“Senza un protettore, un padre, un padrino, un patrono,
tu non sei nulla… La Massoneria, l’Opus Dei, l’Istituto
Gramsci, la Famiglia Marchigiana, il Circolo della Caccia,
i Terziari Francescani, l’Associazione Mutilati, gli Orfani
di Guerra… Ci vuole un protettore!”
(da “L’ora di religione”)
Percorrere la filmografia di Marco Bellocchio, dall’esordio con “I pugni in tasca” (1965) fino a “Sorelle mai “(2010), significa, da una parte, fare i conti con il complicato percorso che ogni essere umano compie per superare i modelli familiari (come urla crudamente il protagonista di “L’ora di religione” , bisogna mandare a quel paese madri e padri), dall’altra, confrontarsi con il potere e la violenza delle istituzioni (la famiglia ne “I pugni in tasca”, il collegio in “Nel nome del padre”, l’ambiente militare in “Marcia trionfale”, il mondo dell’informazione in “Sbatti il mostro in prima pagina”, il manicomio in “Matti da slegare” e in “Vincere”, e così via).Non si tratta, come vorrebbe il personaggio di “I pugni in tasca”, di eliminare materialmente l’altro quanto di realizzare, nel profondo, la separazione, per approdare ad una propria personalità, irriducibile a condizionamenti familiari e a schemi sociali prestabiliti. E’ contro di essi, contro l’ipocrisia, l’aridità, l’anaffettività del mondo borghese che “il mite giustiziere dell’Appenino” – così Moravia definì, a suo tempo, Alessandro di “I pugni in tasca”- indirizza la sua ribellione, fatta solo di odio e, per questo, destinata a fallire. Anche “Nel nome del padre” (1971) si apre, significativamente, con le immagini di un ragazzo, Angelo, che picchia il proprio genitore. La rivolta continua, poi, all’interno di un collegio religioso: siamo nel 1958, anno della morte di Pio XII, il più autoritario dei papi moderni, e Angelo mette in atto un piano di derisione contro il vicerettore Corazza, provocando, prima, un’agitazione degli inservienti e, poi, una rivolta dei convittori. In realtà, Angelo, per primo, desidererebbe padri o maestri in grado di imporsi per autorevolezza e virtù ma la realtà è, purtroppo, ben diversa e alla frustrazione si reagisce, ancora una volta, con la violenza. Ne “Il gabbiano” (1977), tratto dall’omonimo dramma di Cechov e ambientato da Bellocchio nelle campagne del Veneto, Costantin, il protagonista, desidera diventare scrittore per conquistare l’attrice Nina che, invece, segue in città un maturo letterato. Come ha scritto N. Ginzburg, il regista piacentino “si è avvicinato alla commedia di Cechov con profondo amore ma vi ha cercato tutto ciò che era affine al suo mondo e l’ha tradotto nel suo latino”. In altri termini, “Il gabbiano”, più che un film o più che del teatro filmato, è un esercizio di riscrittura di un dramma su un tema profondamente “bellocchiano”: il nuovo stuprato dal vecchio, i giovani dissanguati dai vecchi, i figli schiacciati dai padri o, peggio ancora, dalla loro assenza. La mancanza della figura paterna segna,per esempio, Giulia, la protagonista di “Diavolo in corpo” (1986): la ragazza in questione è la figlia di un capitano di polizia, vittima di un attentato terroristico, ed è fidanzata con un pentito, Giacomo Puccini, che sta per uscire di prigione. Giulia fa, casualmente, la conoscenza di Andrea, un giovane studente, e tra i due nasce un rapporto amoroso, seppur contrastato e, per certi versi, morboso. Si ripropone sempre la stessa problematica, in ambito individuale e sociale: non ci sono padri ai quali appoggiarsi e con i quali allearsi per misurarsi in maniera costruttiva e non traumatica con il mondo esterno. Senza un padre che assolva la funzione di garante, il desiderio, sessuale e non, si configura come una minaccia destabilizzante per l’equilibrio del soggetto. E’ per questo che Sandra, il personaggio femminile di “La condanna” (1990), dopo aver fatto, più o meno spontaneamente, l’amore con un seducente architetto nel chiuso di un museo, lo denuncia,in seguito, per violenza carnale. Come viene detto espressamente nel film, l’”inferiorità” della donna consiste, nella fattispecie, nel non avere il coraggio del proprio desiderio. Il protagonista di “Il sogno della farfalla” (1994) , un attore di nome Massimo, non parla dall’età di 14 anni, se non recitando i classici, e adotta, per comunicare, il linguaggio fisico, corporeo che ogni neonato utilizza originariamente con la madre. Il rifiuto del linguaggio verbale costituisce, qui, l’ennesima negazione della figura paterna: a differenza dei personaggi dei film precedenti, Massimo ha un genitore fin troppo ingombrante, del quale viene negata l’identità, proprio attraverso il silenzio. La riconciliazione con il padre, incarnazione dell’autorità, avviene, finalmente, ne “Il principe di Homburg” (1996): la figura paterna, incarnata dall’Elettore, non svolge più un ruolo repressivo, di controllo, bensì diventa l’espressione di chi sa padroneggiare, senza esserne schiacciato, la propria passionalità. L’Elettore non castra o reprime, il Principe, ma gli insegna che non è nei sogni che si conquista la gloria e che, per trionfare, sono necessari calma e dominio di sé. La legge, ora, non è più qualcosa di estraneo, passivamente subìto, bensì una vera e propria necessità interiore. Il padre, ritrovato e interiorizzato, rende possibile il recupero anche della parte positiva del femminile: non esistono soltanto donne incapaci di allattare e stringere a sé i propri figli ma anche donne coraggiose, solari, saggiamente incoscienti, come “La balia” del film del 1999. Per una madre che si sente rifiutata dal proprio piccolo e gli rinfaccia di non darle nulla, ce n’è un’altra che, durante il temporale, abbraccia allegramente il bambino, cantandogli “Ridi amor mio”. La felice scoperta di una figura femminile “altra” rispetto alla madre di “I pugni in tasca” implica anche una ridefinizione del rapporto uomo-donna: Ernesto Picciafuoco, il protagonista del film successivo, “L’ora di religione” (2002), è pronto ad affrontare, con successo, il rischio di innamorarsi, di essere padre, di essere felicemente e orgogliosamente diverso rispetto a chi lo circonda. Picciafuoco, al contrario di ciò che afferma provocatoriamente il Conte Bulla, non appartiene né al partito dei santificatori né a quello dei saponificatori: ha, invece, preso le distanze, sia dal fratello disperatamente bestemmiatore, sia dal fratello terrorista pentito, per approdare ad una personale visione del mondo in cui ciò che fa ammalare e va eliminato è soltanto la bruttezza. La rabbia e l’ambivalenza di chi, come il personaggio di “I pugni in tasca” vive chiuso in una sorta di prigione, da cui non sa o non vuole uscire, sono definitivamente superate per lasciar spazio a quello che era già lo stato d’animo di “Il principe di Homburg”: “Ma questo mondo è così bello!”. “Addio del passato” (2002), documentario realizzato da Bellocchio per la commemorazione del centenario di Verdi e presentato a Venezia nella sezione “Nuovi Territori”, già dal titolo sancisce ulteriormente la fine di una fase, per aprirne un’altra, più matura ma ugualmente proficua e interessante. “Buongiorno notte” (2003) è il film del nuovo corso: la vicenda umana di Moro e dei suoi carcerieri racconta il fallimento di una generazione e della sua utopia estrema e violenta e, contemporaneamente, ribadisce la necessità, individuale e collettiva, di recuperare valori e riferimenti,politici e familiari. Al riguardo, lo stesso Bellocchio, ha spiegato: “Nell’immaginare il personaggio di Moro, spesso mi è venuta in mente la figura di mio padre che è morto quando ero piccolo. Mio padre aveva qualcosa in comune con Moro, anche lui era un uomo molto tenace, un conservatore che, però, aveva un’umanità profonda , che ho cancellato con la sua morte”. Ne “Il regista di matrimoni” (2006), la raffigurazione del potere ufficiale con il quale si scontra il regista Franco Elica è il Principe che tutto vede, tutto controlla e che incrimina il protagonista per la sua condotta sessuale con la figlia Bona. Quest’ultima incarna la ragazza salvifica (“Io cerco una Principessa, non l’ho mai vista, ma so che esiste: è prigioniera qui?” -dice Elica), capace di riportare alla vita il protagonista e, insieme, il potere dirompente dell’esistenza stessa, con le sue sorprese e possibilità di mutamenti. Tutti i temi fin qui delineati confluiscono in “Vincere” (2009), film su Mussolini ma anche, come sempre, opera contro ogni forma di autorità, familiare e sociale, che reprime gli individui, impedendone il libero sviluppo. Bellocchio e i suoi personaggi si rivelano, per l’ennesima volta, in rivolta. Come dice Camus, un uomo in rivolta “è un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice sì, fin dal suo primo muoversi”. Parole queste che, al femminile, ben si adattano alla tragica figura di Ida Dalser: anche lei, in fondo, con la sua lotta, irriducibile e disperata, per rivendicare il ruolo di moglie legittima del Duce e madre del piccolo Benito Albino, non fa che affermare il primato della coerenza e il valore del proprio sentire. Costi quel che costi.