Nell’arco degli ultimi venticinque anni il fenomeno migratorio è stato indubbiamente uno dei processi sociali che ha maggiormente contribuito a trasformare la composizione demografica della popolazione italiana producendo effetti di movimento e di riposizionamento globale delle persone, le cui cause risalgono a fattori principalmente economici, politici e sociali.
Anche in Italia, la complessità delle implicazioni e la portata generalizzante della questione, ha indotto storici e studiosi di scienze sociali, ma anche l’opinione pubblica a considerare l’immigrazione come una sorta di iperfenomeno che, in un tempo relativamente breve, ha permeato tutti gli spazi della sfera collettiva e individuale dell’esistenza, accelerando visibilmente quel processo di mutazione del tessuto socio-antropologico del nostro paese.
Uno degli effetti sociali più rilevanti dell’immigrazione è dovuto all’innesto di nuove esperienze e differenti stili di vita all’interno di un territorio come quello italiano, culturalmente poco preparato al confronto con le alterità. Il risultato più evidente di un tale processo è stato quello di accentuare, e a volte provocare, nel rinnovato e dinamico corpo sociale atteggiamenti oscillanti tra posizioni di forte conflittualità e impegnative pratiche di interazione. Da un punto di vista strettamente politico, in Italia la posizione prevalente sull’immigrazione è stata viziata fin da subito da una sorta di errore originario di valutazione che è stato quello di pensare il flusso migratorio quale causa di problemi sociali, come elemento di squilibrio in una società socialmente e culturalmente omogenea. In tema di immigrazione molte persone sono cadute nell’equivoco di confondere la spia con la causa del problema, attribuendo al fenomeno la responsabilità del peggioramento delle condizioni di vita degli italiani, anziché vederlo come manifestazione effettuale di profonde carenze della spesa sociale derivanti da decennali politiche di riduzione del Welfare. A seguito di questo errore di partenza si è andata via via affermando una politica che ha portato alla messa in atto di provvedimenti legali sempre più restrittivi nei confronti degli immigrati, trascurando così completamente la possibilità di governarlo con interventi economici ad hoc e politiche culturali di inclusione che avrebbero potuto favorire l’inserimento dei nuovi cittadini come una risorsa in grado di portare benefici a tutta la popolazione residente.
Considerandolo quale humus culturale in grado di permeare i più diversi linguaggi della comunicazione, il fenomeno migratorio va considerato come un processo irreversibile in grado di segnare un’epoca, un tratto distintivo che ha permeato di sé un passaggio storico e che ha generato nuove forme di attenzione verso culture ed esperienze diverse da quelle stratificate da una tradizione italiana prevalentemente regionale.
Nell’opinione comune si è consolidato così il concetto di società multietnica per dare senso a una realtà e a una fase storica che in poco più di due decenni ha visto nascere e crescere una seconda generazione di ragazzi figli di cittadini stranieri nati in Italia, diventata parte integrante di una nuova e più composita italianità.
Nella memoria collettiva di questo paese, relativamente al fenomeno dell’immigrazione, a partire dalla fine degli anni Ottanta ci sono alcuni avvenimenti che hanno ben sintetizzato il passaggio dell’Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione e hanno messo in rilievo rapporto causa-effetto tra la crescita della presenza straniera in Italia e il montare del sentimento di odio razziale di parte della popolazione autoctona. Uno di questi avvenimenti cardine è stato senza dubbio l’assassinio di Jerry Maslo avvenuto la notte del 24 agosto 1989 in un casolare abbandonato nei pressi di Villa Literno. Maslo era un giovane pastore sudafricano con un elevato livello di istruzione che, giunto in Italia da pochi mesi, in mancanza di occasioni migliori, lavorava in nero nel casertano come bracciante per la raccolta di pomodori.
L’omicidio di Jerry Maslo, compiuto da alcuni giovani abitanti della zona destò all’epoca forte indignazione nell’opinione pubblica, tanto che nei giorni seguenti vi furono ampi servizi e inchieste televisive, articoli di giornali dai quali si aveva la consapevolezza che nel paese stava montando un preoccupante sentimento di razzismo. Quell’omicidio segnò inoltre un punto di inizio nel rapporto tra immigrazione e media, i quali fino a quel momento l’avevano sostanzialmente ignorata.
Un rapporto prevalentemente improntato al racconto di cronaca, che ancora oggi è viziato da superficialità e da scarsa conoscenza della questione.
Altro avvenimento chiave nella storia dell’immigrazione in Italia è l’arrivo della nave Vlora nel porto di Bari nell’agosto del 1991, un evento che sintetizza la prima immigrazione albanese in Italia subito dopo il crollo del regime di Hoxha e che è entrato a far parte della memoria collettiva di tanti italiani come momento di incontro con la diversità, ma anche di avvio di una politica restrittiva ed emergenziale dei flussi migratori. L’approdo della Vlora è un avvenimento che, a distanza di oltre venticinque anni, resta ancora vivo nella mente di tanti cittadini italiani e albanesi. Le immagini televisive, girate allora e trasmesse dalle televisioni in diverse zone del pianeta, riviste oggi si rivelano utili a documentare in maniera efficace la fine di un’epoca e ad esemplificare gli effetti della caduta del muro di Berlino.
Stimolato dai due avvenimenti appena citati e dal crescente interesse della cronaca mediatica nei confronti dell’immigrazione, anche il cinema italiano ha ricominciato ad avvertire il richiamo della realtà e a raccontare storie nelle quali nel nostro paese, per la prima volta, si dava rilievo a figure legate all’esperienza migratoria.
L’intensificarsi dei flussi migratori, seppure con un margine di ritardo verso altri paesi europei, ha stimolato diversi cineasti al confronto con questa nuova realtà e a ricercare nuove forme di narrazione del presente e di rappresentazione audiovisiva del reale.
Ad una prima ricognizione sul rapporto tra cinema del reale e immigrazione, è apparso chiaro che le nuove relazioni sociali e culturali tra autoctoni e alloctoni, emerse con il progressivo delinearsi di una società multietnica, abbia in qualche modo ricondotto un’intera generazione di cineasti, sia quelli impegnati esclusivamente nel cinema documentario, sia quelli che si sono dedicati principalmente alla fiction di matrice realistica, ad interrogarsi sui mutamenti del tessuto urbano antropologico e a cercare quindi materia di ispirazione proprio dai nuovi rapporti, conflittuali o dialoganti che siano, determinatesi dalla contiguità delle diversità culturali all’interno di uno stesso paesaggio italiano.
Nel contesto di rinnovamento del corpo sociale degli anni Novanta e all’interno di una cinematografia in profonda crisi di pubblico e di idee, com’era allora quella italiana all’inizio degli anni Novanta, che rifletteva la fase di disimpegno e di disincanto civile che caratterizzava il paese, alcuni singoli cineasti hanno cominciato a raccontare le prime storie di immigrazione che hanno trovato la loro ragione di essere in una rinnovata attenzione al presente.
Altro dato positivo conseguito dalla cinematografia di finzione è la presenza ormai quasi ventennale di registi e filmmaker che hanno scelto di vivere e di svolgere la loro attività in Italia. È il caso di Ferzan Ozpetek e del meno conosciuto Rachid Benhadj che sono stati probabilmente i primi registi migranti a trasferirsi nel nostro paese in pianta stabile. Tuttavia ancora oggi, a distanza di oltre un quarto di secolo dall’avvio del fenomeno migratorio, sono pochissimi i cineasti di origine straniera che stanno dando il loro contributo fondamentale per far sentire questo paese meno provinciale e chiuso rispetto al resto dell’Europa. Gran parte di questi agiscono e operano, anche per motivi di budget, nel campo del documentario.
Pummarò (1990) di Michele Placido, Articolo 2 (1992) di Maurizio Zaccaro, Lamerica (1994) di Gianni Amelio, Vesna va veloce (1996) di Carlo Mazzacurati, Ospiti (1998) di Matteo Garrone sono titoli che, ciascuno con diversa sensibilità e linguaggio, si confrontano con il fenomeno dell’immigrazione, cercando di coglierne alcuni aspetti peculiari nell’Italia di quegli anni. Sono film che attraverso la figura dello straniero mettono in scena conflitti più o meno drammatici e che si propongono come scelta prioritaria di sposare il punto di vista dei nuovi arrivati. Nel suo esordio alla regia Michele Placido in Pummarò (1990) racconta il percorso di un giovane immigrato ghanese attraverso l’Italia, con l’intento di denunciare la generale condizione lavorativa e umana di tanti africani immigrati e l’atteggiamento razzista e xenofobo già ampiamente diffuso tra la popolazione. Sceneggiato da Rulli e Petraglia, Pummarò è costruito sullo schema del film d’inchiesta; sia perché influenzato dalla cronaca dell’epoca sia per la struttura narrativa che segue le vicende del protagonista alla ricerca del fratello (Pummarò) scomparso improvvisamente. Due anni dopo Maurizio Zaccaro con Articolo 2 mette in scena la difficile e controversa applicazione pratica di un principio fondamentale della nostra Costituzione riguardante i diritti e libertà individuali, attraverso la figura del marocchino Said, immigrato a Milano dove lavora come operaio nel cantiere per la costruzione della metropolitana, nel momento in cui cerca di far valere lo stato civile di poligamo in un paese in cui questa condizione non è prevista né culturalmente né legalmente.
Nel 1994 Gianni Amelio, nell’affrontare un tema di forte impatto sociale come l’immigrazione di persone provenienti dall’Est Europa, decide di spingersi oltre il dato cronachistico, fondendo il discorso sulla contemporaneità ad una più approfondita riflessione storica del fenomeno. Il film mette in evidenza sia quella spinta alla delocalizzazione affaristica tipica di alcuni faccendieri italiani verso un’Albania appena uscita dal regime, sia l’arrivo di tanti immigrati albanesi sulle coste italiane, con l’intento di proporre attraverso le figure dei due protagonisti anche una similitudine storica tra l’Italia dell’emigrazione e la nuova immigrazione.
Con Vesna va veloce (1996) un altro regista attento alla realtà come Mazzacurati, il quale peraltro aveva già portato sullo schermo una figura di immigrata con il personaggio di Ania nel suo Un’altra vita (1992), sceglie di raccontare l’esperienza italiana di Vesna, una ragazza ceca che giunta in pulmann dal suo paese per un viaggio turistico decide di non farvi ritorno.
Il personaggio di Vesna è caratterizzato dal cliché della giovane donna dell’ Est con la passione per lo shopping e i bei vestiti firmati che arriva in Italia con il sogno dell’Occidente opulento e che dopo una serie difficoltà finisce per prostituirsi. Vesna si accorgerà ben presto che in quella parte d’Europa segnata dalle inesorabili leggi del mercato e del denaro, quel sogno lei non potrà realizzarlo. Nonostante la riproposizione del cliché sociologico della giovane e avvenente straniera destinata a finire sulla strada, il film resta uno dei pochi tentativi di rappresentare in controcampo la condizione di chi arriva in Italia sprovvisto di denaro e di relazioni; si capiva già allora attraverso lo svolgimento del film che per le persone come Vesna l’Italia non sarebbe stata la terra delle opportunità e che il soggiorno nel nostro paese avrebbe riservato a lei come a tante altre donne straniere una condizione di isolamento e di marginalità.
Una vera e propria svolta nel cinema di migrazione sono Terre di Mezzo (1996) e Ospiti (1998), primi due film di Matteo Garrone. Il lavoro di Garrone sulla materia narrativa è frutto di un approccio cinematografico nel quale la scrittura cinematografica prende le mosse e si delinea direttamente sui luoghi dell’azione e insieme agli interpreti sul campo.
Nei due film citati ci sono una serie di figure colte direttamente sul campo che vengono chiamate dal regista a rappresentare se stesse. La prostitute nigeriane, il benzinaio egiziano e i due ragazzi albanesi in cerca di lavoro come muratori nelle case degli italiani;
oppure i due ragazzi albanesi di Ospiti, camerieri e lavapiatti in un ristorante dei Parioli, nei film di Garrone diventano personaggi-persona funzionali ad una struttura narrativa che non tradisce mai la loro condizione esistenziale di immigrati e restano legati a luoghi in cui essi vivono nella realtà. Nella forma di drammaturgia scelta da Garrone non ha più senso stabilire i confini tra finzione e documentario, tra recitazione e spontaneità
dell’azione poiché in quei casi il pro-filmico coincide con la messa in scena e la persona coincide con il personaggio; l’intervento dell’autore regista risulta decisivo nel ricucire questi frammenti di realtà e rielaborarli in funzione di una narrazione compiuta. Il risultato è che le figure migranti di Garrone non sono pensate dall’autore ma agiscono per rappresentare se stesse e la loro condizione; da qui il senso di forte realismo documentario delle sue prime opere.
Torino Boys (1997) dei fratelli Manetti è stato realizzato all’interno di una serie di quattro film sul tema immigrazione dal titolo Un altro paese ai miei occhi, prodotta da Pier Giorgio Bellocchio per la Rai. Il filo narrativo della storia è il viaggio di tre giovani nigeriani da Torino a Roma per vedere una partita di calcio allo stadio Olimpico e incontrare alcune ragazze della comunità nigeriana di Roma, ma i tempi rilassati della cultura nigeriana prenderanno il sopravvento sulla frenesia degli orari cittadini e non consentiranno ai protagonisti di raggiungere il luogo della gara. Alla fine si riuniranno tutti nella casa di alcune giovani connazionali per vedere la partita in televisione. All’interno della casa abitata e frequentata da nigeriani noi spettatori vediamo la scena con una sorta di obiettivo rovesciato, da un punto di vista nel quale i più spaesati e fuori luogo sono i due personaggi italiani presenti nell’appartamento.
Aspetto curioso di Torino Boys è che i personaggi si esprimono in una sorta di pidgin italian inventato dagli autori insieme agli interpreti, i quali sono non professionisti, tranne un inedito Luca Laurenti, i quali mantengono i ritmi e i tempi della loro cultura d’origine, cercando non di integrarsi ma di ricreare la loro Africa in Italia.
Sempre nella seconda metà degli anni Novanta esce L’assedio (1998) di Bernardo Bertolucci tratto dal racconto di James Lasdun. Il discorso della migrazione e della relazione interculturale è trattato implicitamente e inserito nella formula della storia d’amore tra diversi. La trama del film si svolge interamente in un grande appartamento di Piazza di Spagna a Roma, in una splendida cornice scenografica nella quale lei è una giovane esule africana, Shandurai (Thandie Newton), ha dovuto abbandonare il suo paese dopo che suo marito, maestro elementare ed oppositore del regime è stato arrestato. Lui, Mr. Kinsky (David Thewlis), è un benestante ed eccentrico signore inglese, che si guadagna da vivere dando lezioni di pianoforte ai bambini, e abita solo in quella casa romana ereditata da una zia ricca. L’occasione di incontro e di conoscenza tra i due è data da motivi di scambio: lui le offre ospitalità in cambio delle pulizie, e, neanche a dirlo, finisce per innamorarsene.
Il tema dell’immigrazione nei film di Corso Salani, girati in gran parte all’estero, è stato declinato nel rapporto di incomunicabilità tra le persone e di straniamento tra esseri umani e ambiente.
In Occidente (2000) Corso Salani fonde il tema dello spaesamento nei confronti dei luoghi con l’immagine del corpo e della rappresentazione del personaggio femminile. Lavorando sul personaggio di Malvina (Agnieszka Czekanska), giovane romena trasferitasi in Italia subito dopo la rivolta contro Ceausescu, Salani riesce a ribaltare lo stereotipo della straniera prostituta proveniente dall’Est Europa, così come è emerso nell’immaginario italiano nel corso degli anni Novanta. Il regista lavora lungamente sul personaggio femminile, dandogli una valenza ambivalente e stilisticamente in bilico tra documento e finzione, come figura dello spaesamento e di ribellione interiore. Teatro d’azione della protagonista e del co-protagonista maschile, un insegnante interpretato dallo stesso Salani, è la cittadina di Aviano in Friuli, sede della base militare statunitense che diventa nel film una sorta di non luogo nel quale i personaggi sembrano girare a vuoto, muovendosi per le strade e negli interni senza avere con gli spazi nessun rapporto di familiarità e di empatia, immersi in uno stato di totale scollamento con l’ambiente circostante. In tutto il decennio successivo i film sull’immigrazione aumentano anche sulla base di un mutato clima politico-sociale seguito alla vittoria delle destre alle elezioni politiche del 2001 e agli effetti provocati da una brutta e iniqua legge sull’immigrazione, la Bossi-Fini, legge 189 del 30 luglio 2002, che introduce norme più restrittive nei confronti dei permessi di soggiorno e finisce per soffocare quei già labili progetti di accoglienza e di inserimento degli stranieri e favorire indirettamente, con la necessità di dover dimostrare un regolare rapporto di lavoro, l’ingresso e il ritorno a uno stato di clandestinità degli immigrati presenti in Italia.
Tornando a casa (2001) di Vincenzo Marra è la storia di un gruppo di pescatori costretti a varcare i confini delle acque italiane per sopravvivere con il loro lavoro. Il piccolo equipaggio ogni notte attraversa il canale di Sicilia, superando i confini delle acque internazionali per pescare nelle acque tunisine, meno sfruttate, consapevole di incappare nella reazione violenta della guardia costiera del paese nord africano. Protagonista del film è il napoletano Franco che ha dovuto lasciare la sua città per non sottostare alle imposizioni camorristiche, il quale condivide la rischiosa impresa con altri compagni di bordo e soprattutto con l’algerino Samir che ha lasciato il suo paese per diventare uno di quei tanti lavoratori immigrati. Nel film viene messo in evidenza il senso di estraneità dei personaggi nei confronti dell’ambiente sociale. Il peschereccio diventa un luogo di interazione tra le persone, le quali al di là della loro origine condividono lo stesso lavoro e gli stessi rischi, perché sulla barca vige la legge del mare, che non discrimina e che considera l’essere umano in quanto tale. Nella figura del protagonista l’immagine dello sradicamento si concretizza nella parte finale del film, nel momento in cui egli decide di unirsi ad un’imbarcazione di clandestini fingendosi africano. Attraverso il cambio di identità di Franco, Marra coglie quelle motivazioni profonde che spingono il protagonista a lasciare il suo paese per tornarvi nella nuova condizione di migrante. In Tornando a casa il mare diventa così un non luogo di transito, dove le identità fluttuano su superfici labili e si misurano solo nel nudo rapporto con la natura e nella quotidiana lotta per la sopravvivenza.
Tra il 2005 e 2006 escono diversi film sull’argomento immigrazione.
In Saimir (2005) di Francesco Munzi, il tema è spostato sul racconto delle seconde generazioni, su quei figli di immigrati che si trovano a vivere in questo paese per una decisione presa dai loro genitori. Come si intuisce già dal titolo, la figura del protagonista diventa centrale nello sviluppo e negli esiti della vicenda del film. Saimir è un ragazzo di sedici anni di origine albanese che vive sul litorale laziale, in quella striscia di terra tra Ostia e Torvaianica che da più di venti anni accoglie immigrati dell’Est Europa, arrivati in Italia dopo il crollo dei regimi socialisti. Saimir è cresciuto con il padre in una casa che un tempo ospitava probabilmente una famiglia romana in villeggiatura. Saimir che non va più a scuola e compie piccoli furti, non riesce a condividere l’attività del padre trafficante di esseri umani, non per ragioni morali, ma perché non sopporta che le illusioni e le speranze di immigrati simili a lui vengano calpestate e tradite in quel modo. Così, quando un bambino albanese appena sbarcato gli chiede se in Italia si vive bene, lui non ha il coraggio di rispondere per non dovergli mentire. Più che uno scontro generazionale tra figlio e padre quella di Saimir è una storia sulle aspettative delle seconde generazioni. Il rapporto padre-figlio si presenta da subito come un conflitto dovuto a due visioni diverse dell’esistenza; mentre il padre cerca di trasmettergli l’idea di una sistemazione a qualsiasi costo, Saimir non accetta il suo cinismo e ha in mente altri progetti di vita. Le diversità si possono cogliere nel diverso rapporto affettivo e sentimentale che i due stabiliscono con donne italiane. Il padre sceglie di sposare la sua compagna italiana non per amore ma per sistemarsi definitivamente in Italia e risolvere la questione del suo permesso di soggiorno; il figlio si innamora di una ragazza italiana perché sente per lei attrazione e affinità caratteriale, anche se una certa sua leggerezza di comportamento provocherà un equivoco e finirà per farla allontanare definitivamente da lui. Il suo riscatto umano avverrà nel finale quando denuncerà gli aguzzini di una ragazza albanese (compreso il padre) che dopo averla violentata la stavano avviando alla prostituzione. Le scelte di Saimir non sono lucide e ragionate e la sua ribellione per buona parte del film è fatta di reazioni impulsive ai condizionamenti del padre. Alla fine Saimir prenderà coscienza del fatto che non può esistere alcuna giustificazione economicistica capace di fargli accettare quelle aberranti forme di inganno, di violenza e di sopraffazione delle quali per anni anche lui si stava rendendo complice.
Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005) di Marco Tullio Giordana, riprende solo nel titolo il bel reportage scritto sull’immigrazione in Italia di Maria Pace Ottieri pubblicato nel 2003 per Nottetempo edizioni. Il film di Giordana prende spunto da un rovesciamento di consuetudine nel rapporto tra italiani e immigrati. Nel soggetto del film è un italiano ad essere tratto in salvo da un ragazzo che viaggiava su un barcone carico di migranti verso Lampedusa; si tratta del dodicenne Sandro caduto in mare alcune ore prima nel corso di una crociera con il padre e un amico di famiglia. È un percorso di formazione e di crescita quello di Sandro, figlio unico di una ricca famiglia di industriali bresciani che fino al momento dell’incidente non aveva mai avuto occasioni di scambio comunicativo con gli stranieri, pur osservandoli ogni giorno al lavoro nell’azienda del padre. Solo dopo essere scampato all’annegamento, Sandro scopre un nuovo modo di rapportarsi agli adulti e diventa più sensibile a rispondere alle chiamate di chi ha bisogno di aiuto.
Nel 2006 esce l’Orchestra di Piazza Vittorio di Agostino Ferrente, un documentario che ripercorre con ironia e leggerezza il progetto di formare una piccola orchestra di musicisti immigrati, provenienti da diversi paesi del mondo. Il film diventa in qualche modo un piccolo caso cinematografico dell’anno e ha il doppio merito di sdoganare il termine documentario dal concetto di noia e di convincere i distributori a portarlo nelle sale.
Con Lettere dal Sahara (2006) Vittorio De Seta, riconosciuto maestro del cinema documentario, dopo diversi anni di inattività, ritorna al lavoro per raccontare una storia di immigrazione, nella quale attraverso la figura di Assane, migrante senegalese interpretato dal non attore Djibril Kébé, intraprende il suo individuale percorso di migrazione in una sorta di viaggio in Italia compiuto in altra epoca e in altro contesto, che si pone sulla scia di quello già effettuato nei primi anni Novanta da Kuwku, il protagonista di Pummarò di Michele Placido. Dopo oltre quindici anni anche Assane sbarcato sulle coste della Sicilia risale il paese verso il Nord, in un viaggio che vuole essere emblematico e descrittivo della intolleranza culturale, sociale e legislativa diffusasi in Italia degli ultimi decenni. Il protagonista vive sulla propria pelle una serie di discriminazioni e di aggressioni che lo spingono alla decisione di far ritorno in Africa. Giunto di nuovo nel suo paese, Assane diventa maestro e testimone vivente nel suo villaggio di una condizione migrante durissima, molto diversa da quella immaginata dalle persone che sono in procinto di compiere per la prima volta il viaggio verso l’Italia. Un percorso migratorio che registra tutta la chiusura e l’inadeguatezza della società di accoglienza, nella quale l’immigrato diventa il soggetto misuratore delle difficoltà di stabilire relazioni umane e civili con le diversità.
Tra il 2007 e il 2008 sono usciti altri titoli degni di nota che hanno affrontato storie di migrazione che suggeriscono punti di vista inconsueti per rappresentare lo straniero.
Con La Giusta distanza (2007) Mazzacurati ripropone una figura dell’immigrazione con il personaggio del tunisino Hassan, meccanico esperto e volenteroso, stimato dagli abitanti di un piccolo centro della bassa padana in cui vive da diversi anni. Per una serie di sfortunate coincidenze viene ingiustamente accusato dell’omicidio di Mara, giovane maestra di cui si era innamorato. Anche in questo film Mazzacurati, attraverso lo sguardo dello straniero mette in luce il perdurare di un pregiudizio xenofobo della piccola comunità di cittadini nei confronti di chi arriva da fuori.
Nell’arco di poco tempo seguono altri registi, giovani e meno giovani che affrontano la tematica immigrazione in modo diretto. Tra questi va ricordato l’italo tunisino Mohsen Melliti, che ha esordito come scrittore proprio sui temi della migrazione con un libro reportage Pantanella. Canto lungo la strada (1992) e poi realizzando un lungometraggio Io, l’altro (2007) un film di finzione sulla capacità dei media di generare sospetti e la loro azione quotidiana nel creare inimicizia tra due amici di culture diverse. La storia, interamente ambientata su una barca di pescatori tra la Sicilia e la Tunisia, è stato interpretato e co-prodotto da Raoul Bova. Con Corazones de Mujer (2008) di Pablo Benedetti e Davide Sordella il discorso sull’immigrazione assume i toni della commedia grottesca in un film nel quale il viaggio a ritroso della giovane marocchina Zina da Torino al Nord Africa in procinto di sposarsi, viene accompagnata da Shakira, un suo amico transgender fino a Casablanca per recuperare la verginità perduta. Il viaggio sarà un’occasione per entrambi per fare i conti con la loro originaria identità sopita e le radici culturali del loro paese natio.
Riparo (2008) di Marco Puccioni è un film in cui il discorso sull’immigrazione si fa più fluido e più sfumato dal punto di vista della posizione ideologica, perché abbiamo tre personaggi che sono potenzialmente oggetto di discriminazione sessuale e razziale, una coppia di donne omosessuali e un giovane immigrato marocchino. Ognuno dei personaggi non è soltanto portatore della propria singolarità individuale ma è inserito in una dimensione più generale di appartenenza di genere e sociale, all’interno delle quali disponibilità economica, l’identità di origine, l’orientamento sessuale, implicano differenti livelli di esclusione o di inclusione sociale. Condizioni che corrono continuamente il rischio di restare chiuse nella gabbia del pregiudizio e dell’etichetta classista, sessista o razzista.
Questi personaggi pian piano riescono però a superare i loro rispettivi pregiudizi grazie alla voglia di ascolto e di relazione e trovano la possibilità di interagire gli uni con gli altri.
In Billo-Il Grand Dakhaar (2008) di Laura Muscardin, il protagonista Thierno, immigrato per amore e per ambizioni professionali, approda in Italia per realizzare il suo sogno, affermarsi nel mondo della moda. Ben presto però si ritrova a fare i conti con una realtà ben diversa da quella che aveva immaginato nel suo paese. La precarietà dell’immigrato è ben mostrata nella scena in cui il protagonista Thierno, appena giunto in Italia trascorre la notte nell’auto dismessa del centro di rottamazione veicoli. Ad un certo punto il film prende una piega diversa da ciò che era stato preannunciato nell’inizio documentaristico e si sposta sul registro della favola realistica. Grazie al suo candido ottimismo, al suo nuovo lavoro di tappezziere e all’incontro con una ragazza italiana che si innamora di lui, Thierno ribalta il suo destino di povero immigrato e si avvia alla realizzazione del suo sogno di successo e di ricchezza.
Laura Muscardin opta per i toni della leggerezza affabulatoria non per descrivere la realtà dell’immigrazione qual è ma come può essere immaginata e desiderata nella mente del protagonista. Una realtà che è solitamente rappresentata per denunciare ed evidenziare la pesantezza e la difficoltà del vivere dei migranti in un paese in cui non si hanno appoggi e punti di riferimento.
Nel dittico comico Lezioni di cioccolato (2007) di Claudio Cupellini e Lezioni di cioccolato 2, di Alessio Maria Federici, il personaggio dell’immigrato, l’egiziano Kamal (l’attore Hassani Shapi nella realtà è di origini kenyote), è ridotto a macchietta schematica in funzione dei capovolgimenti previsti dalla trama. Nel primo film il geometra Mattia Cavedoni, interpretato da Luca Argentero, ricattato dal suo ex operaio egiziano infortunatosi nel cantiere dove lavorava in nero, è costretto a fingersi egiziano e a prendere il posto del suo ex dipendente e a seguire un corso da cioccolataio per non subire una denuncia all’ispettorato del lavoro. Nel sequel, la commedia degli equivoci prosegue con l’arrivo di Nawal (Nabiha Akkari), bellissima figlia di Kamal, della quale immancabilmente si innamora Mattia Cavedoni all’insaputa del padre della ragazza.
Bianco e Nero (2008) di Cristina Comencini, è uno dei primi tentativi di trattare la questione immigrazione utilizzando la struttura di genere, in questo caso in forma di commedia sentimentale. La presenza di Fabio Volo come protagonista maschile rafforza questa tipologia di racconto. Credo sia interessante che alcuni titoli della letteratura dell’immigrazione stiano cominciando ad arrivare sul grande schermo. Per la fiction odierna crediamo che sia importante superare l’idea di costruire a tavolino dei personaggi in qualche modo rappresentativi di una certa condizione sociale o esistenziale, altrimenti il rischio è quello di appiattirsi sugli stereotipi circolanti nei telegiornali e nelle fiction televisive o, nel migliore dei casi di riesumare dei modi di rappresentazione che ci riportano alla stagione gloriosa ma tramontata del cinema di denuncia e di impegno civile. Questa tendenza al personaggio esemplare, che rappresenta una tipologia sociale ben distinta la si ritrova non solo nei film degli anni Novanta ma anche in diversi film di recente produzione; anche se è avvertibile in Bianco e Nero un tentativo di superare gli schematismi di facile riconoscibilità e di dare un rilievo più sfaccettato alle figure sociali.
Nei film sopracitati infatti la donna immigrata non è una cameriera o una prostituta, come accade in tanti film di genere, ma è una donna affermata nel lavoro e ben inserita nella comunità. Per la trattazione del personaggio femminile, il film di Cristina Comencini si pone in controtendenza rispetto agli stereotipi culturali sull’immigrazione che circolano sui media.
Oltre a Bianco e Nero ci sono altri film realizzati negli stessi anni, tra il 2008 e il 2010, che affrontano le tematiche dell’immigrazione secondo modalità che poco concedono al conformismo diffuso, cercando anche di sperimentare delle variazioni del tema negli ambiti del genere commedia e del noir come dimostrano le opere di giovani registi come Corazones de Mujer (2008) di Pablo Benedetti e Davide Sordello, i quali mettono in scena una commedia on the road dall’Italia al Marocco sull’identità sociale e sessuale di due personaggi appartenenti alla comunità maghrebina di Torino. E del secondo lungometraggio Il resto della notte (2008) di Francesco Munzi che dopo la bella prova di Saimir (2005) sposta lo sguardo su una vicenda notturna ambientata a Torino nel sottobosco cittadino della precarietà e dell’emarginazione.
In Cover Boy (2008) di Carmine Amoroso la trattazione della figura dello straniero di origine romena offre al regista l’occasione per un discorso narrativo sull’uso del corpo umano come strumento e oggetto di consumo. Il protagonista è in questo caso un immigrato che per motivi economici giunge a Milano, città della moda e della pubblicità, dopo il crollo del regime di Ceausescu e per tentare l’avventura in quell’Occidente ricco di opportunità, ma finisce per accorgersi presto che l’opulenza della società del mercato è uno specchietto per le allodole per quelli come lui e come il suo convivente italiano che lavorano per sopravvivere, prigionieri del desiderio frustrato di poter ottenere un giorno quei beni che la società mostra in continuazione nella moda e nella pubblicità e che sono in realtà riservati soltanto a pochi privilegiati; per lui che si rifiuta di offrire la propria immagine (l’anima) ai creativi della moda che usano il suo corpo nudo per lanciare un nuovo capo di abbigliamento l’unico rifugio possibile è il sottosuolo della stazione, oppure il ritorno nel suo paese d’origine.
Good Morning Aman (2009) primo lungometraggio di Claudio Noce, con Valerio Mastandrea nel ruolo di co-protagonista e di co-produtore, racconta una storia inedita di immigrazione attraverso la figura di Aman un ventenne nato e cresciuto a Roma da genitori somali che vive in periferia accumulando su di sé la rabbia di chi è tagliato fuori dalle opportunità di una esistenza serena. Con Good Morning Aman il regista estende alcune situazione narrative e atmosfere già presenti nel suo precedente cortometraggio Adil e Yousuf (2007), dove vengono rappresentate figure di immigrati di seconda generazione, espressione di tanti ragazzi nati e cresciuti in Italia che in tanti casi non hanno più alcun legame con il paese di origine della famiglia e che si sentono italiani a tutti gli effetti. Il tema delle seconde generazioni è molto sentito anche per via di una legge sulla cittadinanza, la legge 91 del 5 febbraio 1992, basata sul principio dello Ius Sanguinis (è cittadino italiano chi ha almeno un genitore italiano). Negli ultimi anni l’argomento è stato oggetto di una forte campagna d’opinione per la revisione di tale legge al fine di garantire ai ragazzi della G2 di acquisire la cittadinanza dalla nascita. 18 Ius Soli (2012) è un documentario di Fred Kuwornu, un filmmaker nato a Bologna da genitori ghanesi, composto da interviste e testimonianze e realizzato a sostegno di una campagna di revisione della legge esistente e per la concessione della cittadinanza in base al diritto di suolo. Una questione che coinvolge attualmente quasi un milione di ragazzi che devono aspettare il compimento della maggiore età per chiedere la cittadinanza italiana.
Non c’è dubbio che in questa nuova frontiera dell’immaginario in cui operano i registi di documentario e di finzione, più sensibili alle questioni delle relazioni interculturali e della convivenza civile dovranno comprendere sempre di più le ragioni e le aspirazioni di questi ragazzi di seconda generazione che svolgeranno un ruolo da protagonisti a tutti i livelli della vita sociale e culturale italiana.
Là Bas – educazione criminale (2009), opera prima del regista napoletano Guido Lombardi, si inserisce nel filone di un nuovo realismo cinematografico nel quale le storie di finzione scaturiscono e si definiscono sulla base di una lunga frequentazione dei luoghi e dal trattamento narrativo di fatti, personaggi e situazioni reali.
Il laggiù a cui fa riferimento il titolo è, nello specifico, Castel Volturno, da diversi anni meta di tanti giovani africani in fuga dai loro paesi in cerca di una vita migliore, un territorio che si rivela però nel suo impatto con l’esperienza quotidiana, sia ai nuovi che ai vecchi abitanti, insicuro, malsano e inospitale, saccheggiato dal malaffare, martoriato e violentato dai fuochi e dai veleni di scarti industriali sepolti nel sottosuolo, una terra dove ci si ammala per cause ambientali più che in altre zone d’Italia e dove vige uno spietato sistema di sfruttamento di una manodopera occasionale di recente immigrazione, in gran parte proveniente dai paesi dell’Africa occidentale.
Partendo da un’inchiesta di Fabrizio Gatti per l’Espresso dalla quale emergeva come i nuovi immigrati spesso venivano sfruttati anche da altri africani immigrati prima di loro e da una lunga frequentazione come operatore al seguito di gruppi musicali afro-italiani operanti sul territorio, Guido Lombardi riesce, superando numerosi ostacoli produttivi e ambientali, a realizzare un film a basso costo di forte tensione e coinvolgimento narrativo che restituisce allo spettatore un quadro convincente e veritiero di una comunità di immigrati nel rapporto con le radicate usanze e gli endemici problemi della società degli autoctoni.
Girato senza dare nell’occhio nei luoghi reali e con attori non professionisti, prende spunto da un episodio di cronaca. La feroce strage camorristica del 18 settembre del 2008 in cui rimasero vittime sei immigrati africani va oltre il dato cronachistico e racconta dall’interno le attese e le frustrazioni di persone che speravano di trovare in Italia un luogo più sicuro e accogliente di quello che hanno lasciato nel loro paese d’origine e che spesso, messi di fronte ad una realtà diversa, non hanno il coraggio di svelare questa amara scoperta ai loro parenti e amici che sono rimasti in Africa e che sperano anch’essi un giorno di tentare l’avventura in Occidente.
Scontro di Civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio ( 2010) di Isotta Toso è liberamente tratto dal romanzo scritto in italiano dall’italo algerino Amara Lakhous pubblicato nel 2006 nelle edizioni e/o. Rispetto al romanzo di partenza il film travisa completamente il tono narrativo, spostando il linguaggio del racconto verso le atmosfere del giallo ed eliminando completamente le situazioni umoristiche scaturite dalla dimensione culturale dei personaggi e riducendoli a funzioni schematiche della trama. Il film resta un’occasione mancata poiché avrebbe potuto dare una rappresentazione dell’universo multietnico del quartiere Esquilino collegandosi alla tradizione della commedia all’italiana, della quale Lakhous è conoscitore ed estimatore, ma le scelte autoriali sono andate purtroppo in direzione del genere noir e risultate, rispetto alle premesse letterarie, fuori luogo e fuori contesto.
Negli ultimi quindici anni, il cinema dell’immigrazione ha prodotto opere di rilievo soprattutto nell’ambito del documentario, complice anche la facilità di accesso alle tecnologie digitali. Nel genere documentario, che in questo caso sarebbe più corretto chiamare docufilm, se non altro per l’alto tasso di narratività contenuta, c’è stata una sorta di reinvestimento estetico sul reale che si è caratterizzato nel metodo di un rispetto profondo nei confronti di persone, fatti e luoghi della realtà.
Tale metodo è nato da un’esigenza di reazione alla funzionalità dilagante nel corso degli anni Ottanta e Novanta e ha inizialmente riguardato sparute truppe di documentaristi anonimi che operavano spesso in aree appartate del paese, altre addirittura in esilio volontario all’estero, tutte però rigorosamente lontane dai riflettori e dai fragori luccicanti della televisione commerciale. In questa fase il documentario si è assunto il compito etico di scoprire e raccontare storie di persone e di realtà a noi vicine ma sconosciute perché non riuscivano ad entrare nell’interesse del circuito mediatico, che esprimevano però la necessità di essere raccontate.
Alcune di queste storie sono state individuate e raccontate ne Il mondo addosso (2006) di Costanza Quatriglio, una cineasta tra le più rigorose e sensibili al tema dell’immigrazione. Il mondo addosso è il primo e unico film che si occupa dei cosiddetti minori non accompagnati, una definizione che riguarda i ragazzi immigrati in Italia da minorenni che risultano tutelati dalla legge italiana fino alla maggiore età. Una volta divenuti maggiorenni però, quegli stessi ragazzi che erano stati ospitati in centri di accoglienza, devono affrontare il problema della regolarizzazione del loro status e rischiano di scivolare nella condizione di clandestinità.
Nel suo film Costanza Quatriglio ne ha individuati alcuni nei centri di accoglienza, seguendoli nelle loro ricerche e peripezie per la città in cerca di un lavoro e di un’attività che, secondo i dettami della legge Bossi-Fini darà loro la possibilità di restare in Italia. Le quattro storie del film si snodano alternativamente. Quella di Josif, ragazzo afgano scampato alla guerra scoppiata nei primi anni duemila e approdato in Italia dopo un viaggio rocambolesco e pericoloso che è durato mesi, è la più coinvolgente e toccante. Sin dalle prime inquadrature del film sugli snodi ferroviari della stazione Termini, apprendiamo dalla sola voce narrante che il progetto migratorio di Josif non è solo di sopravvivenza ma è sostenuto dalla promessa fatta alla madre in punto di morte di raccontare al mondo ciò che è accaduto e la tragedia della loro storia. Per una precisa scelta di regia l’immagine di Josif non è visibile allo spettatore, perché ancora invisibile è la sua presenza all’interno della città in cui ha trovato rifugio in una condizione di anonimato e di indifferenza che non lo distingue dai tanti senza tetto che ogni notte devono cercarsi un posto riparato dove dormire.
In questo senso, un film esemplare è stato “Come un uomo sulla terra” (2008) di Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene che nell’asfittico panorama del giornalismo di inchiesta si è trovato ad assolvere la funzione di un reportage dirompente, suscitando alla sua presentazione al pubblico, un forte dibattito politico e tanta indignazione nell’opinione pubblica per aver mostrato e denunciato attraverso la viva voce delle testimonianze, le violenze sui migranti compiute dalla polizia di Gheddafi, in seguito all’accordo italo-libico sul controllo dei flussi migratori verso l’Italia.
Seguendo più da vicino le trasformazioni del genere documentario degli ultimi anni è possibile incontrare infatti oltre a una più marcata visione antropologica che pone la figura umana come soggetto centrale del racconto, un più frequente ricorso alla forma del docufilm che consente all’autore di innestare sul tronco del materiale documentario, ramificazioni narrative costruite a partire dalle memorie soggettive e dai racconti autobiografici delle persone filmate.
Sotto questo aspetto Le ferie di Licu (2007) di Vittorio Moroni è un film significativo. Il metodo seguito di Moroni è quello del pedinamento zavattiniano che ha spinto il regista a seguire con una sorta di registazione diretta alcuni aspetti delle opinioni e della vita di Licu, in particolare la sua idea della donna, la preparazione e la festa del suo matrimonio in Bangladesh e il suo ritorno a Roma con la moglie. Il film riesce a restituirci un ritratto antropologico di un immigrato che pur vivendo a Roma da nove anni nel quartiere Tor Pignattara porta con sé aspettative e strutture mentali del suo paese d’origine. Ciò che emerge di interessante nelle ferie di Licu non è tanto la sua storia di straniero integrato e la sua capacità di adattarsi alla società d’accoglienza (Licu è un accanito tifoso della Roma), ma la sua convinzione di voler conservare elementi della sua cultura d’origine che si esplicita anche nel tipo di relazione che egli instaura con gli abitanti del quartiere dove vive. Vittorio Moroni, anche nel suo nuovo film di finzione Se chiudo gli occhi non sono più qui (2013), ancora non distribuito, ripropone una storia legata in qualche modo all’immigrazione con una vicenda ambientata a Roma, il cui protagonista è un ragazzo di seconda generazione, e nella quale vengono approfonditi rapporti formativi e conflittuali con il padre adottivo e altre figure maschili adulte.
Del 2010 sono due film ben più riusciti sul piano della trasposizione linguistica e della regia. Si tratta degli adattamenti da La straniera (1999) dello scrittore algerino Younis Tawfik, portato sullo schermo da Marco Turco nel 2010 e del romanzo Il padre e lo straniero (1997) di Giancarlo De Cataldo portato sullo schermo da Ricki Tognazzi.
Il film di Marco Turco, liberamente ispirato al testo di Tawfik, in preparazione dal 2005 ha subito varie vicissitudini produttive che ne hanno ritardato il completamento di post-produzione di alcuni anni, fino ad allungare l’uscita del film e la presentazione al pubblico nel 2010. Anni in cui sono avvenuti in materia cambiamenti decisivi rispetto al tempo della prima pubblicazione del romanzo. Un tempo lunghissimo in rapporto al peso che il fenomeno immigrazione ha assunto nel decennio scorso che ha indotto il regista ad operare necessariamente una sorta di riconsiderazione della storia dei due personaggi principali, entrambi stranieri, alla luce dei mutamenti sociali e legislativi intervenuti nel corso del decennio. Il film è ambientato a Torino, una città a forte presenza maghrebina fin dagli anni Ottanta ed è costruito su un incontro tra due diversi e opposti stati di immigrazione. Allo straniero integrato interpretato da Ahemd Hafiene nelle vesti di un affermato e benestante architetto che vive in città da trent’anni, apparentemente senza problemi di inserimento fa da contraltare Amina, giovane marocchina da poco in Italia, che non parla l’italiano, che vive in uno stato di emarginazione sociale, senza lavoro e costretta a prostituirsi per potersi mantenere. Sarà un incontro casuale a sconvolgere la vita di entrambi; per Amina l’architetto rappresenta la possibilità di concretizzare il sogno di avere una famiglia e una vita dignitosa, per l’architetto l’amore di Amina sarà altrettanto sconvolgente perché minerà alla base l’illusione di essersi integrato completamente nel paese di accoglienza. A differenza del romanzo che avrà esiti tragici per entrambi i personaggi, nel film viene accentuato il conflitto tra le aspirazioni dei protagonisti e le istituzioni e ha un esito meno tragico e fatalistico.
Nel finale Amina e l’architetto si ritroveranno nel CIE (Centro di identificazione ed espulsione) di Torino. E da lì dovranno ricominciare da zero.
Nel triennio 2011-2013, in Italia l’interesse dei cineasti per il fenomeno dell’immigrazione si è andato consolidando, anche per una serie di sommovimenti geopolitici che hanno coinvolto soprattutto i paesi del Nord Africa e al rinfocolarsi della questione degli sbarchi in Italia. Sulla base di questi eventi autori giovani e meno giovani sono riusciti a rielaborare figure e storie di immigrazione in funzione della loro sensibilità e delle scelte linguistiche.
Alle suggestioni cristiane associate agli stati di immigrazione facilmente individuabili in film come Sette opere di Misericordia (2011) di Gianluca e Massimiliano De Serio, Terraferma (2011) di Emanuele Crialese, Il villaggio di Cartone (2011) di Ermanno Olmi si sono aggiunte le narrazioni epico-documentaristiche di opere come La nave dolce (2012) di Daniele Vicari e di Anja (2013) dell’italo-albanese Roland Seiko; due film che fanno ampio uso di materiale di repertorio relativo all’esodo migratorio dall’Albania in Italia del 1991 e che ripercorrono, ciascuno dal proprio punto di vista, i riflessi umani politici e sociali di quella grande avventura collettiva.
Un discorso a parte merita Andrea Segre che ha fatto dell’immigrazione il tema centrale della sua poetica di cineasta e che ha operato nel campo del documentario con film di forte impatto sociale come il già ricordato Come un uomo sulla terra (2008) diretto in collaborazione con Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene, seguito da Il sangue verde (2010) girato a Rosarno in Calabria dopo gli scontri che avevano coinvolto i migranti e la popolazione locale; Il sangue verde si basa sulla testimonianza di alcuni immigrati che denunciano le condizioni lavorative ed abitative subite nel periodo in cui erano impegnati come braccianti negli agrumeti della zona. Il documentario successivo, Mare Chiuso (2011), realizzato in collaborazione con Stefano Liberti, ricostruisce sempre attraverso le testimonianze di alcuni protagonisti il viaggio di migrazione verso l’Italia, la pratica dei respingimenti in mare avviata dalle autorità italiane nel 2009 e la prigionia dei migranti nelle carceri libiche fino allo scoppio della primavera araba in Libia e in Tunisia. Nello stesso film, in alternanza alle testimonianze di denuncia dei protagonisti, il regista ricostruisce la causa di risarcimento vinta nel febbraio del 2012 presso la Corte di giustizia europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo contro le autorità italiane da 11 immigrati somali e 13 eritrei richiedenti asilo per i respingimenti in mare e la mancata applicazione della legge sul diritto d’asilo. Recentemente l’interesse di Andrea Segre per il tema dell’immigrazione si è espresso anche nella finzione. Io sono Li (2012) e La prima neve (2013) raccontano storie con messa in scena e interpretazioni di attori, anche se traspare nelle due narrazioni una ricerca documentaria sottostante.
Io sono Li, ambientato in gran parte a Chioggia, è incentrato sul sentimento di affetto e di amicizia tra una giovane madre immigrata in attesa di ricongiungersi al figlio ancora in Cina e Bepi, un anziano pescatore e poeta di origini slave che vive da trent’anni in Italia. Il sentimento dei due sarà male interpretato e destinato a subire i pregiudizi della comunità del luogo. La prima neve si svolge in una località sulle Alpi e ha come protagonista un immigrato africano che attende il riconoscimento dello status di rifugiato per trasferirsi in un altro paese europeo. Il film racconta di queste attese e della sua amicizia con un bambino cresciuto senza padre e con un carattere difficile.
In questa sua seconda opera di finzione, Segre attenua di molto il discorso della conflittualità tra immigrati e autoctoni, puntando sulle possibili affinità tra le persone che abitano il paesaggio un montuoso imponente e solo in apparenza duro e inospitale. Un paesaggio poeticamente inquadrato attraverso gli occhi incantati dello straniero.
Uno dei luoghi ricorrenti per le ambientazioni di diversi film sull’immigrazione è la scuola. Dalla scuola dell’infanzia alle scuole serali per stranieri, questa istituzione è sempre stato un contenitore sociale di confronto di incontri e di conflittualità di bambini, ragazzi e adulti immigrati provenienti da diverse zone del pianeta. Sono ambientati nelle scuole molti documentari realizzati negli ultimi anni. Sotto il Celio azzurro (2009) di Edoardo Winspeare è girato all’interno di un asilo multietnico del Celio, uno dei mitici setti colli di Roma, dove quasi tutti i bambini che lo frequentano sono figli di seconda generazione.
La scuola Italiana (2010) di Giulio Cederna e Angelo Loy è girato nella scuola elementare Carlo Pisacane situata a Tor Pignattara, in uno dei quartieri più multietnici di Roma. Per la scuola superiore un altro film documentario degno di nota è Fratelli d’Italia (2010) di Claudio Giovannesi, girato all’interno dell’Istituto Toscanelli di Ostia che racconta tre storie vere di ragazzi di seconda generazione e delle loro famiglie di origine, romena, bielorussa ed egiziana; è proprio dalla storia documentaria di Nader nato a Roma e figlio di genitori egiziani Giovannesi ha preso spunto per il personaggio del suo film di finzione Ali dagli occhi azzurri (2012).
In ordine temporale uno degli ultimi film usciti sull’argomento è La mia classe (2013) di Daniele Gaglianone. Il film è interpretato da Valerio Mastandrea, unico attore professionista in una classe di immigrati nella scuola serale per adulti stranieri. La narrazione si svolge attraverso un ibrido mescolamento tra esigenze di messa in scena e documentazione delle situazioni reali vissute dagli studenti del film, comprese le estenuanti trafile legate ai permessi di soggiorno e il probabile rischio di finire da un giorno all’altro nell’incubo della clandestinità. La sceneggiatura del film scritta dal regista con la collaborazione di Gino Clemente e Claudia Russo, vera insegnante in una scuola per immigrati, si muove in bilico tra realtà e finzione con l’intento di suggerire allo spettatore una riflessione sulla reale possibilità che la macchina da presa ha, dal momento in cui entra in azione, di influire e di modificare la realtà che rappresenta.
Al termine di questo sintetico percorso sul rapporto tra fenomeno dell’immigrazione e cinema italiano è possibile ritenere che il confronto di tanti registi e cineasti con uno dei temi cruciali e sconvolgenti del nostro tempo, quali sono appunto gli spostamenti e i nuovi insediamenti umani in tessuti urbani consolidati e stratificati in un arco di tempo molto più lento, abbia stimolato la ricerca di un proficua fusione tra sensibilità antropologica e uno sguardo sul reale più approfondito e partecipato rispetto all’informazione mediatica e alla gran parte della produzione di fiction. Uno sguardo sulla realtà necessario ed esteticamente stimolante che, al di là delle diverse sensibilità estetiche, ci è sembrato comune agli autori e alle autrici che si sono confrontati con le figure della migrazione a seguito delle prime ondate migratorie cominciate all’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo.
Vincenzo Valentino è nato a Casagiove in provincia di Caserta. Laureato in Lettere in indirizzo spettacolo all’Università di Roma “La Sapienza” con una tesi in Storia e critica del Cinema. Dal 1994 lavora come docente di linguaggio audiovisivo e di materie letterarie nella scuola superiore. Attualmente è dottorando di ricerca in storia del cinema italiano presso l’Università di Tor Vergata di Roma; è autore di un racconto per ragazzi “La repubblica dei gatti” (2009) pubblicato in edizione bilingue (italiano-tedesco) dalla Verlag Kessel e co-regista del docufilm “Mamma Rom” (2012)
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