Recensione: Gli aguzzini di Mimo. Storie di ordinario collaborazionismo (1943-45)

Il ricco studio di Luciano Allegra – professore di storia moderna presso l’Università di Torino e esperto di storia criminale – si presenta come un suggestivo e dettagliato affresco storico sul fascismo repubblicano, tratteggiato attraverso la ricostruzione del case study relativo alla realtà torinese. Incentrato sull’analisi di un tema difficile e respingente, quale quello della violenza collaborazionista, possiede il pregio di saper coinvolgere anche un pubblico non specialistico attraverso un abile uso del registro narrativo. Il saggio si apre, infatti, con quello che appare al lettore un artificio letterario in bilico fra immaginazione e realtà. All’origine del libro, ci racconta l’autore nell’introduzione, vi è il causale ritrovamento nel doppiofondo di un sécrétaire di una villa di campagna di un fascio di carte appartenute a Francesco Picardi (detto Mimo), giovane partigiano barbaramente seviziato da una squadra di polizia fascista e infine trucidato in piazza Vittorio nella notte del 14 febbraio 1945.

A partire da questi documenti riemersi fortunosamente dal passato, la ricerca si dirama a raggiera in centri concentrici via via sempre più ampi. Con rigore scientifico da biografo nel primo capitolo Allegra ripercorre la vita del protagonista alla ricerca di una spiegazione per la sua macabra uccisione: ne ricostruisce l’infanzia all’interno di una famiglia benestante e cosmopolita, ma non antifascista; e il successivo avvicinamento alla lotta clandestina all’interno delle formazioni di Giustizia e Libertà di Torino. Il secondo capitolo è, invece, interamente dedicato all’analisi delle modalità della sua uccisione e alla descrizione dei suoi assassini. La genesi dell’omicidio di Mimo e la fisionomia dei singoli esecutori materiali appartenenti alla formazione RAP (Raggruppamento Antipartigiani) – reparto nato pochi mesi prima in seno al X gruppo artiglieria speciale del Raggruppamento arditi ufficiali, di stanza alla caserma di corso Valdocco – sono ricostruiti nel dettaglio attraverso la ricca documentazione giudiziaria relativa al processo dibattuto a Torino nel 1947. Siamo di fronte ad una delle tante squadre con compiti di repressione del nemico interno proliferate nella Repubblica sociale italiana fra il 1943 e il 1945, ma la fotografia si presenta inquietante: non tanto una formazione di militi fanaticamente ideologizzati intrisi del mito originario dello squadrismo, ma piuttosto un gruppo raccogliticcio e disomogeneo sia per età che per provenienza, nel quale vigono anarchia e sopruso. Un manipolo di uomini responsabili di numerosi furti e depredazioni a fini di lucro personale, unito dalla partecipazione comune a sevizie e atti di violenza di ogni tipo e inebriato da un’euforia di sangue senza vincoli, che trae forza dalla consapevolezza di un assoluto stato d’impunità. “Il tutto non avveniva per volontà di qualche scheggia impazzita dell’apparato repressivo, ma alla luce del sole, in caserma e per la strada, nella totale indifferenza, o con la totale connivenza degli organismi preposti alla repressione e al controllo sociale” [p.75].

Nella seconda parte del testo – di cui fanno parte i capitoli I veri avvoltoi, Ladri e spie, Mattatoi – l’autore allarga la prospettiva della sua analisi all’intera situazione della città di Torino, dove si muovono in contemporanea diverse anime fasciste. Ci offre una carrellata di personaggi – donne e uomini, civili e militari – imputati nei processi collaborazionismo dibattuti nell’immediato dopoguerra davanti Corte Straordinaria d’Assise di Torino. Il risultato è un mosaico di singole immagini che riflettono nitidamente il “monopolio dell’illegalità” [p.97] incarnato dalle istituzioni e degli uomini della Repubblica sociale italiana. Un sottobosco di delazione fuori e dentro gli apparati repressivi, nel quale anche la partecipazione alla persecuzione antisemita a fianco degli alleati nazisti diviene occasione di arricchimento privato o di avanzamento sociale, prima che affermazione dell’ideologia razziale. “Paradossalmente, perfino chi non aveva nutrito spiccate simpatie per il fascismo non si lasciò sfuggire l’occasione di approfittare della condizione di annichilimento giuridico e personale nella quale gli ebrei erano stati ridotti” [p.99].

Attraverso un approccio microanalitico, Allegra fa emergere una rappresentazione della RSI incardinata sulla pervasività dell’apparato spionistico; principale arma di prevenzione contro il nemico interno ereditata dal precedente regime, ma amplificata nelle sue derivazioni informali e occasionali dalla struttura policentrica del nuovo governo repubblicano. Un sistema repressivo che incentiva la delazione anche femminile, quale strumento per acquisire vantaggi economici (premi in denaro e promesse di avanzamento di carriera) o per la messa in atto di ogni tipo di vendetta privata. L’autore attraverso la narrazione di percorsi individuali ci mostra come la RSI sfrutti il contesto di guerra civile, divenuto punto di ricaduta di molteplici linee conflittuali sociali e politiche di lunga durata, per enfatizzare lo scontro e l’incisività della violenza espressa dai suoi aderenti. Le sevizie, le minacce, le esecuzioni sommarie si stagliano come elementi caratteristici di un modello poliziesco generalizzato incentrato sull’anarchia operativa e decisionale, sul lucro personale e sulla pratica del tradimento. Un’orgia di violenza di cui appare percepibile il compiacimento [p. 172] e che accomuna la dimensione quotidiana degli appartenenti alle diverse formazioni, in cui è frammentato il poliedrico apparato repressivo fascista; siano essi uomini, donne o adolescenti.

Di fronte ad un’estrema eterogeneità nella composizione dei reparti, determinata da un reclutamento motivato da ragioni ideali, interessi economici o di costrizione, la pratica condivisa e reiterata di comportamenti criminali a scopo di lucro (quale l’abitudine a incamerare direttamente le spoglie del nemico) diviene funzionale a “bilanciare l’efferatezza della repressione delle forze partigiane e stornare l’attenzione dei subordinati dalla frequente gratuità delle operazioni” [p. 220]. Con l’effetto di determinare una progressiva rottura delle inibizioni e una degenerazione corale verso l’imbarbarimento, che raggiunge il suo apice nel vilipendio del cadavere del nemico.

La terza e ultima parte del testo amplifica ulteriormente lo spettro di analisi sulla violenza del fascismo repubblicano. A partire dalla considerazione di come i collaborazionisti siano in Italia rapidamente espulsi prima dall’immaginario collettivo, quindi dalla memoria storica, l’autore ripercorre i nodi principali del fallimento della giustizia speciale per le sanzioni contro il fascismo; e, attraverso l’analisi sistematica e quantitativa dei dati contenuti nelle carte processuali torinesi, ci propone un ritratto di gruppo sui condannati per collaborazionismo. Una tipologia dei criminali che pone l’accento su alcuni tratti caratterizzanti: la continuità d’adesione tra Pnf e Prf; la matrice interclassista; le esperienze belliche e la militanza violenta pregresse; la reiterazione e diversificazione dei reati; e un’età media fra i trenta e i quarant’anni, che infrange il mito di un fascismo repubblicano incardinato sull’entusiasmo e la veemenza dei giovani traditi dal precedente regime. In parallelo l’autore costruisce una tipologia dei delitti, che pone in posizione preminente i crimini a scopo di lucro, le delazioni e le torture, riflettendo forse in forma eccessivamente acritica la configurazione proposta nell’immediato dopoguerra dalla giustizia per la punizione dei delitti fascisti. Spostando l’asse della riflessione sulla memoria dei vinti, nel capitolo seguente ci mostra come la costruzione di una narrazione incentrata sul concetto di onore, sulla non scelta e l’esito obbligato di una generazione cresciuta sotto il regime, contribuisca a opacizzare la natura della violenza fascista attraverso un meccanismo di auto deresponsabilizzazione; che attribuisce coerenza a posteriori ai percorsi individuali e alimenta una falsa immagine di discontinuità fra regime e RSI, permettendo di evadere dall’analisi autocritica delle colpe.

Nell’epilogo Allegra ci offre l’ultima e forse la più stimolante suggestione del testo, riconoscendo nei simboli di particolare disumanità dei fascismo repubblicano – individuati nella partecipazione attiva e sadica alla violenza agita, nell’enfatica rivendicazione del diritto di vita e di morte sul diverso – le tracce di una violenza preincubata; collegata al tardivo o parziale sviluppo nella storia nazionale di un meccanismo di autocostrizione della pulsione aggressiva e di una conseguente diffusa propensione a violare le regole della convivenza civile. “Una violenza antica, fatta di abitudine a menare le mani e di prevaricazione sul più debole, di propensione ad approfittare degli altri in qualunque occasione e di soddisfacimento amorale di ogni interesse privato su quello pubblico, di misoginia e maschilismo bieco, di porosità dei confini fra lecito e illecito, di inclinazione a starsene sempre dietro le quinte, pronti a ghermire la vittima, più che la preda” [p. 323].

L’intensità, il radicamento e la capillarità del fenomeno criminale non rappresentano quindi secondo l’autore una specificità del fascismo repubblicano, ma sono messi a nudo dalla RSI alimentando un carattere retrivo già presente nel contesto sociale e culturale nazionale. Seppur valorizzato attraverso la legittimazione politica della violenza per consapevole scelta.

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