L’ente Fiera del Levante tra Europa, Mezzogiorno e Mediterraneo dal secondo dopoguerra agli anni ’60

Negli ultimi anni la storiografia ha concentrato con maggiore insistenza la propria attenzione sul rapporto tra processo di integrazione europea e processo di decolonizzazione, «prodotti gemelli della fine dell’eurocentrismo»[i]. Contributi recenti hanno ricostruito le politiche comunitarie verso i paesi in via di sviluppo e indagato l’influenza esercitata dalle relazioni tra Nord e Sud del mondo sull’integrazione economica e politica in Europa[ii]. Obiettivo di questo lavoro è quello di avviare una prima riflessione sulle implicazioni indotte dell’emergere di economie ex coloniali sulla costruzione europea, considerata tuttavia nella sua dimensione regionale. Prendendo le mosse dall’esigenza di guardare alla vicenda europea a partire dalle sue articolazioni territoriali[iii], nella duplice direzione delle ripercussioni prodotte dall’integrazione comunitaria sullo sviluppo regionale e del protagonismo delle territorialità nello spazio europeo, si è scelto di porre in evidenza il caso della Fiera del Levante di Bari. L’interesse per la Campionaria pugliese deriva dalla sua funzione di organismo di promozione economica e commerciale che, a partire dal Secondo dopoguerra, è andato promuovendo specifiche strategie di sviluppo regionale in relazione alle dinamiche politiche e ai processi economici internazionali. In particolare, si è tentato di mettere in evidenza come, tra anni Cinquanta e Sessanta, gli ambienti camerali, gli intellettuali e la borghesia economica pugliese raccolti attorno all’ente Fiera, abbiano prodotto una specifica rappresentazione dello sviluppo della regione esposta a una tensione divaricante tra la prospettiva di una liberalizzazione degli scambi su vasta scala e quella di un’integrazione economica europea. La scelta tra queste due opzioni, del resto, era tutt’altro che neutrale rispetto al modello economico pugliese e alla possibilità di conservare e consolidare rapporti commerciali con le prossimità regionali del bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente. In questo senso, nell’arco dei due decenni presi in considerazione e delle due presidenze di Nicola Tridente (1949-1963) e di Vittorio Triggiani (1963-1976), la Fiera perveniva all’elaborazione di una specifica indicazione di sviluppo per la Puglia, quale realtà periferica continentale in grado, tuttavia, di esprimere una sua intrinseca centralità e capacità di mediazione tra Europa, Mezzogiorno e Mediterraneo. La costruzione del Mercato comune e la sua forza di attrazione sull’economia pugliese avrebbero progressivamente indebolito questa visione di mediazione economica e culturale ridimensionandone il respiro strategico a favore di un nuovo interesse delle classi dirigenti verso le politiche di intervento promosse dall’emergente politica regionale comunitaria[iv].

 

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“Nicola Tridente”, in «Il Mezzogiorno e le Comunità europee», a. I, n. 4, agosto 1962.

 

 

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“Vittorio Triggiani”, in «Civiltà degli scambi», a. VIII, nn. 81-84, maggio-agosto 1963

 

 

Il consolidamento, presso alcuni settori delle classi dirigenti pugliesi, di un consenso verso la costruzione di più forti legami tra le economie nazionali dei paesi europei e la liberalizzazione degli scambi commerciali sul continente, era andato maturando già a partire dai primi anni del Secondo dopoguerra. Sebbene si trattasse di individualità isolate e di settori avanzati delle categorie economiche e produttive, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, aveva cominciato a farsi strada la convinzione che i problemi della ricostruzione e dello sviluppo dell’economia meridionale potessero essere meglio affrontati nell’ambito di una piena collocazione dell’Italia nel campo occidentale e in un contesto di cooperazione solidale tra i paesi europei e tra questi e gli Stati Uniti. Iniziative come il progetto di unione doganale italo-francese nel 1947, il varo dello European recovery program (Erp), la costituzione del Consiglio d’Europa nel 1949 e, poco più tardi, la creazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (Ceca) nel 1952, rappresentarono il terreno di coltura dell’impegno europeista e dell’interesse verso la costruzione di un edificio comunitario entro cui organizzare segmenti sempre più consistenti dello spazio economico europeo. A spendersi in questa direzione furono in primo luogo gli ambienti intellettuali ed economici riuniti attorno alla Fiera del Levante, nel tentativo di garantire un’ampia circolazione delle merci e della manodopera meridionale e, allo stesso tempo, strumenti di intervento in grado di risolvere le debolezze strutturali del Mezzogiorno[v].

Sebbene destinato a svolgersi secondo percorsi e sensibilità differenti, il progressivo radicamento di questo tipo di consapevolezza nella borghesia economica e nelle classi politiche pugliesi si sarebbe innestato nel solco generale della politica economica condotta dai governi centristi, che affidava un ruolo fondamentale alla stabilizzazione monetaria, al riequilibrio della bilancia commerciale e alla ricostruzione di un’economia di mercato concorrenziale sul piano internazionale[vi]. Su questa base, sin dal 1947-1948, si erano venute ponendo le condizioni per una confluenza, quantomeno sul piano teorico, tra le politiche praticate a livello nazionale e la tradizione liberista del meridionalismo pugliese del primo Novecento, sulla scia di grandi interpreti quali Antonio De Viti De Marco e Gaetano Salvemini[vii]. Le opportunità connesse a una politica deflattiva e di graduale apertura dell’economia italiana ai traffici internazionali incontravano, nello specifico, una visione locale dello sviluppo incentrata sulla valorizzazione delle potenzialità di un comparto agro-industriale modernizzato, competitivo e pronto a cogliere le sollecitazioni prodotte dall’abbattimento dei contingenti doganali e dall’ampliamento degli sbocchi commerciali esteri. Questa impostazione, rigidamente liberista sul piano internazionale e gradualista rispetto ai tempi dello sviluppo regionale, era particolarmente sostenuta, nel tornante della fine degli anni Quaranta, dagli istituti camerali della regione, in particolar modo dalla Camera di Commercio di Bari e dal presidente degli industriali baresi, Isidoro Pirelli[viii]. I margini per uno sviluppo di tipo industriale della Puglia dovevano cioè rimanere collegati in maniera pressoché esclusiva alla trasformazione a ciclo completo dei prodotti del suolo e all’impianto di una manifattura complementare e di servizio al settore agricolo.

 

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“Visuale aerea del quartiere della Fiera del Levante (1961)”, in «Civiltà degli scambi», a. VI, n. 3, marzo 1961

 

 

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“Padiglione della Fiera del Levante”, in «Il Mezzogiorno e le Comunità europee», a. IV, n. 28, agosto-settembre 1965.

 

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“Fiera del Levante: esposizione del settore della meccanica agraria (zona orientale del quartiere fieristico)”, in «Civiltà degli scambi», a. VI, nn. 9-10, settembre-ottobre 1961

 

Non a caso, dopo la fine del conflitto, uno dei primi obiettivi delle classi dirigenti pugliesi era stata la ricostituzione su nuove basi della Fiera del Levante, una delle più importanti campionarie del Mezzogiorno italiano. L’Ente Fiera, sorto nella seconda metà degli anni Venti allo scopo di fornire una proiezione internazionale dal carattere imperialistico ai settori economici di Bari e del suo entroterra[ix], a partire dal Secondo dopoguerra marcava una forte discontinuità con le politiche protezionistiche intraprese durante il fascismo, sviluppando un orientamento marcatamente favorevole alla liberalizzazione degli scambi commerciali, alla valorizzazione del potenziale economico insito nei traffici commerciali con le prossimità regionali del bacino del Mediterraneo e, infine, ai tentativi di integrazione delle economie europee. Le attività predisposte in occasione della dodicesima edizione della Fiera, nel settembre 1948, esattamente a un anno dalla ripresa dopo l’interruzione imposta dal conflitto, chiarivano come la Campionaria stesse divenendo sede di rappresentazione degli orientamenti tenacemente liberisti della borghesia agraria e mercantile dell’area barese. Il 12 settembre, il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, visitava la Fiera partecipando ad una commemorazione di Antonio De Viti De Marco tenuta da Ernesto Rossi[x]. Nei giorni successivi si svolgeva un convegno sul tema “Erp e Mezzogiorno”, dove emergeva chiaramente la preoccupazione, più volte espressa dai dirigenti della Camera di Commercio di Bari, di intensificare gli scambi tra i paesi del Vecchio continente, al fine di correggere e annullare il disavanzo che, nei confronti degli Stati Uniti, l’“Europa marshalliana” era andata accumulato nella sua bilancia dei pagamenti[xi]. La mozione finale del convegno, cui avevano preso parte anche alcuni esponenti della Svimez, raccomandava alle autorità nazionali che «nella partecipazione italiana al piano ERP in funzione della collaborazione europea», oltre all’imprescindibile esigenza del risanamento del bilancio, dello sviluppo dell’agricoltura e dell’artigianato, la riduzione dei costi, l’aumento della capacità di acquisto sul mercato interno e «il massimo incremento dei traffici internazionali», si tenessero in massima considerazione le esigenze del Mezzogiorno quale “area depressa”, attraverso tutti quei programmi di bonifica e di «potenziamento delle zone già ad alta intensità agricola […] naturale premessa alla conseguente industrializzazione»[xii]. Indicazioni di questo tipo, delineavano un approccio di politica economica di impianto sostanzialmente liberista, che riservava alla Puglia il ruolo di area fornitrice di prodotti agricoli grezzi o lavorati sul mercato interno ed estero, come premessa per la crescita, nei tempi lunghi, dei comparti industriali direttamente raccordati con il settore primario.

Questa linea sarebbe stata approfondita con determinazione soprattutto a partire dal gennaio 1949, quando, dopo la fine della gestione commissariale imposta con la caduta del fascismo, al vertice della Fiera era stato nominato Nicola Tridente, un docente di tecnica mercantile e industriale dell’Università di Bari che aveva maturato sin dalla fine degli anni Venti una notevole esperienza in diversi organismi regionali per il commercio internazionale delle derrate agricole[xiii]. Tridente era nato a Triggiano, in provincia di Bari, il 20 novembre 1899. Laureatosi presso l’Istituto superiore di Scienze economiche e commerciali di Bari nel 1922, vent’anni più tardi sarebbe succeduto a Nicola Garrone alla cattedra di tecnica bancaria e professionale e a quella di tecnica mercantile e industriale presso l’Ateneo barese. Tra la seconda metà degli anni Venti e gli anni Trenta, Tridente si era fatto promotore, dopo una vivace campagna di stampa, dell’istituzione a Bari di un Mercato dei prodotti del suolo e dell’Ufficio di controllo per l’esportazione delle mandorle. Consulente presso diverse aziende locali di esportazione, aveva svolto numerosi soggiorni all’estero nei paesi dell’Europa centrale e occidentale, «concorrendo a creare nuovi sbocchi per i mercati di produzione italiani, trattando affari, organizzando agenzie e inoltre regolando questioni inerenti alla nascita e allo sviluppo dei mercati». Alla fine degli anni Trenta la sua competenza nel settore degli scambi commerciali era in tal modo riconosciuta che Tridente divenuto consulente dell’Istituto nazionale per il commercio estero e presidente della Compagnia italiana sussidiari dell’esportazione ortofrutticola (Cisseo), di cui curò personalmente i servizi in Belgio, Olanda e Gran Bretagna. Tridente, che con la fine della guerra nel Mezzogiorno d’Italia aveva subito ripristinato il gruppo pugliese di esportatori di mandorle e portato a termine alcuni accordi commerciali con l’Ice e con il Ministry of Food britannico, poneva immediatamente mano alla riorganizzazione di tutti i servizi della Fiera, nel tentativo di promuoverne il passaggio «da fiera-mercato a fiera-guida»[xiv], di fare dell’ente il principale luogo di elaborazione delle politiche per lo sviluppo economico meridionale, di acquisizione di sempre maggiori quote di credibilità presso l’opinione pubblica nazionale ed estera e, infine, di promozione degli scambi commerciali lungo le direttrici dei Balcani, del Mediterraneo e dei paesi dell’Europa occidentale, rotte di tradizionale aspirazione da parte degli ambienti imprenditoriali di Bari e dell’entroterra[xv]. A queste finalità Tridente avrebbe dedicato particolari energie, dirette a rafforzare la collaborazione tra gli ambienti intellettuali baresi e l’ufficio stampa della Fiera, un’operazione che avrebbe avvicinato alla Campionaria giovani come Vittore Fiore, Mario Dilio, Giuseppe Giacovelli, Domenico Sabella e Pasquale Satalino, tutte personalità sensibili ai temi del meridionalismo di derivazione azionista e salveminiana[xvi]. Gli stessi uomini che, qualche anno più tardi e sempre sotto l’impulso di Tridente, avrebbero animato la rivista dell’ente, “Civiltà degli Scambi”, e dato vita al cosiddetto “Gruppo dei Meridionalisti di Puglia e Lucania”[xvii].

Immerso nella cultura liberoscambista che caratterizzava le «tradizioni delle facoltà di Economia e commercio e di agraria dell’Ateneo barese»[xviii], il presidente della Fiera aveva maturato dunque la profonda convinzione che «il problema del Mezzogiorno [fosse] anche un problema di commercio estero», e che andasse esperito ogni tentativo al fine di favorire la competitività delle produzioni meridionali sui mercati stranieri, soprattutto attraverso la sottoscrizione di un alto numero di accordi commerciali «tendenti ad impedire il formarsi di compartimenti chiusi, economico-politici, che sono la causa prima dei conflitti»[xix]. Questa inclinazione era destinata del resto a trovare ampio sostegno e riscontro in alcuni settori del governo nazionale, in particolare da parte di Ugo La Malfa, ministro del Commercio con l’Estero[xx], il quale, visitando la Fiera nel settembre 1952, aveva ricordato la scelta del VII governo De Gasperi di liberalizzare unilateralmente gli scambi nei confronti dei paesi membri dell’Unione europea dei pagamenti (Uep), decisione che aveva posto l’Italia all’avanguardia nel processo di abbattimento dei contingenti tariffari in Europa[xxi].

Tuttavia, già a partire dagli anni Cinquanta, gli orientamenti liberoscambisti della Fiera erano destinati a confrontarsi con impostazioni diverse, che affondavano le proprie radici nel favore verso le ipotesi di maggiore integrazione delle economie europee, assunte come presupposto per il potenziamento degli strumenti di sostegno allo sviluppo del Mezzogiorno. Nel 1956, veniva pubblicato Europa senza dogane, una raccolta di saggi curata da Giulio Bergmann con la collaborazione di alcuni eminenti federalisti ed economisti[xxii], in cui venivano presentati i risultati di un’inchiesta promossa dal “Comitato di studi sul mercato europeo”, costituito presso la Camera di commercio di Milano tra il 1954 e il 1955, sull’atteggiamento delle categorie produttive dinanzi ai propositi di mercato comune[xxiii]. L’inchiesta «sembrava dimostrare una larga, effettiva disponibilità all’ipotesi di unificazione da parte degli stessi e più diretti interessati, che l’attendevano […] con la ragionata sicurezza di essere in grado di affrontarla senza troppi inconvenienti»[xxiv]. Il volume conteneva anche alcune riflessioni dell’economista pugliese Giuseppe Di Nardi[xxv] che passava in rassegna le problematicità legate all’inserimento nel Mercato comune di un paese come l’Italia, afflitto da divari regionali[xxvi]. Di Nardi tornava poi sull’argomento sul finire del settembre 1956 quando la Fiera del Levante giunse ad ospitare un padiglione dedicato alle attività della Ceca nell’ambito della consuetudine, che si andava rafforzando presso i dirigenti dell’ente fieristico, di organizzare accanto alle “giornate del Mezzogiorno” un’apposita “giornata della Comunità”[xxvii]. Alla presenza di Enzo Giacchero, membro dell’Alta Autorità, e di Guido Cortese, ministro per il Commercio con l’estero, Di Nardi affrontò il problema dello sviluppo delle regioni meridionali nell’ottica dell’unificazione del mercato europeo, sostenendo in modo alquanto significativo che, dopo il secondo conflitto mondiale, si era avuta «una nuova manifestazione del “mito egualitario”» consistente nella «abolizione delle diseguaglianze nella distribuzione spaziale del reddito»[xxviii]. Le asserzioni dell’economista andavano nella direzione di smontare la «consuetudine della migrazione del lavoro», sostenendo la necessità che i capitali fossero investiti nelle aree caratterizzate da un eccesso di manodopera, senza incentivare oltre i flussi migratori verso i nuclei industriali. Di Nardi, del resto, non esitava a criticare il rapporto dei capi delegazione al comitato intergovernativo di Bruxelles, rilevando come «ancora viva e radicata» fosse «l’antica convinzione secondo la quale l’allargamento del mercato, in senso spaziale, consente una più economica utilizzazione delle risorse disponibili entro la stessa area geografica»[xxix]. Non bastava dunque aumentare le dimensione di scala degli scambi e abbattere ogni barriera alla libera circolazione delle persone, delle merci e del capitale, ma occorreva guardare alla distribuzione del reddito tra le diverse regioni d’Europa. In altre parole, «l’aumento del potere di acquisto globale non risulta[va] automaticamente dall’abolizione degli intralci che frena[va]no e comprim[evano] gli scambi, ma dipende[va] dal modo come si distribuirà il beneficio degli scambi in aumento»[xxx]. Queste considerazioni avvertivano sul rischio che l’apertura del mercato comune potesse operare a danno delle aree del sottosviluppo, se non crearne delle nuove. «Si può fondamentalmente presumere – sosteneva Di Nardi – che lo sviluppo economico dell’Italia se ne avvantaggerebbe, ma con molta probabilità sarebbero ancora le regioni settentrionali, più prossime al centro della Europa, a trarne il maggior profitto. Si può ragionevolmente ritenere che il distacco fra lo sviluppo del Nord e quello del Sud si accentuerebbe»[xxxi]. Era allora necessario che la politica di sviluppo regionale del Mezzogiorno fosse resa compatibile con il regime di libera concorrenza alla base del mercato comune non solo ammettendo delle eccezioni, ma chiedendo l’intervento della Comunità per il suo concorso all’azione intrapresa dallo Stato italiano e per una regolazione dei sussidi e degli incentivi allo sviluppo a livello comunitario e non a livello dei singoli governi. Era questo, per Di Nardi, un modo affinché «i problemi delle zone sottosviluppate divent[assero] problemi della Comunità tutt’intera e non più problemi locali dei singoli paesi»[xxxii]. Il risvolto in termini politici dell’impostazione dell’economista pugliese era quello di legare inevitabilmente il successo delle politiche della Comunità al «modo come funzioneranno in concreto le istituzioni del mercato comune». Così facendo, a partire da considerazioni di ordine teorico, Di Nardi poneva le premesse non solo per l’europeizzazione del problema del sottosviluppo meridionale, ma anche per una più accentuata consapevolezza presso le classi dirigenti pugliesi della necessità storica dell’unità europea e di una distribuzione di poteri reali a livello sovranazionale.

 

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“Giuseppe Di Nardi”, in «Civiltà degli scambi», a. VII, nn. 67-69, marzo-maggio 1962

 

 

Queste riflessioni, che andavano maturando negli ambienti economici e soprattutto in quelle personalità legate all’esperienza della Svimez e dell’intervento straordinario, non avrebbero mancarono di determinare i primi segnali di mutamento negli orientamenti e nella condotta delle classi dirigenti della Puglia. Già in occasione della discussione parlamentare del giugno 1957 sul “secondo tempo” dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, alcuni parlamentari democristiani di tradizionale ispirazione liberista, come il barese Michele Troisi, avevano combattuto tutte quelle posizioni critiche sulle reali possibilità e sulla stessa opportunità di avviare un processo di industrializzazione al Sud. A quanti avevano affacciato l’idea che fosse inutile avventurarsi nell’industrializzazione del Mezzogiorno a causa della sua posizione estremamente periferica che lo metteva nelle condizioni di non avere un mercato di assorbimento, Troisi rispondeva che le regioni meridionali avevano ben altro destino che «diventare il grande orto» dell’Europa.

 

Questo discorso non è aderente alla realtà – protestava Troisi – perché la situazione cambierà completamente in seguito al fatto nuovo rappresentato dalla creazione del mercato comune. Con la creazione di una unità economica […] che abbraccia, oltre i sei Stati che originariamente hanno firmato, anche i paesi e territori d’oltremare, la posizione del Mezzogiorno non è più periferica, ma diventa centrale, strategicamente importante proprio in conseguenza di questa unione tra l’Europa e l’Africa. E’ opportuno osservare che i paesi e territori di oltremare da un lato costituiscono fonti di approvvigionamento di materie prime che mancano al continente europeo […] d’altro lato rappresentano il naturale mercato di assorbimento dei nostri prodotti, dei nostri manufatti»[xxxiii].

 

Europa, Mezzogiorno, Mediterraneo. Alla fine degli anni Cinquanta le classi dirigenti pugliesi stavano infine approdando a una chiara visione strategica dello sviluppo del Mezzogiorno d’Italia, in grado di collocarlo con un ruolo attivo nei circuiti dell’economia internazionale. Una funzione di mediazione tra l’Europa occidentale e i paesi del bacino del Mediterraneo che non fosse solo di ordine commerciale, di intrecciamento degli scambi attorno alla posizione centrale goduta dalle regioni meridionali, ma che trovasse nella cooperazione allo sviluppo con i paesi dell’Africa e del Medio Oriente, il punto di sintesi della contraddizione di un Mezzogiorno affacciato tanto sulla finestra dello sviluppo quanto su quella del sottosviluppo, cerniera tra Nord e Sud del mondo. In questo senso, emergeva la necessità di non fare del Mercato comune un complesso autarchico isolato o scarsamente integrato col sistema internazionale degli scambi. La Campionaria barese aveva mostrato, a partire dal Secondo dopoguerra, un notevole dinamismo e la capacità di stringere legami con altre realtà economiche nazionali, in primo luogo con la Fiera internazionale di Milano e il suo vasto retroterra di tecnici, di operatori e di borghesia imprenditoriale. Grande rilievo avevano avuto in Puglia, soprattutto tra i dirigenti della Fiera del Levante, i risultati dell’inchiesta promossa da Bergmann sugli orientamenti dei settori produttivi in relazione all’istituzione del Mercato comune[xxxiv]. Ma questi contatti, che favorivano la circolazione in Puglia di idee e elaborazioni prodotte in ambienti estremamente dinamici, si esprimevano anche attraverso collaborazioni come quella di Di Nardi con il Comitato europeo per il progresso economico e sociale (Cepes)[xxxv] e legami professionali particolarmente solidi come quello tra il gruppo dirigente della Fiera del Levante e Libero Lenti, che nel 1939 aveva fatto tappa all’Università di Bari, insegnando Statistica nello stesso dipartimento di Tridente[xxxvi]. All’indomani delle nuove realizzazioni comunitarie, era stato lo stesso Lenti, pur mantenendo un atteggiamento di benevola attesa, a scrivere sul “Corriere della Sera” che il Trattato, «coll’intento di rendere “più” comune il mercato tra i sei paesi della piccola Europa», corresse il rischio di tradursi «in un mercato meno comune con il resto del mondo»[xxxvii].

La circostanza che, probabilmente, contribuì più di tutte a provocare un chiarimento negli orientamenti dei settori economici pugliesi e della stessa Fiera del Levante fu, nel marzo 1958, un’intervista concessa al quotidiano romano “Il Tempo” da Guido Carli, influente ministro per il Commercio con l’estero nel gabinetto Zoli. Carli, al fine di prevenire i contraccolpi del rallentamento dell’economia americana nel 1957-1958, aveva avanzato la proposta di una politica di sostegno creditizio alle esportazioni italiane mediante l’allargamento degli sbocchi commerciali verso tutte le direzioni, inclusi i paesi dell’area socialista, consentendo all’economia nazionale di produrre beni strumentali e di venderli mediante pagamenti differiti. L’opinione di Carli era che «i Paesi poveri [dovessero] ritrovare nella propria forza di lavoro i mezzi di sussistenza e quindi si [dovessero] mantenere in grado di incorporare il lavoro nelle materie prime comperate alle migliori condizioni». Secondo il ministro era anzi necessaria «una politica commerciale che apr[isse] sbocchi in tutte le direzioni», giungendo a ritenere «indispensabile che la nostra azione nell’ambito del Mercato Comune Europeo si ispiri a questo principio ed impedisca con ogni mezzo che la zona del Mec si trasformi in un’area autarchica»[xxxviii]. La proposta di Carli dava avvio ad un acceso dibattito da cui i dirigenti della Fiera traevano ispirazione per promuovere, sul modello dell’inchiesta di Bergmann di qualche anno prima, un’indagine tra operatori ed esperti economici. Tale ricognizione, che Tridente riteneva indispensabile per sgombrare la discussione dalle «inevitabili connessioni che il problema della ricerca di nuovi sbocchi e dell’integrazione con nuovi mercati ha con la questione politica». Secondo il presidente della Fiera, si era preferito «o negare totalmente o totalmente esaltare la validità di una nuova politica del commercio con l’estero di maggiore apertura verso l’Est»[xxxix], smarrendo in questo modo la questione di fondo, ovvero se in nome del Mercato comune fosse opportuno rinunciare ad una più ampia liberalizzazione degli scambi e se fosse auspicabile impiegare capitali nel credito all’esportazione, sottraendoli agli interventi nelle aree depresse del Paese. Ambedue le questioni, evidentemente, avevano vistose connessioni con i contorni di una strategia di sviluppo per il Mezzogiorno.

La scelta su come impiegare la spesa pubblica, se negli investimenti diretti per lo sviluppo del Mezzogiorno oppure nel credito all’esportazione come strumento di apertura di nuovi mercati tramite il finanziamento dello sviluppo di paesi terzi, registrava risposte orientate verso «criteri di prudenza»[xl]. Mentre Tridente manteneva una posizione di cauta mediazione[xli], La Malfa, personalità influentissima presso gli ambienti dell’istituto mercantile, motivava la sua cautela verso l’ipotesi dei crediti all’esportazione sostenendo che l’Italia non poteva operare sui mercati esteri come fosse un paese omogeneamente sviluppato e che, sebbene l’espansione commerciale andasse cercata ovunque e in tutti i paesi, «qualunque sia il loro orientamento ideologico e il loro regime politico», appariva invece veramente «contraddittorio fare prestiti in conto capitale a Paesi dell’estero, quando il nostro ne ha tanto bisogno»[xlii].

Sebbene all’inchiesta promossa dalla Fiera del Levante partecipassero in prevalenza personalità di carattere nazionale, come Maurizio Parasassi, Libero Lenti, Guglielmo Tagliacarne, Alberto De Stefani, Alfio Titta, Ugo La Malfa, Roberto Tremelloni, Giovanni Battista Bertone e lo stesso Guido Carli, l’occasione era utile per chiarire il punto di vista dei dirigenti dell’istituto mercantile pugliese. Era lo stesso Tridente a illustrarne i passaggi essenziali, individuando nella storia del Mezzogiorno due grandi cesure, consistenti nell’adozione delle due tariffe doganali di segno opposto del 1887 e del 1950-1951. La libertà delle regioni meridionali di esportare i loro prodotti sui mercati internazionali rappresentava dunque, negli orientamenti del gruppo dirigente della Fiera, il nucleo centrale degli interessi del Mezzogiorno. Tridente sottolineava come, a partire dalla sua ricostruzione, la Fiera non si fosse sottratta «al suo compito di mantenere una porta aperta verso l’Oriente», soprattutto dopo la concretizzazione del processo di integrazione, «al servizio del quale [aveva] dichiaratamente posta la sua azione in maniera da fungere da anello di unione fra area mediterranea e Mec». La salvaguardia della libertà di commercio su vasta scala, secondo il presidente della Campionaria, poneva anzitutto la necessità di rimediare alla rottura del novembre 1958 nei negoziati del comitato Mauding, sede di discussione per la creazione di un’area di libero scambio finalizzata a una ricomposizione tra il Mec e il resto dei paesi dell’Oece, «attualmente diviso in due». Questo obiettivo poteva contribuire alla normalizzazione dei traffici, presupposto indispensabile per «attingere alle fonti di rifornimento internazionali a prezzo di mercato» e per dare soluzione al problema del Mezzogiorno che «è problema di apertura di sbocchi per i prodotti del suolo sui mercati internazionali». Allo stesso tempo, l’accesso ai mercati internazionali era considerato come il prerequisito della ripresa produttiva dell’agricoltura meridionale, «pur sempre legata ad una industrializzazione che significhi diretta valorizzazione delle risorse agricole». L’insieme di queste considerazioni spingeva Tridente ad affermare che «esiste, in ultima analisi, una stretta correlazione tra commercio estero, trasformazione fondiaria e industrializzazione»[xliii]. Questo nesso faceva affidamento sul ruolo che un’agricoltura investita da processi di ammodernamento strutturale e di trasformazione colturale e irrigua poteva giocare nel determinare, anche in Puglia, l’innesco di un solido processo di accumulazione e il definitivo decollo del settore industriale. Una visione di questo tipo, del resto, se da una parte era tributaria verso tempi necessariamente lunghi nel raggiungimento di un riequilibrio nel reddito regionale tra agricoltura, industria e servizi, dall’altra marcava la necessità di mantenere il più possibile all’interno del territorio regionale i centri nevralgici per le scelte strategiche di investimento dei capitali e di localizzazione degli impianti produttivi. Per tale motivo, la Cassa per il Mezzogiorno, impegnata nel “secondo tempo” dell’intervento straordinario, non doveva smarrire l’obiettivo della trasformazione del settore agricolo meridionale, la cui necessità era quella di adeguare le «trasformazioni colturali ai bisogni del nostro inserimento nel Mercato Comune, che sarà tanto agevole e più rapido se verrà accelerata la realizzazione dei piani di irrigazione e se sarà operato un radicale miglioramento delle strutture agricole»[xliv].

L’analisi del gruppo dirigente della Fiera era destinata non solo a confrontarsi con le spinte prodotte da consistenti settori della Democrazia cristiana per l’innesco, attraverso la dislocazione dei grandi complessi di base, dell’industrializzazione pesante in Puglia, ma anche a produrre uno specifico movente europeista. Le manifestazioni di consenso verso la costruzione comunitaria, per gli uomini di Tridente, erano frutto di un necessario momento di sintesi tra un retroterra federalista mai sopito[xlv] e l’aspirazione squisitamente liberoscambista a fare della Puglia e del Mezzogiorno d’Italia un “ponte” naturale tra Europa e Mediterraneo. Questo spingeva il gruppo dirigente della Fiera e i settori politici a esso più prossimi a muoversi di volta in volta tra manifestazioni di consenso verso le dinamiche impresse dal Mercato comune, di favore verso rapporti commerciali su ampia scala e, infine, di pressione verso le prime ipotesi di allargamento della Comunità. Se da una parte, come chiariva ancora Tridente, era necessario un «rafforzamento politico del potere comunitario che rappresenti qualcosa di più dell’addizione dei sei Stati nazionali, di più alto dell’Europa delle Patrie», dall’altra la costruzione europea doveva muovere «in una prospettiva storica di […] espansione regionale della Comunità», cosa che non avrebbe non potuto «giovare al nostro Mezzogiorno, il quale continua a sollecitare, nello spirito delle autonomie locali di domani, una progressiva instaurazione per la libertà di circolazione per persone, servizi, capitali e prodotti, una politica monetaria comune»[xlvi].

Gli ultimi anni della presidenza di Nicola Tridente alla Fiera del Levante, segnarono con chiarezza questa prospettiva. Il 26 maggio 1961, quattro anni dopo la sua ultima apparizione in Puglia, l’ambasciatore britannico in Italia, Ashley Clarke, tornava a visitare la Camera di Commercio di Bari, su invito della redazione di “Civiltà degli Scambi”. In quell’occasione, Clarke aveva avuto modo di auspicare una ripresa del dialogo tra i paesi dell’Efta e quelli della Comunità economica europea[xlvii]. Pur ammettendo che il Mezzogiorno avesse diritto «ad una certa assistenza per lo sviluppo dagli organi creati in seno al Mercato Comune», l’ambasciatore faceva leva sulla funzione di assorbimento del mercato inglese per i prodotti agricoli delle province meridionali, sostenendo che «la cosa più importante di tutte è senza dubbio che, fra il Mezzogiorno e gli altri Paesi dell’Europa occidentale, compreso il mio, dovremmo cercare di sfruttare congiuntamente e reciprocamente le risorse che sono già a nostra disposizione». Qualche mese più tardi, agli inizi di ottobre del 1961, la Fiera del Levante ospitava il commissario Robert Lemaignen, affrontando il tema della politica della Cee per i paesi d’oltre-mare in un convegno che avrebbe segnato le linee fondamentali nei successivi rapporti di associazione tra la Comunità e i paesi africani usciti dal regime coloniale[xlviii]. I

 

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“Il commissario europeo per i paesi e i territori d’oltremare, Robert Lemaignen, si intrattiene con alcuni convegnisti, tra cui Bino Olivi (Bari, 1961)”, in «Il Mezzogiorno e le Comunità europee», a. VIII, n. 49, febbraio 1969.

 

 

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“Emilio Colombo, Vittorio Triggiani e Vito Lattanzio si intrattengono con alcuni rappresentanti dei paesi associati alla Comunità (Bari, 1962)” in «Il Mezzogiorno e le Comunità europee», a. I, n. 1, gennaio-febbraio 1962

 

Il tentativo era quello di innestare nel solco del pensiero meridionalistico classico – nel cui ambito era maturata una storica avversione alle avventure coloniali interpretate come sottrazione di capitali e di mezzi per lo sviluppo del Mezzogiorno – un nuovo approccio che, pur tenendo fermo il ripudio della logica del “mare nostrum”, fosse tuttavia capace di «mettere a confronto paesi diversi per sistema economico e per grado di sviluppo, l’Europa con le aree sottosviluppate»[xlix]. In particolare, secondo Vittore Fiore, constatate le perplessità che si erano frapposte dinanzi ad una politica di sostegno creditizio alle esportazioni, era necessario avviare una fase conoscitiva, di studio, della possibilità di forme concrete di collaborazione economica con l’area del Mediterraneo. «Non possiamo più contentarci – sosteneva Fiore – di affermare che nuovi compiti e nuove possibilità si aprono per le regioni meridionali in questa direzione [e] soprattutto non si può abbandonare al caso ed alla spontaneità il nuovo corso che oggi può aprirsi per la collaborazione con i paesi africani»[l]. Era quindi necessario avviare indagini «sulle reali possibilità di compenetrazione economica» fra il Mezzogiorno e l’Africa, che non fosse semplicemente la trasformazione e l’esportazione nei paesi africani di prodotti grezzi e di materie prime provenienti da quelle stesse aree. La fornitura dell’acciaio prodotto nel nuovo centro siderurgico di Taranto, il sostegno tecnico ed economico alle regioni in via di sviluppo del bacino del Mediterraneo, potevano consentire al Mezzogiorno di svolgere un significativo ruolo di mediazione tra queste aree e l’Europa, al fine di poter guadagnare dei vantaggi «non solo nel miglioramento delle possibilità di scambi ma anche nella preparazione e anticipazione di futuri sviluppi di commercio estero in certe particolari direzioni, con compiti di specializzazione nei rapporti con i paesi del Vicino, del Medio e dell’Estremo Oriente»[li]. Come avrebbe sottolineato Aldo Moro, offrendo una significativa occasione di sintesi dell’intero dibattito, il contributo dell’Italia ai paesi di recente formazione doveva riguardare «oltre l’aspetto finanziario, nei limiti consentiti dalle nostre possibilità […], soprattutto una comune ricerca di soluzioni originali per problemi che riguardano la nostra ed altre comunità in fase di espansione». Solo in questo modo, secondo il segretario della Dc, era possibile una più stretta collaborazione, capace di «superare pregiudiziali che hanno innalzato, anche negli ultimi tempi, barricate psicologiche tra la vecchia Europa e i popoli di altri continenti»[lii].

Nonostante gli sforzi nell’elaborazione di nuovi percorsi, tuttavia, la forza di attrazione di un Mercato comune sempre più dinamico e in crescita lasciavano risicati margini di agibilità per le politiche proposte dai dirigenti della Fiera. Già nel 1961, in occasione delle celebrazioni del centenario dell’Unità d’Italia, Giuseppe Giacovazzo, membro del Gruppo dei meridionalisti, aveva modo di scrivere che «se è vero che la realtà non ci consente di fare un bilancio ottimistico dell’attuale situazione pugliese, sarebbe tuttavia inesatto affermare che in Puglia non vi siano oggi fermenti positivi e nuove prospettive incoraggianti. Abbiamo perduto i mercati tradizionali dell’opposta sponda dell’Adriatico, ma le esportazioni verso il centro Europa sono in aumento»[liii]. Alla fine del ciclo espansivo dell’economia italiana, nel 1964, il grosso delle esportazioni del Mezzogiorno, pari al 46,57%, era diretta verso l’area del Mercato comune, cui doveva aggiungersi uno 0,66% verso i paesi del bacino settentrionale del Mediterraneo associati alla Comunità, come Grecia e Turchia. I paesi dell’Efta assorbivano il 37,79% delle esportazioni meridionali, con una netta preminenza dell’economia britannica. Gli Stati del Comecon, con la restante parte dei paesi europei, e il continente africano rappresentavano rispettivamente il 9,94% e il 5,02% del totale delle merci prodotte nel Mezzogiorno e destinate all’estero[liv]. In uno scenario simile, la Puglia registrava rispetto al Mezzogiorno una dinamica di ancora più accentuata attrazione nel Mercato comune. Nel biennio 1963-1964, le importazioni delle province meridionali dalla Comunità erano passate da 113,644 a 115,733 milioni di dollari, aumentando dell’1,7%, a fronte di un export che era cresciuto del 10,8%, passato da 133,762 a 148,253 milioni di dollari. La Puglia segnava valori più elevati rispetto alla media del Mezzogiorno, sia in relazione alle importazioni (+11,1%), che alle esportazioni (+16%), denotando un forte legame soprattutto con la Germania occidentale. L’interscambio con i paesi dell’Efta, al contrario, vedeva la Puglia accrescere le esportazioni del 7,7%, segnando valori in ribasso rispetto alla media del Mezzogiorno, che si attestava attorno all’11%. Se ne ricavava che, mentre regioni come il Molise, la Campania e la Basilicata avevano esportato verso i paesi dell’Efta per valori maggiori che non verso la Comunità, il discorso contrario doveva invece farsi per la Puglia, che registrava un consistente processo di attrazione verso l’area della Comunità economica europea[lv].

A partire dalla metà degli anni Sessanta, inoltre, le gravi turbolenze attraversate da alcuni settori portanti dell’agricoltura pugliese – dalla vite, all’olivo, alla tabacchicoltura – interessati da regolamentazioni comunitarie non proprio favorevoli agli interessi degli operatori regionali, avrebbero contribuito a indebolire una visione dello sviluppo fondata sul settore primario e sulle dinamiche di industrializzazione e di scambio commerciale con l’estero che da esso potevano promanare. Il declino della strategia agroindustriale e liberoscambista, marginalizzata anche dal poderoso sforzo in atto da parte delle istituzioni nazionali per il take-off della regione attraverso l’impianto dei grandi complessi dell’industria di base, equivaleva, ad ogni modo, alla subordinazione di un modello di sviluppo particolarmente rispondente all’esigenza di stringere legami economici e commerciali con le prossimità territoriali del bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente. D’altro canto, la strategia dell’industrializzazione per poli, che le classi dirigenti pugliesi avevano vissuto in termini di alternativa a quella liberista promossa dagli enti camerali, sarebbe entrata in crisi con le profonde trasformazioni dell’economia internazionale dei primi anni Settanta e con i successivi processi di riorganizzazione internazionale del lavoro, aprendo una profonda riflessione sull’alto livello di dipendenza del processo di accumulazione regionale da centri decisionali “esterni” alla realtà pugliese e dallo scarso interfacciamento con le economie dei paesi affacciati sul Mediterraneo, dell’Africa e del Medio Oriente.

 

 

 

 


[i] E. Calandri, L’Italia e la questione dello sviluppo: una sfida tra anni Sessanta e Settanta, in P. Craveri, A. Varsori, L’Italia nella costruzione europea. Un bilancio storico (1957-2007), Milano, Franco Angeli, 2009, pp. 109-132.

[ii] Cfr. E. Calandri, a cura di, L’Europa e l’intervento per lo sviluppo (1957-2007), Milano, Franco Angeli, 2009; G. Garavini, Dopo gli imperi. L’integrazione europea nello scontro Nord-Sud, Firenze, Le Monnier, 2009, Id., After empires. European integration, decolonization, and the challenge from the global south 1957-1986, Oxford, Oxford University Press, 2012.

[iii] Cfr. C. Spagnolo, R. De Leo, a cura di, Verso una storia regionale dell’integrazione europea. Fonti e prospettive di ricerca sul Mezzogiorno, Bari, Liber Aria, 2011.

[iv] A. Bonatesta, La Puglia nel processo di integrazione europea. Politica e programmazione dello sviluppo regionale prima del FESR (1958-1975), in «Annali della “Fondazione Ugo La Malfa”», a. XXVII, 2012, pp. 191-214.

[v] Sulla Fiera del Levante si veda B. Gorjux, V. Macinagrossa, a cura di, Bari, città levante, Bari, Adriatica, 1969; I cento anni della camera di commercio di Bari, Bari, Grafiche Ragusa, 1982; M. Dilio, Fiera del Levante. 1930-1986, Mario Adda, Bari, 1986.

[vi] Cfr. B. Bottiglieri, La politica economica dell’Italia centrista (1948-1958), Milano, Edizioni di Comunità, 1984; V. Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri, Torino, Einaudi, ed. 2013; G. Sapelli, Storia economica dell’Italia contemporanea, Milano, Bruno Mondadori, 2008.

[vii] Cfr.      S. Lucchese, Federalismo, socialismo e questione meridionale in Gaetano Salvemini, Manduria, Lacaita, 2004; G. Salvemini, Il ministro della mala vita e altri scritti, a cura di E. Corvaglia, Bari, Palomar, 2006; G. Quagliariello, Gaetano Salvemini, Bologna, Il Mulino, 2007; A. De Viti De Marco, Mezzogiorno e democrazia liberale: antologia degli scritti, a cura di A. L. Denitto, Bari, Palomar, 2008. Sulla ricezione della lezione meridionalistica pugliese nel secondo Novecento si veda M. Dilio, Chi lega i fili. Un omaggio a Vittore Fiore, Bari, Adriatica, 1970 e Id., Puglia antifascista, Bari, Adda, 1977; V. Fiore, Tommaso Fiore e la Puglia, Bari, Palomar, 1996 e Id., Quale riformismo? Mezzogiorno, socialismo ed Europa nel dibattito della sinistra 1976/1998, Bari, Palomar, 2000.

[viii] Sugli orientamenti delle forze economiche locali tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta si veda R. Caccavo, Borghesia industriale e “meridionalismo liberista”. Isidoro Pirelli e il caso dell’area barese, in «Meridiana», n. 57, 2006, p. 111-138. Per un quadro generale cfr. R. Ranieri, L’integrazione europea e gli ambienti economici italiani, in R. H. Rainero, a cura di, Storia dell’integrazione europea, vol. I, cit., pp. 285-330; A. L. Denitto, Confindustria e Mezzogiorno, 1950-1958. Dibattitti e strategie sull’intervento straordinario, Galatina, Congedo, 2001; F. Petrini, Il liberismo a una dimensione. La Confindustria e l’integrazione europea 1947-1957, Milano, Franco Angeli, 2005.

[ix] Cfr. O. Bianchi, Ascesa e declino di una economia urbana tra regione e Mediterraneo, in Aa.Vv., Storia di Bari. Il Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 237-265; P. Papastratis, Megali idea and Mare Nostrum. Aspects of Greek and Italian Nationalism, in M. Petricioli, a cura di, L’Europe méditerranéenne, Bruxelles, Peter Lang, 2008, pp. 75-94.

[x] Cfr. Il Presidente della Repubblica a Bari per visitare la Fiera del Levante, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 12 settembre 1948.

[xi] Cfr. M. Dilio, Fiera del Levante, cit.

[xii] La mozione è riportata in F. Pirro, Il laboratorio di Aldo Moro. Dc, organizzazione del consenso e governo dell’accumulazione in Puglia 1945-1970, Bari, Dedalo, 1983, pp. 48-49.

[xiii] Cfr. M. Dilio, Fiera del Levante, cit., p. 95. Sul legame tra Garrone e Tridente cfr. N. Tridente, Un maestro pugliese: Nicola Garrone, Bari, Laterza, 1960. Per l’attenzione di Tridente verso la dimensione degli scambi internazionali cfr. Id., Per lo sviluppo e l’organizzazione delle esportazioni agricole con speciale riguardo ai prodotti pugliesi, Triggiano, De Bari, 1925; Il commercio delle mandorle, Cressati, Bari, 1931; Lezioni di tecnica mercantile, Bari, Luce, 1947; Un mercato organizzato per gli scambi internazionali, Di Canosa, Bari, 1959; La Fiera del Levante fra MEC ed aree in via di sviluppo, Di Canosa, Bari, 1960: Venticinque anni al servizio degli scambi, Bari, Cressati, 1962.

[xiv] N. Tridente, Da fiera-mercato a fiera-guida, s.l., 1955.

[xv] Un grande ruolo nella nomina di Tridente a presidente della Fiera del Levante lo ebbe, nella seconda metà del 1948, il sindaco democristiano di Bari, Vitantonio Di Cagno, il quale aveva ingaggiato un vero e proprio braccio di ferro con il presidente del Consiglio, De Gasperi, al fine di scongiurare la nomina del deputato Edmondo Caccuri. Di Cagno pretendeva, contro «una legge fascista [che] attribuisce al Capo del Governo la scelta del Presidente della Fiera del Levante», la nomina di una personalità adatta al carattere economico della Campionaria e non offensiva «della sensibilità dei baresi, i quali vogliono a capo di questo Ente, da loro creato e ricostruito, un barese». «Qui si tratta di tutelare l’interesse di un Ente che è divenuto un centro di propulsione della vita economica di Bari e sopra il quale sono ben aperti gli occhi di tutti i baresi – continuava Di Cagno in una lettera a De Gasperi – Si vuole un democristiano a capo della Fiera? Bene! Ma che risponda alle condizioni che quella carica richiede. Ho indicato il nome del prof. Nicola Tridente che assomma le qualità richieste», cfr. M. Dilio, Fiera del Levante, cit. Sulle élites commerciali e industriali baresi si veda O. Bianchi, op. cit.

[xvi] «Quello che hanno scritto Fortunato e Nitti, Salvemini e De Viti De Marco costituisce ancora oggi l’unico patrimonio ideale serio al quale ci si possa richiamare per inserirsi in un’Europa federata», scriveva Vittore Fiore agli inizi degli anni Sessanta, cfr. Id., Mezzogiorno e Mediterraneo, in «Civiltà degli Scambi», a. VII, n. 63-66, 1961-1962, pp. 169-171.

[xvii] Cfr. M. Dilio, Fiera del Levante, cit.; per una ricostruzione delle prime fasi dell’esperienza del “Gruppo dei Meridionalisti” si veda Id., Il Gruppo dei Meridionalisti, in «Realtà del Mezzogiorno», n. 2, febbraio 1966, pp. 373-390.

[xviii] F. Pirro, Il laboratorio di Aldo Moro, cit., p. 236.

[xix] N. Tridente, La Fiera del Levante fra MEC ed aree in via di sviluppo, cit., p. 12.

[xx] «La politica di liberalizzazione degli scambi attuata dal Ministro La Malfa trovò la Fiera fra le più schiette sostenitrici», avrebbe affermato qualche anno più tardi Tridente, cfr. M. Parasassi, N. Tridente, Nuove direzioni al commercio estero, Bari, Laterza, 1959, p. IX

[xxi] Cfr. Il dialogo che continua. La Fiera del Levante e la politica meridionalistica, Firenze, Macri, 1956. Sulla politica economica dei governi centristi e sulle scelte di Ugo La Malfa, in qualità di ministro per il commercio con l’estero, si veda M. L. Cavalcanti, op. cit.; B. Bottiglieri, op. cit.; F. Fauri, La fine dell’autarchia: i negoziati commerciali dell’Italia dal 1947 al 1953, in «Rivista di storia economica», n. 12, 1995, pp. 331-366; R. Ranieri, L’integrazione europea e gli ambienti economici italiani, cit.; L. Mechi, L’Europa di Ugo La Malfa. La via italiana alla modernizzazione (1942-1979), Milano, Franco Angeli, 2003.

[xxii] Cfr. G. Bergmann, a cura di, Europa senza dogane. I produttori italiani hanno scelto l’Europa, Bari, Laterza, 1956, pp. 199-232. Il volume ospitava contributi di eminenti federalisti ed economisti come Renato Giordano, Agostino De Vita. Giulio Bergmann, nato a Milano (1881-1956), fu eletto senatore nella prima legislatura; iscrittosi al gruppo repubblicano, fece parte della giunta consultiva per il Mezzogiorno e della delegazione italiana al Consiglio d’Europa dal 1949 al 1953.

[xxiii] Il Comitato di studi sul mercato europeo era stato costituito per iniziativa di alcuni enti e istituti milanesi come la Camera di commercio, l’Ise, l’Ispi, il Movimento federalista europeo e il Comitato europeo per il progresso economico e sociale (Cepes). Riferimenti all’inchiesta del Comitato di studi sul mercato europeo sono contenuti in R. Ranieri, L’integrazione europea e gli ambienti economici italiani, cit., p. 316; E. Decleva, op. cit.; F. Petrini, op. cit., pp. 243-244.

[xxiv] E. Decleva, op. cit., p. 450.

[xxv] Di Nardi, nato il 25 ottobre 1911 a Spinazzola, in provincia di Bari, conseguì la laurea in Scienze economiche presso l’Istituto di Commercio dell’Università di Bari. Dal 1935 al 1948, Di Nardi era entrato nell’Ufficio studi della Banca d’Italia e, tra il 1946 e il 1948 aveva preso parte, in qualità di consulente, ai lavori della commissione economica dell’Assemblea costituente. Dal 1948 al 1953 avrebbe ricoperto l’incarico di Economia politica presso l’Università di Bari, per poi trasferirsi a Napoli e a Roma, cfr. G. Di Nardi, Politiche pubbliche e intervento straordinario per il Mezzogiorno. Scritti di un economista meridionale, a cura della Svimez, Bologna, Il Mulino, 2006.

[xxvi] Cfr. G. Di Nardi, Integrazione e sviluppo economico della Comunità europea, in G. Bergmann, op.cit.

[xxvii] Cfr. Archivio Storico Istituto Luce (d’ora in poi ASIL), La Ceca organizza un convegno per discutere dei problemi meridionali, La Settimana Incom 01462 del 28 settembre 1956. Per Tridente, la funzione delle fiere andava ben al di là della semplice mostra di campioni ed esse dovevano svolgere, «in connessione con la campionatura, convegni e congressi tecnici, manifestazioni a carattere scientifico e culturale che stimolano gli uomini a comprendersi, a stimarsi in una gara di intelligenza e di attività creatrice», cfr. M. Parasassi, N. Tridente, op. cit., p. XV.

[xxviii] «I paesi con basso reddito pro capite – continuava Di Nardi – reclamano di assurgere al livello dei paesi più ricchi. All’interno di ciascun paese, gli interessi regionali manifestano un acuto risveglio, rivendicando politiche di sostegno per il sollevamento delle regioni sottosviluppate», in G. Di Nardi, Politiche pubbliche e intervento straordinario per il Mezzogiorno, cit., p. 85.

[xxix] Sulle risoluzioni del comitato di esperti cfr. Comité Intergouvernemental créé par la Conferénce de Messine, Rapport des Chefs de Délegation aux Ministres des Affaires Etrangères, Secretariat, Bruxelles, 21 avril 1956.

[xxx] Ivi, pp. 88-89.

[xxxi] Ivi, p. 93.

[xxxii] Ibidem.

[xxxiii] Cfr. AP, Camera dei deputati, II Legislatura, Discussioni, 27 giugno 1957, p. 32745. Per  il dibattito alimentato dall’approvazione della legge 634 del 1957 su “Civiltà degli Scambi” si veda F. Pirro, Il laboratorio di Aldo Moro, cit.

[xxxiv] G. Bergmann, op. cit.

[xxxv] Cfr. FUS, Giuseppe Di Nardi, serie 3 “Attività professionale e politica”, b. 71 “Cepes”, 1957-1963. Come scrive Petrini il Cepes era «un’organizzazione europea che riuniva esponenti del mondo imprenditoriale, che, sul modello del Committee for Economic Development statunitense, aveva lo scopo di promuovere inchieste e studi in campo economico e sociale». Il presidente del Cepes era Vittorio Valletta mentre altri elementi di spicco dell’industria italiana facevano parte del gruppo nazionale, cfr. F. Petrini, op. cit., p. 243.

[xxxvi] E. Decleva, op. cit.

[xxxvii] L. Lenti, Piccola Europa, in «Il nuovo Corriere della Sera», 6 marzo 1957.

[xxxviii] Ampi stralci dell’intervista sono riportati in M. Parasassi, N. Tridente, op.cit., passim.

[xxxix] Ivi, p. XIII.

[xl] Cfr. V. Fiore, Mezzogiorno e Mediterraneo, cit., p. 169.

[xli] Tridente sosteneva che «Non si tratta, attraverso il finanziamento dei crediti all’esportazione, di sovvenzionare lo sviluppo di altri Stati, sottraendo i capitali necessari agli investimenti interni a discapito della irrinunciabile politica di intervento nell’area depressa meridionale, ma di fare in modo che le due direttive non si elidano e gli interventi vadano di pari passo», M. Parasassi, N. Tridente, op.cit., p. XV.

[xlii] Ivi, p. 98.

[xliii] Ivi, p. XIII.

[xliv] Cfr. N. Tridente, La Fiera del Levante fra MEC ed aree in via di sviluppo, cit., pp. 8-9.

[xlv] Cfr. V. Fiore, Non si parla più di Federazione Europea, in «Il Nuovo Risorgimento», gennaio 1945, pp. 171-174; M. Cifarelli, Il ponte, ivi, giugno-luglio 1945, pp. 180-184.

[xlvi] Cfr. N. Tridente, La Fiera del Levante fra MEC ed aree in via di sviluppo, cit., p. 13.

[xlvii] A. Clarke, L’Inghilterra e il Mezzogiorno,  in «Civiltà degli Scambi», a. VI, n. 4 (56), aprile 1961,  pp. 25-30.

[xlviii] R. Lemaignen, La politica della Cee per i paesi d’oltre-mare, in «Il Mezzogiorno e le Comunità europee», a. I, n. 1, gennaio-febbraio 1962, pp. 11-17. Sulle politiche di associazione dei paesi africani si veda E. Calandri, a cura di, Il primato sfuggente. L’Europa e l’intervento per lo sviluppo (1957-2007), Milano, Angeli, 2009.

[xlix] N. Tridente, La Fiera del Levante fra MEC ed aree in via di sviluppo, cit., p. 2.

[l] V. Fiore, Mezzogiorno e Mediterraneo, cit., p. 170.

[li] Ibidem.

[lii] Il pensiero di Moro, ivi, p. 171.

[liii] Cfr. G. Giacovazzo, Puglia, Bari, Dedalo, 1961, p. 136.

[liv] Cfr. D. Sabella, Le regioni meridionali tra l’Europa e l’Africa. Tendenze e problemi di un triennio difficile: 1963-1965, in «Comuni d’Europa», a. XV, n. 2, febbraio 1967, pp. 13-22.

[lv] Cfr. D. Sabella, Il Mezzogiorno nell’interscambio con la C.E.E e l’E.F.T.A, in «Realtà del Mezzogiorno», a. VI, n.1/2, gennaio-febbraio 1966, pp. 25-39.

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    By: Antonio Bonatesta

    Antonio Bonatesta è assegnista di ricerca in Storia contemporanea presso l’Università del Salento. I suoi interessi di ricerca sono prevalentemente rivolti all’indagine storica del rapporto tra aree in ritardo di sviluppo e processo di integrazione europea. Ha svolto ricerche e pubblicato saggi di storia dell’ambiente, studiando il rapporto tra società umane e risorse nel Mezzogiorno italiano nel corso del Novecento. La parabola della tabacchicoltura salentina, in S. Colazzo, E fattore ieu me ne vau. Tabacco e tabacchine nel Salento contadino, Melpignano, Amaltea Edizioni, 2005, pp. 11-70; Il governo delle acque in Puglia. Dagli anni Settanta a oggi, in A. L. Denitto, Gli assi portanti. La Puglia. L’acqua, Napoli, Guida, 2012, pp. 101-161; La Puglia nel processo di integrazione europea. Politica e programmazione dello sviluppo regionale prima del FESR (1958-1975), in «Annali della “Fondazione Ugo La Malfa”», a. XXVII, 2012, pp. 191-214; The Stronghold of Southern Europeism. The Journal Il Mezzogiorno e le Comunità europee (1962-1970), in D. Pasquinucci, D. Preda, L. Tosi, a cura di, Communicating Europe: Journals and European Integration 1939-1979, Bern, Peter Lang, 2013, pp. 279-290.

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    Europeizzazione e regionalizzazione. Dall’approccio gerarchico alla differenziazione funzionale

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