnami e cocchieri) di porsi su un terreno d’azione affine a quello del Partito operaio[15]. Questa preziosa funzione di «ponte» tra Nord e Sud svolta da Costa venne rafforzata l’anno successivo da un appello di Osvaldo Gnocchi-Viani, Agli operai siciliani, pubblicato dal “Fascio operaio” del 29 giugno 1890. Da quel momento in avanti le forme di autorganizzazione e di autodifesa dei lavoratori siciliani conobbero alcuni anni di grande sviluppo.

Si trattava di una base sociale ampia e complessa, quella rappresentata dai fasci, che raccoglievano società di mutuo soccorso, associazioni di resistenza, cooperative e circoli politici. La delusione per l’esito del Risorgimento si era radicata diffusamente tra democratici e repubblicani e proprio alcuni di loro avevano costituito le prime reclute dell’Internazionale. Non si era realizzato il Risorgimento/rivoluzione sperato dalle correnti politiche più avanzate, ma qualcosa di simile a una dilatazione del Regno di Savoia, e proprio su queste contraddizioni, rimaste aperte, era nato nei decenni postunitari il movimento anarchico e socialista.

Una nota di maggiore uniformità si impose dall’esterno nel 1892, quando seguendo le direttive provenienti dal congresso di Genova (e dalla leadership di Turati), Rosario Garibaldi Bosco sancì l’esclusione degli anarchici dal fascio di Palermo, da lui presieduto, incaricandosi di coordinare le forze politiche e le associazioni economiche dell’isola per porle sotto la direzione unitaria di un partito che si voleva omogeneo e coeso, intorno a una dottrina (la scuola marxista) e al programma nazionale.

Ma l’effettiva diffusione sul territorio del Partito socialista dei lavoratori italiani (dal 1895 PSI) si dovette misurare, faticosamente, con le condizioni degli strati popolari. Ogni giorno a Palermo le maestranze in cerca di lavoro si radunavano nella piazza dei Quattro Canti, formando lo spettacolo impressionante di una «folla di affamati» che si riversava intorno agli imprenditori e ai proprietari che vi si recavano per formare le «ciurme» occorrenti per i lavori in corso[16]. Di fronte a queste immagini appaiono inadeguate e meramente strumentali alcune direttive erga omnes pubblicate dall’organo ufficiale del PSI, “Lotta di classe”. Nel numero del 1° maggio 1893, un importante redattore del giornale, Angiolo Cabrini, spronava il nuovo partito a impegnarsi nella propaganda verso il proletariato agricolo, cioè verso quei «poveri lavoratori rimasti estranei a tutto quanto vi è nel mondo di innovatore e di intellettuale e che presentano nell’insieme l’aspetto di una razza inferiore». Cabrini aggiungeva alcune indicazioni a uso dei propagandisti e ricordava, in particolare, la necessità di tradurre le idee di giustizia e di trasformazione sociale in similitudini e opposizioni di immediata comprensione:

 

Basta dir loro che amiamo i loro bambini, che ci si rompe il cuore di fronte al martirio esecrante cui sono sottoposte quelle povere creature, le quali sono nate con gli stessi diritti dei figli dei loro padroni; rappresentando e colorendo vivamente il doloroso contrasto fra i cenci e gli abitini lindi e profumati, fra i visini patiti e quelli rosei, fra le stalle e tiepidi salotti[17].

 

Tornano in mente le perplessità di Andrea Costa di fronte al tornante del 92, la preoccupazione di evitare lacerazioni che potessero indebolire il movimento di emancipazione popolare. La famiglia socialista, pur rissosa, doveva rimanere unita, perché l’unità – secondo le parole del leader socialista imolese – «non sta solo nell’uniformità». Fin dagli anni 80 Costa aveva espresso una visione federale ed eclettica della sinistra, un grande partito capace di tener conto delle diversità regionali e di ogni gradazione del socialismo. La componente parlamentare avrebbe potuto operare all’interno delle istituzioni, mentre quella libertaria e di base avrebbe garantito un contatto costante con la «questione sociale». In definitiva, era proprio nella diversità e nel pluralismo che Costa vedeva una garanzia di coerenza ed efficacia per il socialismo italiano[18].

Comunque, i suggerimenti di Cabrini vennero fatti propri da Rosario Garibaldi Bosco, che stava organizzando in quelle settimane il primo congresso socialista siciliano e che in una riunione del fascio palermitano illustrò, alla lettera, le nuove direttive sulla propaganda nelle campagne[19]. Del resto, pochi mesi prima, nel gennaio 1893 la stessa “Lotta di classe” aveva avuto il merito di veicolare una grande sottoscrizione pubblica a sostegno dei contadini di Caltavuturo (Palermo), vittime di una strage compiuta dai militari.

Il congresso socialista siciliano si svolse, quella primavera, mentre Palermo era occupata da 2000 soldati e 800 carabinieri. Erano presenti delegazioni di quasi 90 fasci provenienti da tutta l’isola, ognuno con una storia e con un bagaglio culturale e politico diverso. È davvero il caso di rimarcare che negli anni intorno al 1892 la Sicilia fu un laboratorio interessantissimo per osservare il confronto tra le istanze di autogestione del movimento operaio, da una parte, e le tendenze uniformanti del partito nazionale, dall’altra.

Tutto questo fino a quando non sopraggiunse la reazione crispina, che dichiarò sciolti i fasci il 3 gennaio 1894 e, disponendo lo stato d’assedio, causò la morte di un centinaio di dimostranti. Dopo la boje! nel Mantovano non si era mai vista in Italia una agitazione contadina così ampia come quella siciliana.

 

5. I moti del 1898 ad Ancona.

Uno degli studi più interessanti sul 1898 rimane quello di Napoleone Colajanni, una sorta di instant book[20]. Nell’intento di ricollegare gli avvenimenti di quell’anno ai moti del 93 e del 94, l’autore poneva l’accento sul ruolo di avanguardia nuovamente ricoperto dalla sua terra: «è la Sicilia, dove sono i centri del dolore, che suona la diana: a Modica ed a Troina si tumultua per fame e rinnovansi le stragi del 1893-94»[21].

In realtà, il 1898 fu estremamente policentrico e una delle espressioni più originali delle scosse politiche e sociali di quell’anno si ebbe nelle Marche. Precisamente ad Ancona, che si sollevò nelle giornate del 17-20 gennaio sotto l’impulso di Errico Malatesta, del suo giornale “L’Agitazione”, che tirava una media di settemila copie, e di un movimento «socialista anarchico» (per usare l’espressione dello stesso Malatesta) quanto mai aderente alla realtà e ai bisogni della vita popolare[22].

Iniziò con i portuali di Ancona quel movimento contro il rincaro del pane e contro le politiche governative che avrebbe coinvolto ben presto tutta la penisola e che sarebbe culminato nei fatti di Milano del maggio 1898. Le prime manifestazioni contro il caropane e la miseria ebbero luogo proprio nella città marchigiana,

 

dove si muovevano gli anarchici della scuola di Malatesta, e dove la reazione abbozzò e anticipò, seppure in forme modeste e non appariscenti, quello stato d’assedio che si ripeterà poi a Milano, a Firenze, a Napoli[23].

 

Il «ritorno al popolo» propugnato da Malatesta, in polemica con le tendenze dell’anarchismo individualista e anti-organizzatore, si misurò con la concretezza della fame. In particolare, pur rimanendo ferma la condanna dell’elettoralismo del Partito socialista, si ammetteva la necessità di mescolarsi a tutti movimenti operai e popolari, stimolando e sostenendo forme associative di cooperazione e resistenza, a partire dalla preesistente base mutualistica:

 

A noi basta che gli operai imparino a far da loro, che riconoscano l’antagonismo d’interessi che v’è tra loro ed i padroni, e che cerchino, nell’unione e nella resistenza sotto tutte le forme il mezzo di uscire dalla stato di degradazione e di miseria in cui si trovano[24].

 

Il gruppo dell’“Agitazione”, dunque, aprì il dialogo con le altre correnti politiche popolari e la protesta contro l’aumento del prezzo del pane fu in questo senso un collante straordinario:

 

Certamente – osservò Santarelli –, stando alle tradizioni orali del movimento popolare anconetano, il contatto diuturno con la gente del porto, con una popolazione semplice, ma vivace e battagliera, contribuì almeno in parte a determinare non solo l’orientamento del giornale ma anche i sentimenti di Errico Malatesta, allora nel pieno vigore degli anni[25].

 

Fin dall’estate 1897 la mobilitazione di anarchici, repubblicani e socialisti aveva assunto carattere unitario. La grave situazione alimentare della popolazione era una conseguenza non solo della scarsità del raccolto, ma anche dell’aumentato dazio protettivo. In un altro importante testo coevo, il socialista Walter Mocchi chiarì come gli agrari

 

forti dell’appoggio del presidente del consiglio, di Rudinì, uno dei principali latifondisti della Sicilia, e del ministro delle finanze Branca, rappresentante dei grandi proprietari della Basilicata, avevano per decreto regio e senza il previo consenso della Camera, strappato un nuovo aumento alla protezione au prix de revient del grano, di altri cinquanta centesimi, tal che il dazio di entrata, a benefizio loro e contro gli interessi del maggior numero, era salito a L. 7,50 l’ettolitro[26].

 

In occasione del comizio convocato dalle sinistre il 21 settembre 1897 ad Ancona fu l’oratore anarchico Adelmo Smorti, stretto collaboratore di Malatesta, a orientare il malcontento dei lavoratori verso il quadro politico nazionale:

 

I fornai, i padroni s’intende, sono capitalisti e sfruttatori… ma essi sono i più piccoli fra gli sfruttatori, e noi non dobbiamo permettere che gli sfruttatori grossi restino al sicuro riversando sui piccoli il peso dell’ira popolare… Il governo incominci con l’abolire i dazi di entrata, che già da soli autorizzano i produttori nazionali ad elevare di 8 lire al quintale il prezzo del grano[27].

 

Così la propaganda socialista ed anarchica si incrociava e penetrava sempre più nei quartieri popolari: è in questi rioni che sabato 15 gennaio, di fronte a un nuovo aumento del prezzo del pane (da 45 a 50 centesimi al chilo) crebbe e si organizzò il fermento. La domenica passò apparentemente tranquilla, ma il lunedì un folto stuolo di donne, cui facevano da sfondo uomini e ragazzi, si presentò in piazza del Comune, chiedendo l’abolizione del dazio sulla farina e la diminuzione del prezzo del pane. Iniziarono, così, i moti del pane ad Ancona e nelle Marche.

Un volantino diffuso dalla sezione anconetana del PSI indirizzava la protesta dei lavoratori contro «coloro che hanno il ventre pieno, e non sanno o non pensano che il rincaro del pane per molti significa la fame». E se i «ben pasciuti» si facevano scudo con il cattivo raccolto dell’anno precedente, trovandovi una giustificazione, la protesta socialista ricordava le possibilità produttive che si sarebbero dischiuse con sistemi più razionali di coltivazione; ricordava il grano americano a buon prezzo che avrebbe permesso «lo sfamarsi a tanti poveri lavoratori»; ricordava soprattutto la compiacenza del governo verso i proprietari fondiari e la conseguente applicazione dei dazi doganali, oltre agli odiosi dazi di consumo imposti a livello municipale:

 

Il prezzo del pane potrebbe diminuire assai se il Municipio non imponesse sulla farina un dazio di consumo di L. 3 il quintale. È questo dazio una imposta sulla miseria e sulla fame, che i consiglieri comunali hanno sempre mantenuta ed accresciuta, perché per essi sono i poveri che devono pagare le imposte per i ricchi. Ma il governo ed il municipio sono in mano dei rappresentanti dei capitalisti ed è naturale che questi facciano gl’interessi della loro classe: almeno fino a quando i lavoratori vorranno da se stessi amministrare le proprie cose. I lavoratori considerino queste nostre osservazioni, e se le troveranno giuste uniscano la loro voce a quella dei socialisti, per protestare contro questi sistemi che affamano il popolo. Essi reclamino, da quelli che ne hanno il dovere, che si ponga rimedio a questo stato di cose, per il quale migliaia e migliaia di poveri vedono diminuirsi e mancare l’unico mezzo di sostentamento. È il pane dello stomaco che dovete reclamare, o compagni lavoratori, perché esso vi dia anche il pane della mente, e renda più facile, per la coscienza risvegliata, la nostra completa emancipazione[28].

 

Malatesta, da parte sua, richiamava il concetto di bene comune («bene generale») e la necessità di creare un punto di incontro, la necessità di fare da ponte, tra chi sa e chi non sa per scongiurare il pericolo che si radicasse nel popolo la rassegnazione: «Gli affamatori, gli strozzini di tutte le specie van dicendo che il pane è caro perché manca il grano, e che quindi non v’è che da rassegnarsi – e sulla rassegnazione del popolo speculano ed ammassan ricchezze. A noi, a tutti coloro che amano il bene generale, il compito d’illuminare il popolo e di suscitarne la volontà e l’energia»[29].

Sulle parole di Malatesta è possibile concludere, osservando che se in quella fase storica (gli anni 80 e 90) il popolo delle città e delle campagne italiane cominciò a sollevarsi faticosamente dalla clandestinità e dalla fame, fino alla luce delle battaglie civili, non lo si dovette a chi rappresentava l’ordine e l’autorità dello Stato, ma alla capacità di «fare società» che riuscì a esprimere il movimento operaio e socialista. Ciò che continua a sorprendere è la creatività di quel «movimento istituente» (fatto di reti associative politiche, culturali, economiche e sindacali), a cui si deve ancora attingere – secondo le parole di Pino Ferraris[30] – per trovare una strada di emancipazione dal presente che si incardini su due parole-chiave: memoria e immaginazione.

 

 


[1] Una «svolta», o meglio una transizione, nella quale pesarono, da una parte, il dibattitto allora in corso sull’allargamento del suffragio elettorale (una riforma annunciata dalla Sinistra di Depretis fin dal 1876, destinata ad aprire nuove prospettive per il movimento di emancipazione) e, dall’altra, l’evoluzione dei movimenti socialisti europei, in particolare quello belga e quello francese, che stavano ormai imboccando la strada di un socialismo democratico aperto al confronto elettorale. Per un quadro sulla letteratura in materia, C. De Maria, Riflessioni sulla storiografia, in P. Mita (a cura di), Carte e libri di Andrea Costa, Imola, La Mandragora, 2010, pp. 661-671.

[2] Un prezioso strumento di indagine è costituito ora dalla raccolta E. Malatesta, “Un lavoro lungo e paziente…”. Il socialismo anarchico dell’Agitazione, 1897-1898, a cura di D. Turcato, saggio introduttivo di R. Giulianelli, Milano – Ragusa, Zero in Condotta – La Fiaccola, 2011.

[3] C. Lazzari, Memorie, a cura di A. Schiavi, in “Movimento operaio”, 1952, n. 4, pp. 598-633, p. 611.

[4] Ivi, pp. 611-612.

[5] Ivi, pp. 612-613.

[6] O. Gnocchi-Viani, Il partito operaio italiano.1882-1885, Milano, Tip. Stefani e Pizzi, 1885, pp. 101-105.

[7] Cfr. R. Zangheri, Storia del socialismo italiano: Volume secondo, Dalle prime lotte nella Valle Padana ai fasci siciliani, Torino, Einaudi, 1997, pp. 69 e ss.

[8] Cit. in L. Gualtieri, Pane e lavoro. Lotta bracciantile e socialismo nel distretto di Gonzaga (1882), Mantova, Istituto per la storia del movimento di liberazione nel Mantovano, 1984, pp. 79-80.

[9] Da un resoconto del processo, cit. ivi, p. 167

[10] Cit. in E. Franzina, La grande emigrazione. L’esodo dei rurali dal Veneto durante il secolo XIX, Venezia, Marsilio, 1976, pp. 198-199.

[11] L’articolo di Costa, pubblicato nel “Messaggero” del 20 febbraio 1886, è largamente citato in Zangheri, Storia del socialismo italiano: Volume secondo, Dalle prime lotte nella Valle Padana ai fasci siciliani, cit., p. 119.

[12] E. De Amicis, Sull’Oceano, Milano, Treves, 1889 (ora Milano, Garzanti, 1996, p. 32).

[13] Si vedano, a questo proposito, le riflessioni svolte da Giuliano Amato in “Il Sole 24 Ore”, 8.8.2010, p. 1 (nella rubrica Passato & Futuro).

[14] Storia del socialismo italiano: Volume secondo, Dalle prime lotte nella Valle Padana ai fasci siciliani, cit., p. 140.

[15] Zangheri, Storia del socialismo italiano: Volume secondo, Dalle prime lotte nella Valle Padana ai fasci siciliani, cit., pp. 517-518.

[16] Sono parole di Rosario Garibaldi Bosco citate da S.F. Romano, Storia dei Fasci siciliani, Bari, Laterza, 1959, p. 64.

[17] L’articolo di Cabrini è trascritto in una informativa della Questura di Palermo indirizzata al prefetto di quella provincia in data 5 maggio 1893. Il documento è riportato in appendice al saggio di S.F. Romano, Rosario Garibaldi Bosco e i suoi “Appunti” del carcere, in “Movimento operaio”, 1952, n. 6, pp. 893-953 (in part., pp. 938-939).

[18] Cfr. De Maria, Riflessioni sulla storiografia, cit., p. 671; Zangheri, Storia del socialismo italiano: Volume secondo, Dalle prime lotte nella Valle Padana ai fasci siciliani, cit., pp. 470-494. Si vedano, anche, nel Volume primo, Dalla rivoluzione francese a Andrea Costa, Torino, Einaudi, 1993, pp. 499-529.

[19] Cfr. Romano, Rosario Garibaldi Bosco e i suoi “Appunti” del carcere, cit., pp. 893-896, 904.

[20] N. Colajanni, L’Italia nel 1898. Tumulti e reazione, Milano, Società editrice lombarda, 1898.

[21] Si cita dall’edizione del 1951 (Milano, Universale economica), p. 23 e s.

[22] Cfr. E. Santarelli, L’azione di Errico Malatesta e i moti del 1898 ad Ancona, in “Movimento operaio”, 1954, n. 2, pp. 248-274. Il più importante lavoro complessivo sulla biografia politica di Malatesta è quello di G. Berti, Errico Malatesta e il movimento anarchico italiano e internazionale. 1872-1932, Milano, FrancoAngeli, 2003.

[23] Santarelli, L’azione di Errico Malatesta e i moti del 1898 ad Ancona, cit., p. 249.

[24] L’anarchismo nel movimento operaio, in “L’Agitazione”, 7 ottobre 1897, cit. ivi, p. 258.

[25] Ivi, p. 260.

[26] W. Mocchi, I moti italiani del 1898. Lo stato d’assedio a Napoli e le sue conseguenze, Napoli, Tip. Muca, 1901, p. 14.

[27] Santarelli, L’azione di Errico Malatesta e i moti del 1898 ad Ancona, cit., p. 261.

[28] Il volantino è trascritto per intero nell’appendice documentaria, ivi, pp. 273-274.

[29] E. Malatesta, Il prezzo del pane, in “L’Agitazione”, 12 agosto 1897, ora in Id., “Un lavoro lungo e paziente…”. Il socialismo anarchico dell’Agitazione, 1897-1898, cit., p. 182.

[30] P. Ferraris, Ieri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente, Roma, Edizioni dell’Asino, 2011. Si veda, anche, la recensione di G. Fofi pubblicata da “l’Unità” del 25 settembre 2011, a p. 21.

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